Mentre scrivo queste righe sono in una dimensione temporale diversa da quella che quasi tutti noi viviamo nella quotidianità. Non ho riunioni, non devo essere in nessun posto a nessun orario, non ho improrogabili obiettivi di produzione da raggiungere entro la fine della giornata. Come qualcuno ha già intuito, oggi è domenica. Mentre la consapevolezza di vivere un determinato giorno feriale può arrivare anche durante le prime ore della mattinata, la domenica si presenta subito come tale. Può venirci il dubbio che la sveglia non abbia suonato, ma dura poco. Immediatamente realizziamo che c’è tutto il tempo di rotolarsi nelle coperte finché la fame non supera il sonno e potremo trascinare i piedi in cucina per assecondare pigramente un’altra funzione corporale.
Ricordo una domenica in cui il mio risveglio fu inusitatamente brusco. A scuotermi dal torpore in una frazione di secondo, con lo stesso effetto di una secchiata d’acqua gelida, fu la visione di un alieno. Avvistai la sua silhouette mentre mi rigiravo nel letto con gli occhi socchiusi. Tutto d’un tratto eccolo lì: una forma nera, i cui contorni sfumavano nella penombra, decisamente non umana. Dopo un mini arresto cardiaco, realizzai che davanti a me c’era soltanto una montagna di panni posati sulla sedia della scrivania. Nella mia testa, quel grosso gomitolo di abiti aveva assunto le sembianze di un visitatore dallo spazio profondo, anche se solo per un istante. Si era trattato di un’illusione pareidolitica.
La pareidolia non è soltanto un’esperienza individuale. A Napoli, nel Museo di Capodimonte, c’è un pannello dipinto nel XV secolo da Masolino da Panicale, intitolato Fondazione di Santa Maria Maggiore. Si tratta di un’opera molto conosciuta tra i cacciatori di alieni: tra i vari elementi della composizione, una particolare forma, che l’osservatore-tipo interpreta con il significato di “nuvola”, assume, per chi è abituato ad annusare cospirazioni ovunque, il significato di “disco volante”. Riletture fantascientifiche della Storia a parte, l’esempio sottolinea che le esperienze, le convinzioni, le conoscenze dell’osservatore incidono sul processo di organizzazione, in strutture ordinate, di forme di per sé prive di significato, come le nuvole o la superficie di Marte. Quindi, per fare un ultimo esempio, quella che per vostra nonna potrebbe essere una scheggiatura nella mattonella a forma di faccia-di-Padre-Pio, da voi potrebbe essere letta come Alec Guinness nei panni di Obi-One Kenobi.
Creaks è dichiaratamente basato su un lunghissimo episodio di pareidolia, appartenente alla tipologia “da cameretta”. Ombre, spigoli, librerie e abiti assumono la configurazione di ciò che una persona dall’immaginazione particolarmente suggestionabile teme possa nascondersi nell’oscurità: lupi, ladri, la Dark Polo Gang o, come nel mio caso, un alieno venuto a portare via me, proprio me, tra tutti gli abitanti della Terra. Nel gioco impersoniamo un giovane magrolino con l’aria spaurita, con i tratti somatici e fisici del nerd sepolto in casa. Durante la lettura di un libro, la lampadina della stanza da letto si fulmina. Suggestionato dal racconto letterario, il protagonista di Creaks entra in un vortice di allucinazioni bizzarre: attraverso un buco nella parete scende in una magione sotterranea abitata da uccelli antropomorfi e infestata da cani robot, meduse galleggianti in aria e altre creature dall’aspetto poco rassicurante. La più minacciosa è un colossale gatto meccanico, che ha preso d’assalto la casa dei nostri alleati con le ali.
Se la pareidolia è un fenomeno soggettivo, possiamo supporre che il nostro topo di biblioteca sia un appassionato di Poe o Lovecraft. Tuttavia è molto probabile che, al momento del blackout, fosse immerso nella lettura di Morte Malinconica del Bambino Ostrica e Altre Storie, un libro di poesie illustrate scritto da Tim Burton nel 1997. Il mondo di Creaks sembra riferirsi continuamente alle opere cinematografiche e non cinematografiche del regista. I toni dell’avventura, che si svolge in livelli sempre più profondi, sono, sì, cupi, ma non minacciosi. Il pericolo rappresentato dai “cattivi” è attenuato dal loro aspetto cartoonesco e semi-caricaturale. Per tutta la durata del gioco, un filo di ironia corre sottotraccia, affiorando nei momenti in cui occorre sciogliere la tensione delle atmosfere gotiche o cavernose.
L’estetica di Creaks è una variante emo-horror dello stile grafico dei videogiochi di Amanita Design, tra cui il più famoso è probabilmente Machinarium. La vita-di-tutti-i-giorni deformata dalla pareidolia ricorda i bozzetti dell’ideatore di Nightmare Before Christmas nei contorni ricalcati a penna e nella colorazione appiattita sui toni più scuri dello spettro cromatico. Ma le corrispondenze non finiscono ai richiami figurativi. Da un punto di vista dei contenuti, Creaks sembra ispirato a Vincent, un cortometraggio di Burton del 1982. La voce fuori campo dell’attore horror Vincent Price (da qui il nome del film) racconta la storia di un bambino che casca in una centrifuga di allucinazioni durante la lettura di un racconto di Poe. La stessa cosa capita al protagonista di Creaks, ma qui i mostri trovano spiegazione nelle illusioni subcoscienti della pareidolia. E quindi ritornano sedie, appendini o sgabelli nel momento in cui un fascio di luce li illumina, rivelando al cervello una trappola che si è teso da solo.
Un immaginario così smaccatamente indie e “meta”, considerato il numero di citazioni letterarie e cinematografiche, si sposa con un gameplay semplice semplice. Creaks si padroneggia con pochi tasti: i direzionali, la barra spaziatrice (per il salto) e il tasto azione (ctrl). È possibile ordinare al proprio alter ego in-game di passeggiare, ma, personalmente, e per tutta la durata del gioco, non mi sono mai trovato nella condizione di dover eseguire una camminata. Essendo Creaks un ottimo indie game, i suoi punti di forza sono gli stessi di tutti i titoli indipendenti più interessanti, quelli che, da soli, hanno costruito un’idea alternativa di videogioco, con i suoi punti di forza nel comparto artistico eccellente, nella colonna sonora emozionante, nel bilanciamento della difficoltà calcolato nei minimi dettagli.
Creaks è il primo puzzle game di Amanita, studio conosciuto per la qualità dei suoi punta-e-clicca. È anche la prima produzione degli sviluppatori cechi in cui è possibile morire: una scelta motivata con l’esigenza di creare un’atmosfera di tensione. Se ci riflettete, un sacco di decisioni, non solo nei videogiochi, vengono motivate dal proposito di “creare tensione”. Nella maggior parte dei casi, io questa tensione non riesco ad avvertirla, ma è possibile che giudichi comunque efficaci quelle soluzioni. È anche il caso di Creaks, in cui il tentativo di mettere il giocatore sull’attenti con un death state è invalidato dai frequentissimi checkpoint. Eppure la morte funziona nel comunicare al player che la strategia adottata non è corretta: “Questa strada non porta da nessuna parte, pensa a un’ipotesi alternativa”, sembra suggerirvi un cane meccanico quando salta addosso al protagonista per affondare le sue mascelle arrugginite nella tenera carne umana.
La possibilità di “perdere” rientra in un sistema di bilanciamenti che predispongono il player a un metodo “trial and error” progressivamente più difficile, ma mai frustrante per la gradualità con cui avviene l’apprendimento delle regole del gioco. Ognuno dei creaks ha un pattern di movimenti che dobbiamo memorizzare prima di riuscire a sciogliere i puzzle. I segugi fatti di ferraglia, ad esempio, presidiano un hotspot. Se ci avviciniamo troppo, saremo inseguiti. Sui livelli a piattaforme sono a volte disseminati degli interruttori. A proposito, Creaks è organizzato in stanze, che osserviamo frontalmente attraverso un’inquadratura statica (se volessimo utilizzare un termine preso in prestito dal mondo del cinema parleremmo di “totale”). A ogni stanza corrisponde un puzzle, il nostro obiettivo è raggiungere l’uscita.
Gli interruttori accendono o spengono lampadine, che possono essere utilizzate o per svelare l’illusione pareidolitica, illuminando i creaks e trasformandoli in comodini o sgabelli, oppure per alterare il set di movimenti di un nemico che non può attraversare il fascio di luce. A un certo punto del gioco, ci sarà dato una sorta di interruttore portatile. Potremo utilizzarlo per modificare le caratteristiche delle stanze tramite la pressione, in qualsiasi momento, del comando azione. Man mano che andiamo avanti nel corso dell’avventura, ci vengono presentati nuovi nemici con nuovi schemi comportamentali. Ciò rende la curva di apprendimento confortevole, così che possiamo arrivare preparati al momento in cui le opzioni a nostra disposizione saranno diverse e le possibili combinazioni ancora di più. Il gameplay di Creaks funziona così: il range di azioni da poter eseguire è molto semplice. Ma queste semplici azioni interagiscono tra loro in modi complessi, modificando lo scenario.
Creaks è tutto qui. La sua struttura di gioco è semplice. Del comparto artistico ho già parlato, della colonna sonora non vale la pena parlare, perché eguaglia il livello qualitativo delle punte di diamante del panorama indie e va, quindi, direttamente ascoltata. Una caratteristica interessante è il modo in cui il background musicale fa da commento alla partita, variando a seconda dei movimenti del protagonista e fornendoci tramite queste alterazioni preziosi suggerimenti per la risoluzione dei puzzle. Nelle stanze che costituiscono le fasi più avanzate del gioco, sapevo di dovermi fermare a riflettere, mettendo a punto un certo numero di tentativi per poterne analizzare l’esito, inizialmente sempre negativo.
Prendere il passo del gioco significa abituarsi a ritmi dilatati, consapevoli che tenendo in movimento le rotelle che girano nella testa riusciremo a risolvere il puzzle in una manciata di minuti, prima che l’esperienza di gioco scada in un senso di frustrazione ma dopo abbastanza tentativi da poter alimentare un senso di appagamento intellettuale quando indoviniamo quello giusto. Ecco, credo sia soprattutto la volontà di collocare ogni puzzle in equilibrio tra due sensazioni così liminari ad aver impegnato gli sviluppatori in un periodo di lavorazione di otto anni. La ricerca di simile equilibrio è quasi un’impresa da un ciclista che deve misurare le energie mentali e fisiche per non lasciarsi annientare dal lento drenaggio di energie di uno sforzo prolungato nel tempo. Ecco, se questa stagione videoludica è il Giro d’Italia e Creaks il campione in corsa per Amanita Design, state pur sicuri che ci troviamo davanti a uno dei candidati alla maglia rosa.