DARQ, di Unfold games, discende dalla poetica cimiteriale ma anche dal pop macabro, e intrinsecamente romantico, di Tim Burton. Da una tradizione gotica, allora, che ha per tematiche predilette il sogno e la morte. Alla fine degli anni novanta, non ancora adolescente, dopo l’ennesima visione del cult diretto da Henry Selick, The Nightmare Before Christmas, proseguivo con l’ascolto dell’album Antichrist Superstar, di Marilyn Manson, e di Dead Lovers’ Sarabande, uno fra i primi dischi di Anna Varney, meglio nota come Sopor Aeternus and The Ensemble of Shadows. Nella poetica espressionista, dalla quale DARQ stesso proviene, la dimensione interiore condiziona direttamente quella esteriore. L’artista Hans Bellmer, celebre per le sue bambole, nel suo libro Anatomia dell’immagine descrisse le tensioni, morbose e interne, che agiscono sulla carne. Sono, queste, flussi di sangue e nervi, le quali si specchiano sulla realtà del corpo come riflessi, tramite dolori reali e virtuali. Il corpo, allora, è un campo per continui rimpalli, fra la regione della ferita e il luogo distante dove la cicatrice, rimbalzando, appare. Per quanto il designer dei mostri di Silent Hill 2, Masahiro Ito, abbia negato l’influenza, i manichini del celebre horror ricordano molto le opere di Hans Bellmer.
Il poeta Gherasim Luca scriveva che “la non ferita è l’implicita cicatrizzazione di una ferita follemente ignorata”. Il corpo, allora, pare esso stesso una ferita, un oggetto che, staccandosi dal nulla, sviluppa una sua coscienza individuale: un trauma, un traum, il sogno di essere una cosa diversa dal mondo. In DARQ, non vi sono dubbi, questo sogno ha il connotato dell’incubo. Il gioco si struttura attraverso una serie di livelli accessibili interagendo con il letto nella stanza del protagonista, che funge da centro per l’intera vicenda. Lloyd, questo il nome del personaggio principale, tramite una sorta di sogno lucido avrà accesso a diverse aree, ognuna delle quali ricca di enigmi da risolvere. I puzzle si basano sulla facoltà di intervenire sulla prospettiva, ricordando vagamente la meccanica che contraddistingueva l’apprezzato indie di Phil Fish, Fez. A quest’ultima si aggiunge una componente puzzle solving più tradizionale, basata sul reperimento di oggetti chiave e sulla risoluzione di rompicapo.
La qualità dei puzzle è ottima, come d’altronde lo è l’aspetto audiovisivo nel suo complesso, specie se consideriamo che il videogioco è stato sviluppato, quasi interamente, da una singola persona. Dietro al titolo, peraltro, c’è l’interessante vicenda personale dell’autore, il quale ha deciso di pubblicare il gioco autonomamente per non sottostare alle richieste, ritenute troppo esigenti, dei publisher. Il problema maggiore di DARQ risiede perlopiù nella durata, ma anche nell’orizzontalità dell’opera: terminata l’esperienza, che resta breve anche considerando i contenuti aggiuntivi, non sappiamo molto di più del mondo di gioco rispetto a quanto ci sia dato di sapere, o da supporre, al suo inizio. Viene a mancare, dunque, il senso di una progressione, di uno sviluppo verticale tale da non rendere l’ambientazione di DARQ una mera, per quanto curata, confezione gotica.
Un mistero, se ricercato troppo oziosamente, vale come un fuoco d’artificio difettoso: per quanto l’autore sostenga di aver lavorato a lungo sulla componente concettuale del gioco (e per quanto la fantasia di Reddit sia semplice da sguinzagliare), questa non emerge affatto dall’opera, allineandosi piuttosto al resto, come un’ulteriore, piccola fioritura sulla già pregevole cornice. Il paragone con Limbo, per quanto inflazionato, serve a chiarire l’assenza, nel titolo di Unfold Games, di un coup de théâtre, di una chiave di lettura consistente che possa davvero arricchire la prospettiva del giocatore. Nell’epilogo del capolavoro di Playdead, che diede peraltro inizio a una certa tendenza indie, basata sull’introspezione, il giocatore poteva rileggere l’intera esperienza con uno sguardo rinnovato. Il mistero, in DARQ, sembra ricercato con l’attitudine di un epigono, con un fare manierista: un po’ come per una horror house, il mistero si esaurisce in una circostanza illusoria, ovvero quella di un itinerario, orrorifico ma artefatto, per il quale esso è stato allestito.
Posto tra le atmosfere del fotografo Joel Peter Witkin e quelle di Little Nightmares, DARQ resta un’esperienza piacevole, nonostante i limiti evidenziati. Il mistero, nell’arte, si manifesta come un elemento conturbante, ambiguo: pur essendo conseguenza di un gesto creativo, come una pennellata o una scelta di game design, tale elemento inquietante appare nell’opera come dotato di un carattere proprio, sul quale neanche l’artista sembra esercitare più controllo. La presenza del mistero, nelle arti, trascende anche quelle abilità tecniche ed espressive utili a ricreare un suo, pur funzionale, surrogato. Se l’arte è mimesi, imitazione cioè di forme reali preesistenti, il mistero è l’incursione, fortuita o meno, dell’ignoto reale all’interno dell’opera artificiale. Per una serie di contingenze che, con ogni probabilità, sfuggono agli autori del gioco, videogiochi come Pokémon sono opere più misteriose di un titolo come Limbo, il quale eccelle nella messa in scena del mistero, senza tuttavia incarnarlo. Anche in DARQ, pur con esiti inferiori a Limbo, il mistero non è che scrittura, messa in scena.
In Pokémon rosso e blu, il furgone nei pressi della nave M/N Anna, al centro della leggenda metropolitana di Mew, è un’equivalente videoludico del sorriso de La Gioconda, di Leonardo da Vinci. Apparentemente anonimo, questo furgone è stato osservato con una curiosità tale da rappresentare collettivamente il principio che la muove, ovvero il gusto per l’ignoto: quella manciata di pixel sanno suscitare ancora oggi brividi e fantasie di scoperta tutt’altro che banali. Il mistero autentico si manifesta nell’opera per casualità, o attraverso una grande consapevolezza del gesto artistico. The Witness, di Jonathan Blow, è un esempio virtuoso di controllata apertura verso l’ignoto della vita: il silenzio dell’isola, l’ambientazione del gioco, è ambiguo, saturo del mistero dell’esistenza stessa. L’autore, in questo caso, ha sapientemente lasciato filtrare il mistero della vita all’interno della sua opera. Parafrasando Baudelaire, è l’irregolarità a caratterizzare la bellezza: sono i bug e l’ambiguità autentica, vissuta ma non intenzionalmente ricercata dalla scrittura, a parlarci del suo mistero.