In un libro parecchio citato, per molti di culto, dalla trama perfetta secondo Borges, spesso interpretato come un romanzo sul cinema, un gruppo di persone si ritrova a ripetere in loop l’ultima settimana della propria vita, su un’isola; anzi, non si tratta esattamente di persone, ma di simulacri: è un macchinario, l’invenzione di Morel che dà il titolo all’opera, a permettere questo prodigio. Ha catturato ogni loro spostamento, ogni loro conversazione, e continuerà a diffondere per sempre negli spazi dell’isola quanto ha registrato; ma l’atto della registrazione, si scoprirà, è risultato letale—a quelle persone è stata donata una forma di immortalità, ma è stata al contempo tolta la vita.
Anche in Deathloop, l’ultima fatica di Arkane, ci sono dei personaggi su un’isola che ripetono in loop uno stesso periodo di tempo—non una settimana, ma un singolo giorno; la chiave del loop in questo caso non risiede in un macchinario, ma in otto di loro, i Visionari, che rivivono la stessa giornata insieme a molti altri, chiamati Eternalisti. Chi gioca si ritroverà nei panni di un uomo, Colt, che si è messo in testa di rompere il loop: per farlo, dovrà uccidere tutti i Visionari in 24 ore, prima che il giorno riparta da capo. Alcune persone saranno dunque uccise non per donare loro l’eternità, come nel romanzo di Adolfo Bioy Casares, ma per togliergliela.
Per quale motivo Colt abbia maturato l’intenzione di rompere il loop non è dato saperlo, ma si può facilmente immaginare un paradosso: se lui vuole uccidere tutti e otto i Visionari, questi, oltre agli innumerevoli Eternalisti, ne sono al corrente e vogliono uccidere lui per impedirglielo. Ogni sua giornata inizia dunque, e inizierà per sempre, nel ruolo di vittima designata di una caccia all’uomo—in sostanza, in Deathloop non c’è un solo NPC che non provi a ucciderti non appena ti vede; il loop di Colt somiglia quindi a un orribile incubo, e allora, quale che fosse la sua motivazione iniziale, ne ha comunque una molto valida per voler portare a termine il suo piano.
Da simili premesse, si capisce bene quanto sia difficile il compito di Colt: gli otto Visionari non solo si aspettano il suo arrivo, ma conoscono perfettamente a quale condizione arriverà la loro sconfitta—essere uccisi tutti nel giro di 24 ore—e sanno altrettanto bene di non avere, altrimenti, nulla da perdere: se il loop non viene spezzato, tutto ricomincerà normalmente all’alba di un nuovo giorno. Tendono dunque a non farsi trovare mai insieme nello stesso luogo nello stesso momento, e non vanno tanto per il sottile quando si tratta di proteggersi: Weenje ad esempio si circonda di altre versioni di sé stessa provenienti da altre linee temporali, moltiplicando i bersagli per Colt, mentre Fia controlla un reattore instabile e al minimo segnale di pericolo è pronta a causare una devastante esplosione—e cioè, a conti fatti, il semplice inizio di un nuovo loop.
Se Colt ha qualche possibilità di successo è grazie al fatto che è capace di ricordare i loop precedenti; trova presto il modo, così, di apportare modifiche permanenti agli eventi della giornata, e anche di conservare oggetti—come armi, poteri e potenziamenti—“infondendoli” con i “residui” di loop precedenti. Tra i Visionari però anche Julianna ha memoria dei loop già vissuti, e non è solo questo a farne un personaggio diverso dagli altri: è infatti anche l’unica a dare attivamente la caccia a Colt, attraverso incursioni casuali nei loop. «Sapevamo che aveva un ruolo importante nella storia, e inoltre volevamo avere un personaggio imprevedibile», ha raccontato il game director Dinga Babaka nella cover story sul numero 357 di Edge. Per rendere Julianna realmente imprevedibile, inoltre, Arkane ha fatto in modo che possa essere controllata da un altro giocatore invece che dall’IA, in una particolare forma di multiplayer.
Deathloop ha senz’altro molto in comune con Dishonored: il publisher Bethesda ha già fatto sapere che i due titoli appartengono allo stesso universo narrativo, ma molte somiglianze emergono anche dal gameplay e dalle ambientazioni. Cambia l’epoca, perché Deathloop è pieno di riferimenti alla psichedelia e alla space age degli anni Sessanta, ma si rintracciano facilmente anche tracce di un preciso passato: “ciò che era design contemporaneo nella grandeur vittoriana di Dunwall o nei saloni coloniali di Karnaca è diventato ora antiquariato nel mondo di Deathloop”, nota Gareth Damian Martin nello speciale dedicato al gioco su Bullet Points; ma le scelte di game design fatte per Colt e Julianna forniscono anche altre suggestioni: Deathloop sembra il gioco con cui Arkane ha cercato un riscatto per rimpianti e occasioni perse in passato.
The Crossing, un titolo mai pubblicato ma ben descritto nel documentario su Arkane realizzato da Noclip, già presentava una modalità “crossplayer” in cui altri giocatori potevano prendere il controllo dei nemici all’interno di una partita, unendo in un’unica formula singleplayer e multiplayer; mentre il modo con cui Colt consolida i propri strumenti tra un loop e l’altro ricorda molto da vicino quanto accadeva di simulazione in simulazione in Mooncrash, unico DLC di Prey—una grande idea forse non sfruttata a dovere in quell’occasione. In Deathloop, effettivamente, questa meccanica funziona alla perfezione e si coniuga altrettanto bene con il tema del gioco, ma finisce anche per tradire le legittime aspettative di fronte a un gioco basato sui loop.
Un autentico gioco sui loop infatti dovrebbe poter essere completato, in linea di principio, al primo tentativo: passare diverse ore all’interno del mondo di gioco dovrebbe servire solamente ad accumulare le conoscenze necessarie per farlo. In Deathloop, invece, la narrazione procede sempre e solo in avanti. Più che di agire all’interno della stessa giornata si tratta di modificarla, introducendo piccole novità di loop in loop—e cioè di missione in missione, superando una serie di livelli come nella più classica tradizione videoludica. Quello che fa Colt è, a tutti gli effetti, eseguire un piano, come nei film in cui si prepara e si esegue l’evasione da un carcere o una rapina in banca—mentre qui l’obiettivo, naturalmente, è far sì che i Visionari si incontrino tra loro in modo da riuscire a eliminarli tutti nel giro di 24 ore mettendo fine al loop, una condizione che al primo tentativo non può essere in alcun modo soddisfatta.
Man mano che tutto si aggiusta e si predispone in tal senso, appare chiaro come Deathloop sovverta almeno due consolidati principi di game design. Il primo è che il livello di difficoltà sia in costante aumento, fino a una prova finale—una boss fight—in cui vengano messe alla prova tutte le abilità apprese fino a quel momento. In Deathloop, come già in Dishonored e Prey, accade esattamente il contrario: le fasi iniziali sono caratterizzate da un grande senso di vulnerabilità e si ha l’impressione di poter essere uccisi anche da una sedia (in Prey, questo è letteralmente vero); nelle fasi finali invece di solito si affrontano i nemici con lo stato d’animo di chi dice “ora siete voi che fareste bene ad aver paura di me”.
Il bello è che in Deathloop tutto ciò è perfettamente coerente con la storia: il senso di onnipotenza che si acquisisce col tempo non è solo l’agognato risultato di una crescita o costruzione del personaggio, ma è il ben più diegetico effetto del trovarsi all’interno di un loop sempre identico. I giocatori più bravi, dopo aver memorizzato i pattern di ogni nemico, entrano in azione con una disinvoltura che sconfina nella preveggenza, dando l’idea di muoversi esattamente come farebbe il protagonista all’ennesimo loop. Colt si trasforma in una macchina da guerra per accumulo, come un’intelligenza artificiale che diventa praticamente invincibile a scacchi dopo aver giocato milioni di partite. Il brutto è che questa è l’unica ricompensa per il giocatore.
Il secondo consolidato principio di game design che in Deathloop non trova applicazione, infatti, riguarda la gratificazione per chi gioca, e mostra tutti i limiti dell’opera di Arkane. Praticamente qualsiasi gioco penalizza il giocatore quando perde facendolo ricominciare da un certo punto, e lo premia quando vince presentandogli qualcosa di nuovo—solitamente altri nemici in altri scenari. In Deathloop invece il premio per il successo e la penalità per il fallimento sono, in sostanza, quasi identici. In ogni caso si dovrà tornare negli stessi posti, ad affrontare gli stessi nemici che faranno le stesse cose, solamente a un punto diverso della progressione narrativa—vale a dire: del completamento del piano di Colt. Ora, quale level design può reggere un’impostazione del genere, simile a un game over perenne?
Com’è possibile convincere il giocatore che tornare ancora e ancora nelle stesse quattro aree—non una frase fatta: sono proprio quattro, per quanto vi accadano cose diverse in quattro differenti fasi del giorno—sia divertente? Che abbia senso affrontare più e più volte gli stessi ostacoli per tornare nello stesso luogo, magari solo perché si è trovato il codice per aprire una porta o una cassaforte? Deathloop ha, in effetti, un level design stellare, ma nessuna ambientazione potrebbe mai reggere la quantità di ripetizioni prevista dalla storia del gioco. Dopo essere passati di fronte a un certo numero di porte e di casseforti impossibili da aprire senza aver trovato il codice giusto in un altro loop, qualsiasi enigma ambientale crea poi confusione: la soluzione è raggiungibile tramite un po’ di esplorazione oppure si trova in un’altra giornata? Le uniche certezze in merito sono quelle ricavabili dalla pagina degli obiettivi, alla faccia dell’immersive sim.