Gli sviluppatori dello studio francese Motion Twin hanno trovato per il loro Dead Cells, uscito una settimana fa per PC (Windows, Mac e Linux), Playstation 4, Xbox One e Nintendo Switch, e fin dalla prima pubblicazione circa un anno fa in Early Access su Steam, una definizione molto precisa e accurata: roguevania. Il termine nasce dall’unione di due generi di lunga tradizione, roguelike e metroidvania, che hanno in comune la caratteristica di definire uno stile di gioco rimandando direttamente ai titoli che per primi, o meglio di tutti, ne hanno incarnato i princìpi.
L’etimologia di roguelike è la più trasparente possibile: definisce, alla lettera, giochi simili a Rogue, un dungeon crawler del 1980, con grafica in codice ASCII, che introduceva i due tratti peculiari del genere, ossia permadeath e generazione casuale dei livelli. Nonostante questo riferimento lontano nel tempo, l’epoca d’oro dei roguelike è probabilmente proprio quella attuale: The Binding of Isaac (2011), FTL: Faster Than Light (2012), Spelunky e Rogue Legacy (2013), The Binding of Isaac: Rebirth (2014), Nuclear Throne e Crypt of the Necrodancer (2015), Enter The Gungeon, The Curious Expedition e Darkest Dungeon (2016), ne hanno, un anno dopo l’altro, scritto la storia.
In metroidvania è invece facile riconoscere la fusione di due grandi saghe, Metroid e Castlevania, che negli anni ‘90 hanno saputo formalizzare un complesso level design non lineare, richiedendo al giocatore non solo precisione e riflessi, come nei grandi classici platform, ma anche un’attività di esplorazione e di backtracking alla ricerca degli elementi necessari a sbloccare nuove aree e proseguire l’avventura. I titoli più citati sono Super Metroid (1994) e Castlevania: Symphony of the Night (1997) più che altro per il loro valore assoluto, dato che altri giochi—ad esempio Wonder Boy III: Dragon’s Trap (1989), recentemente rivisitato in chiave moderna—avevano già anticipato quelle stesse innovazioni. Grandi esponenti di questo genere sono stati più rari negli ultimi anni, ma vale la pena citare Guacamelee! (2013), Axiom Verge (2015) e Hollow Knight (2017), non a caso omaggiato all’interno del gioco, oltre al recentissimo Iconoclasts.
Il grande merito di Dead Cells è quello di sfruttare la sua doppia natura non per cercare di essere entrambe le cose, ma per elaborare una formidabile interpretazione di tutta la scala di sfumature che divide quei due generi videoludici. L’applicazione più evidente di questo indirizzo di design è forse la generazione dei vari livelli (biomi) del gioco, che, come dichiarato dagli sviluppatori, al 50% è casuale e al 50% segue regole date. Così, i biomi sono sempre interconnessi tra loro nella stessa maniera (anche se diventano tutti accessibili solo dopo alcune partite), e contengono le stesse stanze disegnate a mano, e hanno sezioni ricorrenti e facilmente riconoscibili dal giocatore; ma per il resto sono strutturati a caso. Il risultato sono ambienti sempre diversi ma in qualche modo familiari, nei quali, con un po’ di esperienza, è possibile formulare supposizioni corrette e orientarsi; e questa è una prima sintesi di roguelike e metroidvania che si rivela funzionale a molte altre caratteristiche di Dead Cells.
Se andiamo a esaminare come il giocatore può interagire con questi ambienti, scopriamo presto che anche il gameplay si situa tra due opposti: è possibile infatti attraversare i biomi senza combattere con nessuna delle orribili creature che li popolano, o al contrario fare piazza pulita di ogni nemico fino a renderli privi di vita. A proposito dei nemici: sono stati realizzati in 3D per poi finire in un videogioco a due dimensioni, come spiega Thomas Vasseur di Motion Twin su Gamasutra, in un interessante approfondimento che fa capire anche quale tipo di lavoro sui frame delle animazioni abbia permesso la fluidità e la responsività ai comandi, ai limiti della perfezione, che rendono i combattimenti in Dead Cells così divertenti e gratificanti.
Ma dicevamo: fatta eccezione per gli scontri con i boss, ogni livello può essere completato, indifferentemente, esplorandone ogni angolo ed eliminando tutti i nemici, o attraversandolo di corsa senza uccidere nessuno. La prima scelta ha l’indubbio vantaggio di far accumulare al giocatore cellule e oro necessari ad acquistare armi, mutazioni e anche upgrade permanenti; ma Dead Cells fa in modo di non penalizzare la seconda scelta introducendo porte a tempo che si chiudono dopo alcuni minuti di gioco, attraversate le quali il giocatore potrà fare rifornimento di oro e cellule. Questa è una brillante soluzione che incoraggia lo speedrunning (il record al momento è di 14:07) e risolve un problema tipico dei roguelike, permettendo di accorciare le partite e di arrivare in fretta ai livelli più ostici (soprattutto gli ultimi due) senza che un’eventuale morte vanifichi un considerevole investimento di tempo. Anche qui, la scelta ottimale per il giocatore sarà comunque una sintesi: muoversi abbastanza velocemente da arrivare ad aprire le porte a tempo, ma raccogliere comunque qualche risorsa attraversando i livelli, in modo da procurarsi il miglior equipaggiamento possibile. E qui viene il bello.
Inizialmente il giocatore ha a disposizione solamente tre armi, una per ogni tipo di abilità che può essere sviluppata durante una partita: la brutalità (spade e granate per infliggere più danno possibile), la tattica (archi e trappole per ingaggiare i nemici da una distanza di sicurezza) e la sopravvivenza (scudi per ricevere meno danno possibile). Trovando i relativi progetti, è possibile sbloccare pian piano un intero arsenale di armi e di mutazioni, tutte quante funzionali a una specifica abilità. Uno schema semplice ma profondo, in grado da solo di diversificare già molto i possibili approcci a una partita. Le combinazioni vengono però moltiplicate esponenzialmente dalla presenza di numerosi modificatori, che permettono ad esempio di congelare, bruciare o avvelenare i nemici, o di infliggere più danno a quelli già congelati o bruciati o avvelenati. I modificatori sono casuali e possono essere “riforgiati” tra un livello e l’altro alla ricerca della combinazione più efficace. Ancora una volta la doppia natura del gioco si manifesta concedendo al giocatore ulteriori gradi di libertà nel decidere come affrontare una partita.
Gli sviluppatori si sono tuttavia spinti ancora più in là: serve, certo, avere una notevole confidenza con il gioco, ma Dead Cells può anche essere affrontato con una sola arma e persino, privi di qualsiasi equipaggiamento, utilizzando solamente la capacità di infliggere danno cadendo dall’alto. Lo youtuber DocFirebird ha registrato una bella serie di run portate avanti in questo modo, che dimostrano fino a che punto arrivi quella che alla fine è la più profonda ed essenziale dualità di Dead Cells: quella di un gioco che in ogni partita richiede al giocatore di adattarsi a ciò che ha a disposizione, e poi si rivela tanto malleabile e interpretabile da rendere possibile qualsiasi stile di gioco.