Sono nato nel 1983. Tra qualche mese compirò 38 anni. Per chi ha la mia età e molte altre persone delle generazioni immediatamente adiacenti alla mia, Doom rappresenta una di quelle esperienze che gli americani definirebbero changing, capaci di determinare un cambiamento profondo di… tutto. Forse non è filologicamente corretto scriverlo, ma per me è stata la prima volta che un videogame mi metteva dentro la testa del protagonista. Ovvero dentro la testa di un militare che si scopre abbandonato all’interno di una base spaziale, situata sui satelliti di Marte, all’interno della quale si è aperto un portale che conduce all’inferno e da cui rigurgitano fuori mostri e demoni che tu, il giocatore, devi fare a pezzi con una campionario di armi tanto vasto quanto soddisfacente nell’interagire con l’ambiente e restituire la sensazione di tenere tra le braccia una doppietta o una mitragliatrice pesante.
Il fatto che io abbia vissuto quest’esperienza quando ero ancora alle scuole medie, dunque intriso di una visione della vita spietata e spensierata allo stesso tempo, ha fatto modo che mai io abbia associato Doom—il suo gameplay, le sue ambientazioni, la sua identità visiva—a un sentimento diverso da una profonda, incontenibile, esilarante e gioiosa esaltazione. A parte qualche occasionale jumpscare, l’atto di aprire le porte a tenuta stagna che dividono le aree dei dungeon di cui sono composti i livelli del gioco era sempre un atto accompagnato da una trepidante voglia di ridurre i nemici a quegli ammassi sanguinolenti di ossa e carni sventrate che sono le carcasse che ci si lascia alle spalle, mano a mano che si progredisce nell’avventura. Mai, e dico mai e lo ribadisco, in quell’età innocente e perfida della vita, ho provato un senso di angoscia, di oppressione o di spaesamento giocando a Doom. Questo fino a quando, qualche settimana da, mi sono imbattuto in Doomer.
Le cose sono andate così. In un momento vuoto, come ce ne sono tanti nel corso di una giornata, ho avviato Instagram. Lì, ad aspettarmi, c’era una storia postata da Silvia Dal Dosso del collettivo Clusterduck che, per chi non lo sapesse, è un collettivo di artisti e designer che fa ricerca sui meme e sul rapporto che hanno con la nostra cultura. La storia era il frammento di un video. Inconfondibile, la barra delle statistiche di Doom occupava la parte inferiore dello schermo. Ma tutto intorno, le pareti del dungeon, un tempo così familiari, erano ricoperte di meme. Affascinato, ho chiesto immediatamente cosa fosse quella cosa. È così che ho scoperto Doomer, che è, appunto, una mod di Doom. Sono corso a scaricarla. L’ho installata e lanciata. Mentre il programma caricava pregustavo già le risate. Meme sommato a Doom aveva attivato nella mia mente l’idea che stessi per trovarmi di fronte a una forma di quintessenza del LOL. Una sorta di distillato di ilarità che mi avrebbe intrattenuto per qualche ora, forse qualche giorno. Non avevo idea dell’orrore in cui stavo per addentrarmi.
La prima schermata sembrava confermare la mia prima impressione. Una melodia di suoni pop elettronici nutrienti come zuccheri sintetici ha colpito le mie orecchie, mentre sullo schermo appariva la celebre illustrazione iniziale di Doom. Solo che, al posto del casco, il soldato galattico esibiva l’espressione sorniona e annoiata del doomer, ovvero, come riporta il sito Know Your Meme, “una variante del personaggio Wojak caratterizzato come un ventenne che soffre di depressione e possiede una visione tetra dell’esistenza”. Sorrido e premo Esc per far apparire il menu del gioco. Sposto il teschio che funge da puntatore su new game e premo Enter. Sullo schermo appare la scritta “ghosts of my life”. Cool penso, una citazione di Mark Fisher. Premo Enter e mi appare la schermata di selezione della difficoltà. Senza pensarci troppo sposto il puntatore sulla quarta voce, che recita “marxist supernanny”. Aspetta un attimo, ma è anche questa un citazione di Mark Fisher.
Mi prendo un secondo. A ogni livello di difficoltà corrisponde la citazione di un concetto di Mark Fisher. Cool, penso mentre premo Enter. L’immagine cola via e sono nella prima stanza. Un beat ripetuto in loop riempie quello spazio virtuale. Mi arriva alle orecchie ovattato, come se fossi immerso in un muro d’acqua. Muovo il personaggio all’interno del dungeon. Mi giro intorno. Le pareti dell’ambiente sono tappezzate di meme. Ne riconosco alcuni, tra cui il faccione bonario di Stirner. Altri, in stile manga, mi sono ignoti. Una bella ragazza in stile spaziale campeggia sulla porta d’ingresso. Mi muovo rapidamente e mi accorgo che tutti gli elementi del gioco, dai pezzi d’arredamento agli oggetti, glitchano. Appaiono e scompaiono e il loro ritmo mi pare accordarsi a quello del beat che continua ad avvolgersi su se stesso. Ora lo riconosco, è Archangel, la seconda traccia di Untrue di Burial.
Raggiungo la stanza successiva e qualcosa mi colpisce. Lo schermo si fa rosso. D’istinto guardo in basso. La mia salute è calata di un 10%. Oh, ma guarda, il volto stilizzato del personaggio non è il solito mascellone di Doom è il doomer di cui sopra. Non faccio in tempo a pensare “ganzo”, che il meme fa una smorfia di dolore. Qualcosa mi ha colpito di nuovo. Cazzo, fai attenzione Flavio, mi dico, dopotutto sei in una base spaziale tappezzata di meme in cui s’è aperto un portale da cui stanno rigurgitando fuori i demoni infernali. Meglio stare in campana. Perché sì, sono ben qui per il LOL, ma a tutto c’è un limite. Alzo lo sguardo. Nella stanza non c’è nulla. Indietreggio. Ricevo un terzo colpo. Ho perso del tutto la mia armatura e la salute è già sotto la metà. Sparo un colpo alla cieca. Ne ricevo uno in risposta. Ed è allora che lo vedo. Mi appare per un attimo davanti agli occhi. È un soldato zombie. Carne da cannone virtuale che dovrei spazzare via senza problemi. Ma è solo in quel momento che mi accorgo che anche i nemici, come gli oggetti, glitchano. Appaiono e scompaiono al ritmo del beat di Burial. Sgrano gli occhi. Poi, nel momento in cui vengo ucciso, penso: ghosts of my life.
Torno alla lobby e cerco di razionalizzare quello che ho appena vissuto. Inizio ad avvertire una strana inquietudine. Cos’ho appena visto? Avvio una nuova partita. Questa volta scelgo un livello di difficoltà più semplice. I nemici glitchano, e per quanto l’intelligenza artificiale che li guida sia primitiva è necessario compensare il fatto che, beh, si possano vedere solo per un istante prima che appaiano di nuovo in un posto diverso. Inoltre, mentre il primo livello si carica per la seconda volta, dentro di me qualcosa mi dice che mi serve più tempo per capire dove mi trovo. Adesso, prima di muovermi, attendo. Guardo con più attenzione l’ambiente. In fondo alla stanza, dritto di fronte a me, c’è un pannello che scende dal soffitto. Una scritta bianca, su un campo rosso profondo, recita la frase “is there no alternative?”. È il sottotitolo di Realismo Capitalista, il libro più celebre di Mark Fisher. Ma è anche, allo stesso tempo, una dichiarazione d’intenti interna al gioco.
Esiste un’alternativa all’inferno? Avanzo nella stanza con cautela. Sui muri al centro campeggia la copertina dell’edizione originale di Fanged Noumena, la raccolta di scritti di Nick Land, un altro nume tutelare dell’accelerazionismo. Questa volta, consapevole delle difficoltà, avanzo con maggior cautela e mi faccio strada tra i nemici con un esito più favorevole della prima volta. Dopo tutto si tratta solo di fare un piccolo sforzo mnemonico per capire quali e quanti mostri ci sono in ogni stanza. Eliminarli, a quel punto, diventa solo questione di mirare bene e provare ad anticipare i loro movimenti, i cui schemi sono, come dicevo prima, tutto sommato abbastanza primitivi e ripetitivi. Nel corso dei giorni successivi procedo lungo il gioco, livello dopo livello, fino ad arrivare alla fine. Mentre esploro i diversi dungeon che compongono il gioco, i meme sulle pareti mi sembrano graffiti lasciati da una civiltà ormai morta. Portali capaci di spalancare le porte di abissi che si snodano frattali di riferimento culturale in riferimento culturale. Alcuni li so decifrare. Altri mi lasciano interdetto e solo. Solo di fronte a un vuoto di riferimenti che non riesco a mappare.
Quale oscura realtà si spalanca dietro quelle immagini? È la domanda che mi faccio a ogni passo, mentre procedo per i tunnel massacrando i mostri che mi vengono incontro. L’apice dell’orrore lo raggiungo nel secondo livello, salendo la scala che porta in cima a una torre. Dalle finestre, che nel gioco originale s’affacciano sull’esterno della base, si scorge un’immagine potente, depositata da tempo nel mio inconscio. Sono le Torri Gemelle in fiamme, l’immagine che ha definito un’epoca, quella in cui ho vissuto i miei vent’anni. Ogni scenario esterno del gioco è dominato da quella visione. L’universo di Doomer è letteralmente immerso nell’immagine delle Torri Gemelle in fiamme. Quella cosa è Doom ma, allo stesso tempo, non è lo. È qualcosa di più inquietante. È l’immagine riflessa e deformata della nostra società che ci assale coi suoi frammenti indecifrabili e mostruosi. È il gioco infinito del senso e del linguaggio, che ci allontana da noi stessi, che ci spiazza e ci disloca. È l’effetto della telepresenza digitale, che ci rende ostili gli uni agli altri, come se le nostre vite non fossero altro che errori. Glitches of my life.