Death Stranding non è un videogioco per pochi. Poteva sembrarlo, ma la poetica del suo autore valeva da indizio: Hideo Kojima non si è mai veramente allontanato dal mercato di massa. Al limite, possiamo dire che il creatore di Metal Gear abbia contribuito ad ampliare lo spazio di manovra del videogioco mainstream. Quelle storie di principesse e idraulici, tanto per alludere alla scena più kitsch del gioco, potevano andare oltre, trasmettere di più. La trasmissione, d’altronde, è un tema molto caro all’autore. L’innesto di riferimenti colti, più o meno velati, così come la stratificazione dell’esperienza, sono state parte della fortuna di un cult come Metal Gear Solid. L’altra parte, quella forse più evidente, era un gameplay appassionante, ricco di soluzioni creative.
La strategia comunicativa scelta per presentare Death Stranding è stata percepita, da una parte della community videoludica, come un’avvisaglia di un’opera tanto ambiziosa quanto rinunciataria sotto il profilo ludico. Death Stranding, prevedibilmente, si rivela però essere un gioco tutt’altro che minimalista. Bastava osservare attentamente ogni teaser, per capire quali fossero le fondamenta del gameplay attorno alle quali sarebbe ruotata l’esperienza di gioco. Sommando poi tutte le caratteristiche tipiche del game design di Hideo Kojima, come la presenza di molti gadget e approcci, la chiave di lettura è sempre stata presente. Il fatto però che solo una parte dell’utenza avesse il tempo, la dedizione e la competenza per decifrare il mistero è stata, a sua volta, una componente organica della campagna di marketing.
Il concetto esistenziale dell’ignoto, una parte integrante della metafisica di Death Stranding, è stato così abilmente sovrapposto all’incognita dell’acquisto “a scatola chiusa”, per utilizzare un’espressione ricorrente nelle varie critiche alla reticenza della campagna pubblicitaria dell’opera. Quando arriva sul mercato, quel luogo astratto dal quale una certa retorica lo voleva distante, Death Stranding non si presenta come un pezzo d’arte per chissà quale élite ma, piuttosto, come un videogioco mainstream molto più originale della media. Una originalità che fa rumore ma non allontana davvero: l’autore giapponese ha cavalcato magistralmente la legge più nota della comunicazione, tenendo a distanza, a ben guardare, soltanto quelle persone che non sarebbero comunque state interessate al prodotto.
Death Stranding è allora un videogioco molto più accessibile di quanto molti potevano pensare, tenendo così fede alla prassi tipica di Hideo Kojima, quella di dotare le sue opere di molteplici livelli di lettura. Personalmente, per molto tempo sono stato convinto che l’autore di Death Stranding conoscesse bene Iperoggetti di Timothy Morton. Il fenomeno sovrannaturale che da il nome al videogioco, quel suo apparire viscoso e non locale, capace di pervadere le infinite regioni dello spaziotempo, sembrava un collegamento quasi esplicito. Nel libro, sono addirittura citati gli stessi versi di William Blake, tratti da Auguries of Innocence, che accompagnavano il primo teaser di Death Stranding.
Chi accusa Hideo Kojima di essere un regista mancato sembra fraintendere il valore dell’interazione presente nelle sue opere, paradossalmente più significativo rispetto a molti altri videogiochi. L’uso del linguaggio cinematografico, nel videogioco, non travia la natura già di per sé multimediale del mezzo videoludico, esattamente come accade, ad esempio, per l’uso del linguaggio letterario all’interno di un film. A ben guardare, ogni medium è multimediale. Il paradosso è particolarmente evidente perché le opere di Hideo Kojima sono significative anche solo per le loro meccaniche di gioco. Quando parliamo di gameplay, allora, parliamo di qualcosa attorno al quale aleggia un grande malinteso. A mio avviso, “interazione” e “gameplay” vanno intesi come sinonimi. Il dibattito consecutivo alla scadenza dell’embargo, e quindi alla pubblicazione delle recensioni mondiali, verteva sulla definizione della parola “divertimento”.
Il peculiare gameplay di Death Stranding, basato sulla consegna di carichi, per alcuni oltraggiava una presunta legge secondo la quale un videogioco, per essere tale, deve essere divertente. Eppure, divertirsi con Death Stranding è anche abbastanza facile: lo testimonia la reazione di una parte consistente del pubblico, stupita da quanto il gioco possa essere inaspettatamente divertente. La questione del divertimento, altrettanto inaspettatamente, finisce per non riguardare Death Stranding nello specifico. Il nuovo videogioco di Hideo Kojima, infatti, non vuole certo rinunciare a divertire il pubblico.
La sua portata innovativa, pur presente e significativa, non straborda mai dall’ambito del videogioco tradizionalmente inteso. Per quanto potesse sembrare centrale, l’equivoco del divertimento è allora facilmente risolvibile chiamando in causa il gusto soggettivo. D’altronde, ci si può annoiare anche sparando agli alieni. Resta da capire, allora, cosa sia davvero questo gameplay e quale sia la sua funzione. Il gameplay, l’interazione, è l’elemento specifico del linguaggio videoludico. Tuttavia, ritengo che un’opera multimediale possa tranquillamente rinunciare a una verticalità gerarchica predeterminata, lasciando così alla volontà degli autori il compito di stabilire l’importanza di ogni singola componente dell’opera. Messa in altri termini, pur essendo la specificità del linguaggio videoludico, l’interazione non deve necessariamente essere l’elemento più significativo di un videogioco.
In quella che è una percezione comune, eventuali componenti artistiche del videogioco sono pertinenza della cosiddetta art direction oppure, più in generale, del suo comparto audiovisivo. Il videogioco, allora, è artistico perché lo è la sua colonna sonora, o ancora perché lo è la sua veste grafica: l’interazione viene così considerata l’essenza stessa del videogioco e, al contempo, la sua componente più umile e utilitaristica. La funzione del gameplay, pertanto, sembra essere soltanto quella di divertire, intrattenere, appagare. A ben vedere, però, il cosiddetto gameplay è esso stesso uno strumento di espressione artistica.
Il fatto che l’interazione sia molto spesso utilizzata per divertire, qualunque sia il significato di questa parola, non la vincola a questo specifico scopo. Il divertimento, senza problematizzare questa parola, resta soltanto uno dei possibili fini del gameplay. Essendo l’interazione uno strumento neutro, a determinarne liberamente le finalità sarà chiunque si troverà a utilizzarlo. Per come la vedo io, e per usare uno stile secco e formulare, il gameplay deve essere comunicativo ed espressivo. Il contenuto di questa espressione, sofisticato o effimero che sia, non allontana il videogioco da quella che è la sua natura di rappresentazione, molto spesso banalizzata anche dagli stessi videogiocatori. Il gameplay, avendo come scopo l’espressività, diventa così drammaturgico.
L’idea che le meccaniche di gioco di Death Stranding trasmettessero fatica ha, per l’appunto, alimentato il dibattito sul concetto di divertimento. A tratti, sembrava quasi di trovarsi di fronte a una performance d’arte, linguaggio comunque non così distante come potrebbe sembrare da quello videoludico. Si parlava, addirittura, di logoramento, quasi come se il gameplay di Death Stranding fosse una prova di resistenza à la Marina Abramović. Eppure, il gioco può risultare molto meno logorante di un Dark Souls. Recensire Death Stranding dev’essere stato un compito oneroso. Fra stampa specializzata e generalista, un vantaggio l’hanno avuto coloro che hanno scelto di parlarne nei termini della sua drammaturgia, come si farebbe con un film o con un libro.
Parlare del significato della fatica del viaggio, del senso dell’opera, è stato più fruttuoso rispetto al vano tentativo di raccontare quelle singole meccaniche di gioco che, nel caso di Death Stranding, sono difficili da sondare se non per diretta esperienza. Nella ricezione negativa di questo dato, quello della percezione della fatica, ritengo che un ruolo importante l’abbia giocato la messa in scena, il contesto, l’accettabilità di morire molte volte arrostiti da un drago da un lato e il fatto non consueto di impegnarsi nel trasporto di pacchi dall’altro. Nella pratica, la fatica del viaggio è sì comunicata dal gioco ma edulcorata da una generale permissività, esattamente come ci si aspetterebbe da un’opera di massa, che vuole restare comunque sia accessibile e intrattenente.
Death Stranding come gioco per pochi è, a conti fatti, soltanto una debole apparenza. La necessità di dover specificare che non si tratta di un videogioco per tutti è resa necessaria soltanto dal posto, di primissimo piano, che Death Stranding occupa nel mercato di massa. Personalmente, credo che Hideo Kojima abbia saputo usare sapientemente il gameplay come strumento drammaturgico, senza peraltro violare il principio di accessibilità caratteristico di un’opera mainstream. Le meccaniche legate alla camminata e al trasporto di carichi sono estremamente comunicative, arricchendo di una dimensione fisica quello che, altrimenti, sarebbe stato il mero spostamento di un avatar all’interno di un mondo di gioco (soltanto apparentemente vuoto). In Death Stranding, l’ambiente è una presenza, un vero e proprio elemento di gameplay.
La struttura dell’open world è spesso un modo per risparmiare sul level design. Non così Death Stranding, che sceglie coraggiosamente di permettere soltanto interazioni coerenti con il mondo di gioco. Riempie invece anche il più piccolo spazio una volontà autoriale pervasiva, un’espressività rara che rende significativo l’atto solitamente più scontato del videogioco, lo spostamento. In Death Stranding c’è molta poesia ma anche molta prosa.
Quando il gioco parla esplicitamente, diventa una americanata giapponese. Quando il gioco fa del silenzio del viaggio la sua forma di comunicazione, l’esperienza si fa quasi tarkovskijana. I meriti di game design che l’autore giapponese esibisce con questa sua ultima opera dovrebbero dimostrare, una volta per tutte, che il suo posto non è dietro a una macchina da presa (alla quale il mezzo del videogioco, è evidente, non gli chiede certo di rinunciare) ma dietro a una scrivania a scrivere interazioni. Hideo Kojima, con Death Stranding, ce lo ricorda: la scrittura di un gameplay è una scrittura drammaturgica, che mira a esprimere. Quale sia il contenuto e il fine di questa espressione, è evidente, resta a discrezione di chi scrive.