Quando si va al cinema a vedere un film, solitamente è meglio saperne il meno possibile; potremmo voler giusto avere un’idea del genere, in modo da evitare qualcosa che sicuramente non incontrerà il nuovo gustro. Se poi il film non ci piace ugualmente, la cosa peggiore che potrà succedere sarà annoiarci, e potremo comunque decidere se abbandonare la sala o proseguire la visione fino alla fine. Quando compriamo un videogioco accade invece il contrario: più ne sappiamo meglio è; questo accade perché il genere non riguarda tanto il contenuto quanto ciò che ci verrà richiesto di fare. Dunque non acquisteremo un gioco stealth, ad esempio, se non avremo il desiderio di cimentarci in quel tipo di gameplay; e se sbagliamo scelta, con ogni probabilità, non vedremo nulla a parte i primissimi livelli di gioco.
Con le opere di Daniel Mullins le cose vanno diversamente: il genere torna a legarsi innanzitutto a un contenuto, e precisamente a un contenuto metavideoludico, volto cioè a una riflessione sullo stesso medium che ne consente la rappresentazione: al giocatore vengono sempre richieste molte azioni, ma il processo di immersione si ferma prima, all’atto stesso di sapersi e vedersi giocare, senza poter mai cioè abbandonare del tutto la consapevolezza di essere una persona che gioca e interagisce su più livelli con la creazione di uno sviluppatore, grazie a un computer e mediante una piattaforma dedicata.
Così, quando si ha a che fare con un gioco di Daniel Mullins, torna valida la regola secondo cui è meglio partire sapendone il meno possibile. Per la sua seconda opera maggiore, The Hex, uscita lo scorso anno dopo il grande successo di Pony Island—ma tanti altri esperimenti si possono trovare su Itch.io—sarà più che sufficiente conoscere la premessa: in una taverna si trovano sei personaggi, protagonisti di altrettanti giochi, quando una telefonata avverte che uno di loro è pronto a commettere un omicidio. Chi sia il criminale, quale storia abbia alle spalle ciascuno dei personaggi, e quale rapporto con il rispettivo gioco, e con chi l’ha giocato, e con chi l’ha creato, è tutto da scoprire muovendosi nella taverna e, attraverso una serie di flashback, nei vari giochi, lungo uno stratificato percorso pieno di riferimenti, spunti, trovate e soluzioni visive più e meno immediate da decifrare.
Con il dubbio di aver già rivelato fin troppo, lascio che sia lo stesso Daniel Mullins a raccontare la genesi dei suoi incredibili giochi.
Ciao Daniel. Come hai iniziato a lavorare nel mondo dei videogiochi?
Ciao! Mi sono laureato in informatica in un’università canadese nel 2014 e mi sono messo alla ricerca di un lavoro. Ero disposto a trasferirmi in qualsiasi località del Canada ma alla fine sono riuscito a ottenere un lavoro a Vancouver, la mia città natale. Ho lavorato come programmatore junior in una start-up che produceva videogiochi fino a quando non vennero ritirati i finanziamenti per quel progetto dopo circa sei mesi. Però avevo imparato molte cose facendo quel lavoro, e ormai ero nel settore!
Qual è il tuo metodo di lavoro quando realizzi un gioco? Da dove inizi, come pianifichi il tuo progetto?
Il mio metodo di lavoro, se si tratta di un compito preciso come può essere creare il concetto visivo per una scena o programmare un certo tipo di gameplay, è abbastanza ordinato e organizzato. Se invece parliamo di un progetto in generale, vale l’esatto opposto! Tendo a iniziare senza avere idea della direzione che prenderà il gioco. Trovo che il processo di realizzazione di un grande progetto sia un processo di scoperta. Detto questo, ho di certo bisogno di iniziare da qualche parte. Questo punto di partenza di solito è una “sezione verticale” abbastanza completa del gioco. Voglio avere pronta la grafica, il sonoro etc. fin da subito per poter provare a capire quali sono le atmosfere e le sensazioni del gioco. Ciò mi aiuta a esplorare ulteriormente l’idea. Alcune volte preparo documenti per progettare in anticipo cose su cui occasionalmente mi capita di tornare in seguito. La maggior parte delle volte però i progetti che faccio cambiano radicalmente nel corso del tempo.
Pony Island è stato un grande successo. Questo ti ha influenzato nell’ideazione di The Hex?
Il successo di Pony Island mi ha sicuramente influenzato. Da una parte mi ha dato la completa libertà di proseguire la mia carriera da sviluppatore di giochi indipendente. Da un’altra parte quel tipo di accoglienza ha generato molta pressione. Ho avuto la sensazione di aver fissato per me stesso uno standard del tutto irrealistico di cui dover essere all’altezza.
Dove hai trovato l’ispirazione per The Hex? La premessa a me ricorda il film Murder By Death (Invito a cena con delitto, 1976) ma con i personaggi dei videogiochi al posto dei detective.
Mi ha ispirato The Hateful Eight di Quentin Tarantino, anche se sono consapevole che le premesse e gli stereotipi di quel film a loro volta non erano originali. Non conoscevo Murder By Death. Ora vorrei averlo conosciuto prima!
Come hai scelto i diversi generi videoludici presenti in The Hex?
Un criterio che ho seguito per questa scelta è stato la volontà di avere un’alternanza tra generi “di testa” e generi “di mani”. I giochi più lenti, metodici, legati al pensiero erano lo strategico su griglia, il puzzle in prima persona e il JRPG. I generi più veloci, basati su abilità e destrezza manuale, erano il picchiaduro, il platform e lo shooter con visuale dall’alto. Ho pensato che l’alternanza tra questi due diversi paradigmi di gameplay avrebbe catturato l’attenzione del giocatore. Un’altra cosa che ho tenuto in considerazione è stata la possibilità di giocare ogni genere usando i tasti WASD e il mouse.
The Hex è pieno di riferimenti alle recensioni su Steam, agli streaming su Twitch e in generale alle moderne forme di fruizione dei videogiochi. Tu sei il tipo di sviluppatore che legge tutto ciò che viene scritto sui suoi giochi, che segue i forum e le discussioni su Reddit?
Tengo d’occhio con attenzione i feedback della community, gli streamer etc. dopo la pubblicazione di un gioco. A parte questo cerco di non farmi coinvolgere troppo dalle reazioni. Detto questo, è bello leggere le teorie dei fan sui segreti e sul mondo del gioco. A volte è gratificante trovare qualcuno che ha compreso pienamente il significato di qualche oscuro dettaglio che ho inserito, altre volte è divertente vedere qualcuno ossessionato da quella che è una sua interpretazione del tutto arbitraria, o persino da un errore.
Quanto è cambiato The Hex nel corso dello sviluppo?
Un bel po’! All’inizio l’idea era di permettere al giocatore di utilizzare i personaggi e giocare i loro flashback in qualsiasi ordine. Mi sono velocemente reso conto che non avrebbe funzionato, perciò ho ripensato la struttura del gioco arrivando a una progressione più lineare come quella attuale. A partire da qui, i vari flashback sono stati iterati infinite volte mentre ricevevo continui feedback dai giocatori in fase di test.
Considerato quanto sia particolare il tuo stile, vorrei chiudere chiedendoti se ci sono altri titoli che trovi vicini al tuo modo di intendere i videogiochi, opere che ti sei trovato a studiare più che a giocare.
Mi sono trovato a studiare What Remains of Edith Finch quando venne pubblicato, durante lo sviluppo di The Hex. Ho avuto un’esperienza simile con Oxenfree, specialmente per il modo in cui gestisce il dialogo tra i personaggi. In generale penso che ci sia un genere emergente in cui i miei giochi possono essere inseriti, che potrebbe essere descritto come “narrativa attiva”, o qualcosa di simile. Sono giochi che raccontano una storia lineare e prestabilita, come in titoli narrativi tipo Gone Home, ma lo fanno attraverso meccaniche di gameplay più complesse e sostanziali.