Parlerò di videogiochi, e del loro rapporto con il godimento e la critica. Qualche giorno fa mi è capitato di partecipare a una discussione molto accesa su un gruppo Facebook a proposito di un articolo di Matteo Lupetti, uscito su Dinamopress. Quel testo riportava e sviluppava alcune controversie politiche emerse in rapporto al game design del recente Animal Crossing: New Horizons, uscito a metà marzo per Nintendo Switch.
Tanuki e colonialismo
Il gioco è un simulatore di vita in tempo reale nel quale l’utente viene catapultato su un’isola deserta che mano a mano contribuisce ad abbellire, urbanizzare e terraformare. La differenza principale fra questo episodio e quelli precedenti sembra essere il ruolo che il giocatore/la giocatrice assumono: là ci si inseriva in un mondo ed in una società già funzionante, qui si dà inizio ad una nuova comunità, e—demiurgicamente—si trasforma la materia informe dell’isola in un calco delle proprie preferenze.
Quello che mi aveva colpito di quell’articolo, e la ragione che mi ha spinto a discuterne pubblicamente, era l’uso dell’aggettivo ‘coloniale’ in riferimento al gioco—non tanto perché trovassi eccessiva quell’interpretazione, quanto perché la ritenessi piuttosto ridondante.
In fondo, mi dicevo, basta guardare attentamente anche solo un trailer del gioco per carpire l’atmosfera. Un cane procione (tanuki) capitalista ci vende un pacchetto vacanze per approdare su un’isola deserta che noi lentamente modelleremo, trasformando animali, piante e rocce in risorse economiche e proprietà private. Non solo il nostro mondo: anche le isole limitrofe diventano terrae nullius che deprederemo per migliorare l’aspetto della nostra proprietà. Questa valutazione, per quanto accurata, non è da intendersi come una volontà censoria da parte della critica videoludica; si tratta in realtà del tentativo di rendere più riflessiva e ramificata la fruizione di un prodotto d’intrattenimento. Mi è stato fatto notare che questa problematizzazione dei prodotti culturali, spesso invisa dal fruitore del medium, è particolarmente diffusa nel campo del gaming. E dire che sono passati sei anni dal gamergate, e dalle controversie rispetto alla natura intrinsecamente politica del medium videoludico.
Giardini e videogiochi
È pur vero che Animal Crossing sfoggia un’estetica basata sulla neotenia dei personaggi e sulla ‘coziness’ degli ambienti naturali ed artificiali. Il critico e game designer Ian Bogost aveva definito il concept di Animal Crossing come un compromesso fra naturalismo e consumismo: in pratica la volontà di dominare e collezionare tutti gli item del territorio virtuale si contrappone alla semplice contemplazione dell’universo di gioco, inteso come uno spazio selvaggio da ammirare e preservare. Nel corso della discussione sul gruppo Facebook sono stato invitato a guardare una lezione della critica e game designer Sabine Harrer dedicata al rapporto fra botanica coloniale e industria dei videogiochi. La tesi di Harrer è che gli spazi videoludici e le scelte di design di molti giochi rispecchiano la logica dell’arte topiaria classica—quella dei giardini francesi del XVII secolo per intenderci. Si tratta di archivi che collezionano e classificano diverse specie e, per mezzo di spettacoli e simulazioni, catturano l’attenzione dell’osservatore, del visitatore e dell’utente. Che il giardino sia il modello dello spazio ludico non è una novità: si tratta al contrario di un trope della ludologia: in fondo nei giardini si ospitano labirinti, spettacoli pirotecnici e teatrali, architetture surreali (folies), e automi idraulici.
Un altro aspetto centrale del nuovo episodio di Animal Crossing è il crafting, ovvero l’operazione di raccolta, scomposizione e ricomposizione degli elementi naturali del gioco. Si tratta di un procedimento oggi abbastanza diffuso in ambiente videoludico, mutuato dal noto Minecraft. In un articolo di Raffaele Alberto Ventura del 2015 Minecraft viene paragonato ad un’avanguardia artistica: una specie di estensione del dominio della creatività a milioni di adolescenti. In luogo di fornire all’utente una piattaforma chiusa ed una storia prestabilita, Minecraft mette a disposizione solo i tasselli di base del gioco, dei mattoncini e un territorio pressoché infinito. Anche in questo caso, la logica coloniale e capitalista si cela dietro l’apparente infantilismo della grafica pixellata. Come ha sottolineato Harrer, si possono trovare su Youtube molti tutorial che espongono all’utente le tecniche migliori per sfruttare gli animali e i personaggi non giocanti come risorse naturali o schiavi.
Narratologia e videogiochi
Prendendo spunto dalla semiotica generativa di Greimas e da Lector in Fabula di Umberto Eco potremmo definire in maniera più astratta e sinottica la relazione fra videogiochi, spazio coloniale e godimento che abbiamo descritto precedentemente come problematica e allo stesso tempo scontata. Ogni prodotto culturale, per essere interpretato, deve considerare tre elementi: la volontà di chi l’ha prodotto, le predisposizioni di chi ne usufruisce e l’intenzionalità dell’opera. I primi due elementi, solitamente, sono frutto di un’azione deliberata e non arbitraria—l’intenzione dell’opera, invece, è l’oggetto di uno studio semiotico: la riduzione ad un insieme di elementi oggettivi ed invarianti del testo.
Semplificando, potremmo immaginare un’opera letteraria come una retta segmentata da punti: la storia si dipana in una sequenza di scene lineari e consequenziali. Quando una lettrice o un lettore ‘creativa/o’ estraggono delle sezioni dal testo, e le interpretano e le assemblano in maniera non prevista dall’autore o dall’autrice, compiono un atto di détournement, il cui risultato è una nuova retta composta da segmenti eterogenei. Nel caso di un gioco, o di un libro-game, assistiamo ad una ramificazione: la retta si moltiplica in una raggiera o in un diagramma ad albero e, come in un labirinto, l’utente è invitato a compiere delle scelte. Il progresso in ambito videoludico, oltre che tendere ad un fotorealismo sempre più accentuato, vuole dotare l’utente di un potere espressivo sempre più vasto. Questo potere è lo spazio strategico delle scelte che l’utente è invitato a compiere. Non si tratta di una prerogativa di Animal Crossing e Minecraft; agli albori della storia videoludica erano presenti simulazioni di divinità, ovvero videogiochi nei quali l’utente poteva impersonificare un agente soprannaturale, in grado di modificare il terreno, le tecnologie e i destini di intere popolazioni.
Tuttavia questi giochi, per quanto godibili in maniera libera, presupponevano una finalità: la libertà di fare ciò che si vuole era vincolata all’esito conclusivo. In un sandbox game come Minecraft al giocatore ed alla giocatrice sono forniti gli elementi di costruzione basilari: la stessa parola inglese ‘sandbox’ è traducibile in italiano come sabbionaia—un recinto quadrangolare riempito di sabbia nel quale i bambini possono sperimentare creativamente le possibilità architettoniche di una materia amorfa.
Competizione e bricolage
Nella tipologia dei giochi di Roger Caillois il sandbox game rientra nella categoria della simulazione, come le maschere o le action figures. Si tratta di artefatti in scala come pupazzi, copie di complessi industriali o teatri che ricostruiscono le professioni degli adulti: piste per macchinine, case di bambole, etc… Questa artializzazione della natura è in effetti la logica che presiede l’arte topiaria, almeno nella sua forma classica: ogni elemento costruito del giardino è il segno di una specie naturale, o di un’area geografica, o, ancora, di una stagione e di un temperamento.
Tuttavia l’universo dei giochi non esaurisce la sua estensione al regno della creatività e della manipolazione, ma comprende anche la sfida contro il destino e la competizione. Un agone o gioco competitivo descrive la lotta di alcuni attori volta alla reciproca distruzione o all’acquisizione di un oggetto di valore non condivisibile. L’esempio paradigmatico della logica competitiva si manifesta nel genere arena o nella battle royale. Quest’ultima è la modalità principale del famoso Fortnite, uno dei titoli più giocati e più redditizi degli ultimi anni. Cento persone che si affrontano entro il recinto di un’isola deserta, mentre l’area calpestabile si restringe costantemente.
È piuttosto evidente che Fortnite veicoli, inversamente, i valori ideologici del film e del romanzo al quale s’ispira. La saga di Battle Royale è stata concepita dallo scrittore giapponese Koushun Takami come una critica spietata a quello che oggi chiameremmo realismo capitalista: la ‘battaglia reale’ è un atto governativo finalizzato alla rieducazione degli adolescenti—una sorta di conversione militare e necropolitica della società della performance. Anche in Fortnite è presente il crafting e, recentemente, è stata introdotta una modalità creativa, sicché lo spazio di gioco può venire utilizzato per architettare nuove mappe o per scontrarsi.
Sopravvivenza, Caccia, Mitologia
Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa satira e intorno a Dio tutto diventa – cosa? ‘mondo’ forse?
Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male
L’alternanza di modalità competitive e creative nell’universo videoludico è interpretabile antropologicamente come bisogno di rievocazione di alcune modalità di relazione all’ambiente che la nostra specie ha adottato nel corso della sua colonizzazione del pianeta. Molti videogiochi sembrano poter essere classificabili attraverso la dicotomia schmittiana fra amico e nemico. Le interazioni con gli oggetti, con l’ecosistema e con i personaggi non giocanti sono spesso caratterizzate dalla pura e semplice ostilità e dall’incorporazione. Ci sono quindi dei giochi con nemici e dei giochi senza nemici. Dal punto di vista narratologico, il nemico è un antagonista, ed interviene nella main quest per compromettere o vanificare la volontà dell’eroe di acquisire l’oggetto di valore. Questa semplice tipologia ludica, che accomuna gli shooter, gli arcade e gli RPG, ha molto a che vedere con l’attività venatoria. Lo è al punto che le attività di caccia e raccolta, meno visibili in un first person shooter futuristico, si palesano esplicitamente nel genere survival, tanto è vero che la riconversione di un gioco come Far Cry dall’universo della guerra contemporanea a quello della rivoluzione neolitica non crea particolari problemi.
Di fatto, l’archetipo principale dei giochi con nemici è il mitologema proto-indoeuropeo della Chaoskampf: la lotta contro un drago o un serpente. L’eroe, dopo aver ricevuto una chiamata e stipulato un contratto, è indirizzato verso un territorio di lotta (un dungeon) dove dovrà affrontare orde di NPC ostili. Spesso questi ‘nemici di transizione’ sono equivalenti alle molte teste di un mostro policefalo come l’Idra: l’eroe deve mozzare gli arti minori per giungere al tronco principale (boss fight). Il dispiegamento spaziale del corpo del nemico o dell’antagonista avviene in forma gerarchica e localizzata: ammettendo che tutto il gioco converge nella battaglia finale contro l’antagonista, è possibile leggere le vicende secondarie come emanazioni gerarchicamente inferiori di questa lotta archetipica.
I dungeon, dominati da un boss locale, sono disseminati dei segni del suo dominio, così come il mondo di gioco è costellato di riferimenti al nemico principale che spesso domina mentalmente i suoi servitori. Se ci soffermiamo sull’immagine statica della lotta fra San Giorgio e il Drago o fra Eracle e l’Idra o, ancora, fra Teseo ed il Minotauro, ci troviamo di fronte ad un mitologema culturalizzante. Assimilando gli elementi naturali e inumani, l’eroe segue un vettore di auto-perfezionamento che lo condurrà alla lotta finale contro il Drago. Volendo seguire questa metafora agonistica, potremmo definire i fighting game come la cristallizzazione di questo archetipo: eliminando il cammino dell’eroe, quello che resta è solo la lotta per il riconoscimento.
Nella cartografia medievale la locuzione ‘hic sunt leones’ serviva a designare quelle terrae incognitae situate ai limiti orientali e meridionali delle mappe europee, abitati da esseri mostruosi, caratterizzati da deformità fisiche e morali. Vediamo quindi come il rapporto fra videogiochi e colonialismo non sia così semplice, ma implichi delle genealogie di lunga durata e rievochi degli archetipi ben radicati nella storia della cultura occidentale. L’idea stessa di un gioco che nelle sue meccaniche più astratte prevede una lotta contro entità non umane è espressione della cultura agrilogistica.
Lo stesso fine del cammino dell’eroe, come evocato nell’epopea di Gilgamesh, è l’ottenimento dell’oggetto di valore definitivo: il potere divino. Se nel mito babilonese questo potere coincideva con l’immortalità, nella sua variante ebraica si tratta della creazione.
Codici e storie
A questo punto sembra lecito chiedersi: da cosa sono caratterizzati i giochi senza nemici? Nel caso di life simulation come Animal Crossing o di sandbox game sembra che la dinamica più evidente sia l’allestimento di un mondo dotato di senso. Partendo da un punto di vista divino, spesso espresso della visuale libera dall’alto, l’utente è invitato a manipolare la pasta del mondo come se stesse assemblando un tool o come se stesse modellando della plastilina. Quando non intervengono delle limitazioni imposte dal design del gioco, che prevedono l’acquisizione di un certo numero di risorse prima di accedere alla possibilità di riconfigurare l’universo di gioco, l’utente è ostacolato solo dal codice. Sono le leggi che regolano l’interazione con gli oggetti, in quel caso, a costituire una sfida.
Mi sembra quindi che si possa ragionevolmente affermare che in un gioco di simulazione e creazione il ruolo dell’antagonista non è incarnato da specifici personaggi o oggetti, ma dallo stesso universo virtuale—il linguaggio delle interazioni possibili per il giocatore—che si installa sopra il codice vero e proprio, quello che permette alla simulazione di esistere.
Questo tipo di gioco divino che non ha più bisogno delle storie e degli eventi, è, per dirla in termini strutturali, un sistema senza processo. Se il cammino dell’eroe e la lotta contro il Drago sono situazioni prettamente tragiche, dove l’utente viene condotto ad affrontare una serie di prove e di eventi che culminano in una battaglia finale, nella simulazione creativa si lotta per la culturalizzazione del mondo, ovvero per la semiotizzazione dell’esistente.
Imperi di segni
Giocare con una struttura, com’è derivabile dalla stessa etimologia di ‘giuoco’, significa spostare elementi invarianti all’interno di una gabbia prestabilita di movimenti. Tracciare questa gabbia e questo recinto è un’azione divina e, ancora una volta, coloniale. Non è un segreto che la cosiddetta ragione cartografica che si è sviluppata nella modernità europea sia composta dall’intersezione della prospettiva lineare, dall’elaborazione della cartografia scientifica e dall’espansione degli imperi coloniali. I segmenti delle mappe e delle prospettive sono tracciati sopra una materia neutra e disponibile, come tagli inflitti sopra un corpo femminile. L’architetto olandese Rem Koolhaas ha parlato di stato semiotico in rapporto alla ristrutturazione post-coloniale di Singapore: un’isola tropicale, appunto, e un ex colonia britannica completamente riconvertita in un esperimento di governo neoliberale e demiurgico. Questo processo di semiotizzazione della natura, cominciato negli anni ‘70, procede anche ai nostri giorni, e mescola la volontà di controllo dell’ambiente a veri e propri tentativi di terraformazione attraverso l’estensione artificiale del perimetro dell’isola sulla superficie fluida dell’Oceano Indiano.
Koolhaas aveva ricavato quell’idea di spazio neutro e manipolabile dalla semiotica strutturale di Roland Barthes, dal Sistema della moda e dall’Impero dei segni. In quel saggio il critico francese si cimenta con un’etnografia meticolosa ed orientalizzante di alcune mitologie a lui estranee dell’universo culturale giapponese, che descrive con fascinazione e precisione. In un capitolo dedicato alla forma-pacchetto, Barthes individua un aspetto paradigmatico della cultura materiale giapponese: il modo scrupoloso ed allucinatorio di racchiudere i doni in una scatola, che si riverbera metonimicamente nell’arte di imitare oggetti, specie naturali, volti e gesti.
Questa fascinazione (percepita) per la miniaturizzazione cela un pregiudizio interpretativo più profondo, che potremmo situare ad un livello ontologico. Non è tanto una questione di riduzione in scala, quanto di modellizzazione; quest’arte di trasformare la natura in segno, che si trova esemplificata nella calligrafia così come nell’allestimento dei giardini, sembra essere un oggetto che desta curiosità ed interesse negli intellettuali europei del dopoguerra.
La nota tesi hegeliana sulla fine della storia, ripresa da Alexandre Kojève, viene rielaborata da Hiroki Azuma in Otaku: Database Animals. Secondo questa ipotesi di filosofia della storia, le grandi narrazioni che hanno caratterizzato la cultura umana, dalle religioni alle fedi politiche, si dissolverebbero in un universo di simulazioni, rese inutili dal nichilismo e dallo scetticismo. Poiché per Hegel il motore della storia è la lotta per il riconoscimento, la fine di questa dialettica coinciderebbe anche con la fine delle idee religiose e del nostro rapporto conflittuale con la natura. Tuttavia lo stesso Hegel descrive nella sua filosofia della storia la cultura ‘orientale’ come priva di storia. Armonica, graziosa e statica, la cultura ‘orientale’ viene quindi interpretata nella filosofia francese del secondo dopoguerra come un paradigma per la fine dell’umanità. Inumano e asettico è il rapporto con l’universo culturale, non più conflittuale e tragico, come avveniva nel mitologema della lotta contro il Drago.
Evidentemente, la serie di Animal Crossing è esemplificativa di quell’estetica otaku che secondo Azuma appartiene alla cultura giapponese ed alla fine della storia. In questo senso, fine della storia significa fine della narratività, eliminazione del processo in virtù di un godimento del sistema.
Mi sia concesso di dubitare di questa interpretazione: piuttosto, mi sembra che l’idea di un Oriente privo di storia e ‘naturalmente’ impregnato di semiotica e strutturalismo ci dica di più sugli stereotipi culturali della cultura europea e giapponese che rivelare dei tratti nascosti di quest’ultima. Questa confusione di strutturalismo, estetica del codice, collezionismo e colonialismo è un fenomeno affascinante di transfert culturale. Collezionare specie esotiche e racchiuderle in una teca architettonica, ben disposte su scaffalature ordinate è una strategia che caratterizza sia le Wunderkammer seicentesche che la cameretta dell’otaku.
Ma a questo punto, che cosa possiamo dire dello statement di Pokémon: “Gotta catch ‘em all!“? È l’effetto della passione entomologica del creatore della serie, Satoshi Tajiri, che, come afferma Harrer, deriverebbe direttamente dall’ideologia categorizzante del systema naturae di Linneo? È un tratto tipico dell’estetica giapponese, come invece sosterrebbe Roland Barthes, che vuole trasformare la natura in un sistema discreto e grazioso di segni? È l’esito dell’orientalizzazione della fine della storia, come vorrebbe invece Azuma? È la sopravvivenza di un passaggio della cultura sciamanica e mitica all’agrilogistica del Neolitico? O, infine, è semplicemente un’estetica del database, che innerva sia i JRPG che i sandbox game: una conseguenza della digitalizzazione del mondo?
Godimento e censura
Il videogioco è un oggetto culturale complesso, e la sua analisi critica, così come il suo godimento, non sono riducibili ad interpretazioni totalizzanti. Così, in questi giorni di lockdown forzato, molte persone si trovano a passare più tempo all’interno di mondi virtuali, consapevoli o inconsapevoli delle retoriche e delle ideologie che attraversano narrativamente la geometrica potenza del codice. Le ragioni e le modalità del godimento di un medium sono vaste e ramificate e non penso che il fine dell’attività critica sia quello di colpevolizzare o lodare alcune di queste a discapito di altre.
Tuttavia, non credo che sia corretto trattare il videogioco come un medium ingenuo. Non capisco perché se si può apertamente discutere della censura delle mostre di Gauguin perché portava sui suoi soggetti uno sguardo violento, sessualizzante ed orientalizzante, lo stesso non dovrebbe avvenire per la critica videoludica. Certo, Animal Crossing ha uno stile puccioso, nulla a che vedere con il razzismo diretto di un gioco come Resident Evil 5, dove il protagonista si fa strada a colpi di shotgun fra una massa informe di zombie neri. Ma l’estetica e le meccaniche di gioco sono due componenti distinte, decostruibili con gli stessi strumenti analitici.
Tornando alla distinzione echiana fra intentio auctoris, lectoris e operis, possiamo trarre qualche nota conclusiva sul rapporto fra videogioco, critica, godimento e censura. Un quadro può esprimere direttamente dei contenuti politicamente scorretti: i soggetti, lo stile, le posture. Un testo può comunicare narrativamente delle idee razziste, sessiste o omofobe. Nel caso di un gioco si aggiunge la componente dinamica dell’interazione continua con l’utente. È chiaro che c’è una differenza fra sparare a dei senzatetto, a dei bersagli o a degli animali, ma la dinamica strutturale dell’interazione ostile resta sempre la stessa. Nel videogioco si possono quindi sovrapporre delle dinamiche, delle estetiche e delle narrazioni che veicolano contenuti eterogenei o antitetici. Il videogioco permette inoltre una riconversione radicale di queste tre componenti, attraverso le mod, e trasformare quindi gli elementi politicamente scorretti della versione vanilla in modalità più inclusive.
Mentre in Animal Crossing: New Horizon, a dispetto della grafica pastellata e delle interazioni non violente con gli NPC, si sta di fatto materializzando il sogno anarco-capitalista del seasteading, nel violento FPS Bioshock, per quanto ci si relazioni prevalentemente con entità ostili, si è immersi in un universo narrativo estremamente critico nei confronti di quella stessa ideologia—con riferimenti diretti all’opera di Ayn Rand.
Secondo Harrer, il compito della critica videoludica non è solo quello di evidenziare le strutture ideologiche delle meccaniche, delle estetiche e delle narrazioni del medium, ma è anche quello di indirizzare gli utenti verso un godimento più consapevole e politicamente corretto. Concretamente, questo significherebbe prediligere un walking simulator ad Animal Crossing, GTA o Doom. Il problema è che non si tratta di una questione di generi videoludici, e nemmeno di consapevolezza dell’utente: si tratta di una questione di godimento.
Il nostro desiderio è costantemente indirizzato, governato e rafforzato dalla fruizione di oggetti culturali, indipendentemente dal fatto che si stia parlando di letteratura o videogiochi. La stessa teoria critica applicata a questi media, è fonte di godimento. Non credo che propendere per un’esagerazione vittoriana o anti-repressiva siano delle strategie corrette. Fortunatamente, il videogame permette di essere alterato chirurgicamente: si possono sostituire delle componenti lasciando inalterato l’impianto complessivo. Diverso è il caso di un quadro o di un’opera letteraria: in questo situazione è necessario aggiungere un paratesto critico: si può allestire una mostra di Gauguin specificando che l’autore aveva dei comportamenti e delle idee inaccettabili, così come è possibile riscrivere un soggetto narrativo modificando il punto di vista (si pensi all’operazione compiuta da Jean Rhys su Cime Tempestose con Il grande mare dei sargassi). Nel videogioco testo e paratesto si possono confondere nel codice, ma questo non rende vano il lavoro di contestualizzazione e discussione della critica.
L’unico atteggiamento che mi sento di criticare è quello di chi, consapevolmente, interpreta il proprio desiderio come un dato naturale ed inalterabile, precludendosi la possibilità di approfondire le genealogie delle sue fascinazioni e, possibilmente, di aprire la via a nuove forme di godimento.