Si può vivere un’esistenza normale conoscendo con certezza la data della propria morte? E si può restare sani di mente sapendo invece che la propria morte è rimandata a tempo indefinito? Death’s Door pone domande come queste. La morte è un argomento onnipresente nei videogiochi—si tratta in fondo dell’unico medium che quasi sempre costringe chi ne fruisce a morire ripetutamente—ma l’opera seconda del duo Acid Nerve, già responsabile di quel generatore di imprecazioni chiamato Titan Souls (un gioco fatto di soli scontri con i boss, dove basta subire un colpo per morire, e si combatte con un arco e un’unica freccia a disposizione), ne fa il proprio tema portante.
La morte informa dunque ogni aspetto del gioco, dalle ambientazioni—che si fanno apprezzare tanto per lo stile quanto per la palette dei colori, senza contare gli evidenti omaggi a Miyazaki—alla trama, a partire dal personaggio principale. Il protagonista è infatti un corvo il cui lavoro consiste nel riscattare le anime dei morti, appena arrivato in ufficio per quella che sembra un’altra tranquilla giornata di pratiche burocratiche nell’oltretomba. L’anima di cui si deve occupare gli viene però sottratta, e il suo recupero si rivelerà essere un’impresa più impegnativa del previsto: si troverà a dover risolvere il mistero dei suoi colleghi scomparsi e di alcune creature cresciute a dismisura che si sentono ormai immortali, andando nel frattempo a esplorare ogni angolo del mondo di gioco. Perché Death’s Door fa molto bene soprattutto questa cosa: invitare all’esplorazione.
Gli sviluppatori hanno utilizzato diverse strategie per raggiungere questo risultato. Innanzitutto tutti i livelli sono grandi abbastanza da dare l’idea di portercisi perdere dentro, ma non così tanto da impedire a chi gioca di orientarsi facilmente a memoria—dato che non esiste alcun tipo di mappa. Il level design inoltre propone percorsi labirintici e intricati: fin dall’inizio il giocatore è incuriosito dalle aree che vede ma non può ancora raggiungere, entrando subito nell’ordine di idee di dover tornare a scoprire in seguito cosa abbiano da offrire. Infine, ogni ambiente è pieno di zone segrete spesso nascoste—sfruttando anche “la faccia oscura” della visuale isometrica—molto bene, ma per fortuna c’è un personaggio il cui unico compito è proprio fornire suggerimenti per trovarle.
In questo modo Death’s Door sembra custodire sempre una nuova sorpresa. Il mondo di gioco è illusoriamente piccolo, e l’opera seconda di Acid Nerve appare quasi un saggio di game design per quanto concerne il mantenimento di un alto livello di coinvolgimento del giocatore, che non solo scoprirà più volte—persino dopo la sconfitta del boss finale e i titoli di coda—di avere ancora tante cose da fare, ma avrà anche sempre voglia di farle. Perché ciò sia possibile è necessario calibrare bene molti aspetti, dalla diversificazione del gameplay al livello di difficoltà ai meccanismi di progressione, e in Death’s Door tutto si incastra alla perfezione. Più che sulla singola trovata capace di rendere unico un gameplay, questo gioco si basa, come un meccanismo a orologeria, su una serie di componenti progettate per lavorare bene insieme.
La diversificazione del gameplay, che prevede soprattutto combattimenti ma anche parecchi rompicapi da risolvere, ha ad esempio un impatto diretto sul livello di difficoltà: il complesso level design dei livelli a cui si è già fatto cenno è infatti ricco di leve da azionare e di altri meccanismi da attivare, che spesso non servono a proseguire, ma ad aprire percorsi meno tortuosi. Quando si muore, mentre i nemici tornano in vita, tutte le scorciatoie sbloccate restano inalterate, perciò invece di dover rifare da capo tutto il livello si può tornare rapidamente lì dove l’azione consente di fare progressi. Si tratta, volendo, del tradizionale concetto di checkpoint integrato nel level design attraverso il puzzle-solving.
Vedere apparire la scritta—a caratteri cubitali, in caps lock—DEATH dunque non scoraggia mai: non solo la morte non viene punita eccessivamente, ma risulta un meccanismo di apprendimento. Si ha sempre l’impressione di migliorarsi e di essere più vicini al tentativo vincente. Ora, se la difficoltà è sempre molto soggettiva—per alcuni il principale problema saranno i boss, per altri i nemici a ondate, con sezioni quasi da bullet hell—ad essere certo è quanto il combattimento sia sempre appagante, grazie anche a una caratteristica che viene a volte citata come un difetto del gioco: le poche mosse a disposizione del giocatore.
In realtà spesso mettere a disposizione del giocatore molte mosse serve a semplificare il design dei nemici: ad avversari diversi corrispondono mosse diverse, e la questione è risolta. Meno banale è trovare una varietà di nemici e di boss che possano essere superati usando una manciata di attacchi corpo a corpo e a distanza, la schivata e nient’altro. Death’s Door non solo è ai massimi livelli (quelli di Hyper Light Drifer, per intenderci) per quanto riguarda fluidità e ritmo dei combattimenti, ma propone nemici convincenti e boss fight memorabili—la penultima, che trabocca di stile tra colonna sonora, scelte cromatiche e pattern di movimenti, è tra le più belle di sempre—soprattutto perché è necessario rispondere ad attacchi sempre diversi con lo stesso set di mosse.
Chi si trovasse in difficoltà potrà contare su una considerevole quantità di potenziamenti: le anime accumulate—che a differenza dei souls-like non si azzerano mai—possono essere usate per migliorare caratteristiche del protagonista come la forza e l’agilità; alcuni semi possono essere piantati in appositi vasi per far crescere piante che ripristinano la salute; collezionare cristalli consente di accrescere la barra della salute, vale a dire il numero di volte che si può essere colpiti prima di morire. Potenziare al massimo il protagonista richiederà un’attività di backtracking agevolata dalle numerose porte con cui le zone dei vari livelli verranno collegate all’ufficio, che funge da hub principale del gioco.
Il senso di progressione si materializza visivamente soprattutto mediante le porte di cui si popola l’hub principale man mano che si accede a nuove aree. Raggiungere ogni angolo del mondo di gioco, per il resto, sarà principalmente una questione di equipaggiamento: si parte con arco e frecce, ma in seguito si avrà anche la possibilità di lanciare palle di fuoco, far esplodere bombe e utilizzare un rampino. Si tratta di abilità già viste nei capitoli classici di The Legend of Zelda, e a questo proposito vale la pena citare la recensione di Garrett Martin apparsa su Paste Magazine.
Garrett Martin nota come Death’s Door dimostri che la nostalgia non deve essere per forza sempre sfrontata, appariscente, spiattellata ovunque sullo schermo. I riferimenti ad alcuni tra i giochi più belli e più amati di tutti i tempi sono abbastanza chiari perché chiunque conosca The Legend of Zelda possa cogliere e apprezzare, ma vengono inseriti in un contesto personale, ispiratissimo e di grande carattere, con lo scopo di raccontare un mondo e una storia nuovi e originali—in quanti altri giochi si celebra un funerale per ciascuno dei boss sconfitti? Non si può certo dire lo stesso della maggior parte dei zelda-like, che pensano piuttosto a evocare lo spirito dell’opera di Shigeru Miyamoto con variazioni della stessa formula; ma questa è una lezione che non solo il mondo videoludico dovrebbe imparare.