In un periodo della mia vita pensavo che Morrowind fosse il gioco più bello del mondo.
Non è un’opinione di cui mi vergogno, sia chiaro—ero giovane ed era il primo gioco di alto livello (e uno dei primi in assoluto) su PC su cui avessi messo le mani. Con l’età arriva la maturità, e con essa la rivalutazione di quello che si considerava geniale in gioventù, ma le emozioni restano. L’impatto che mi lasciò fu fragoroso, e ancora oggi cerco negli RPG a cui gioco le stesse emozioni che mi aveva dato all’epoca.
Un confronto con Morrowind—o beh, con uno qualsiasi dei giochi di Bethesda—da parte di uno studio indie è necessariamente un confronto impari. Ci sono milioni e milioni dietro a quegli RPG, e decine quandonon centinaia di persone. E sebbene sia vero che gli strumenti di oggi permettono a una persona di fare quello che negli anni ‘90 richiedeva un intero team, è anche vero che i progetti di un certo genere richiedono comunque soldi, tempo e risorse.
Mi avevano descritto Dread Delusion come un Morrowind moderno, ma sono contento di aver scoperto che non è un semplice clone. Si, una certa influenza è innegabile, soprattutto nel campo delle meccaniche—ma visivamente e ludicamente si tratta di un collegamento più superficiale di quanto pensassi, a volte quasi nel campo delle vibe più che dell’omaggio vero e proprio. Sarò sincero, all’inizio la cosa mi ha deluso, ma una volta affrontato per quello che è, non per quello che mi è stato fatto pensare fosse, la sua identità si è fatta palese; e molto, molto potente.
Identificarne le influenze in maniera più precisa non è complicato. Un po’ Morrowind nell’aspetto estetico delle foreste di funghi e della biomeccanica, un po’ Thief nel suo stile visuale e nel gameplay furtivo, un po’ King’s Field, un po’ CRPG vecchia scuola, Dread Delusion è un gioco di ruolo in miniatura: poche statistiche, spazi super compressi, magia e assalto all’arma bianca e stealth—tutte cose già viste ma piacevolmente mantenute molto condensate e dirette. Una versione “miniRPG”, si potrebbe dire, sia per tempo di gioco che per dimensioni. Città di cinque o sei case, quest da piccoli passi, qualcosa che prende il genere e lo fa bollire fino ad estrarne l’essenza più concentrata, per poi imbottigliarla e fartela bere con gioia.
C’è però un aspetto di Dread Delusion che merita un’attenzione particolare: la sua fantasia. O il fantasy, se vogliamo dirla in maniera più precisa—il regno meccanico dove i sudditi si sono costruiti il loro sovrano, il gruppo di mercenari che rubano la prima stella artificiale da un’università magica, una nazione di non morti con un governo di non morti, l’uccisione di divinità (non inteso come esseri potenti, ma onnipotenti) che è una semplice parte della vita vissuta. Sono dettagli fenomenali—navi volanti, mercanti di tè di funghi, manichini d’addestramento che stampano il danno inflitto dai tuoi attacchi su una pergamena, un mondo tanto stralunato quanto coeso e coerente. Un mondo in cui perdersi—ed è molto facile perdersi—diventa il più grande piacere che offre l’esperienza.
“Anche gli dei si sbagliano,” dice uno spettro—ma sono errori per cui vale la pena condannare il concetto stesso di religione? L’Unione Apostatica, la fazione che ti ha costretto a fare il suo sporco lavoro a inizio gioco, pensa di sì e intende finire il lavoro. Gli dei devono morire, tutti, indifferentemente dal loro ruolo. Ma non tutti sono d’accordo—si sta scambiando un sovrano assoluto per un altro, alla fine, e tra tributi di sangue per la religione e massacri contro la religione, da che parte dovremmo stare noi?
È tutto un’illusione terrificante, a riflettere il titolo, e ogni quest o azione riflette questo senso di cinismo trasognato, condito dai cieli rossi e dal paesaggio alieno. L’influenza di Morrowind viene presa, concentrata, e usata per preparare qualcosa che osa avviarsi verso terre che perfino Bethesda sembra faticare a esplorare. È sfrenato e sfacciato, e non chiede scusa a nessuno che si sia perso per strada.
Un’altra cosa che condivide con la casa americana è la scarsa cura per la rifinitura finale. Il gioco è molto “sporco”, con screzi evidenti in collisioni, chiarezza delle quest, animazioni varie—la scarsissima profondità dei sistemi di stealth e combattimento sarà anche fedele a una certa era videoludica, ma alla lunga fa stancare chiunque non sia un retro-gamer dei più durissimi e purissimi. C’è un sistema di parata a tempo e attacchi caricati e compagnia bella, ad esempio, ma a un certo punto del gioco scatta una molla mentale—e inizi a premere attacchi a caso, conscio che quei pochi danni che riceverai prima che un nemico muoia valgono meno del tempo che perdi a giocare in maniera efficiente.
È innegabile che molto sia dovuto al budget e alle dimensioni estremamente più basse rispetto a Bethesda. E… se devo essere onesto, la cosa ha un certo impatto. Mi è stato difficilissimo giocarci senza pensare quanto sarebbe stato magnifico con una cura grafica e di gameplay molto più avanzata, con sistemi per la routine degli NPC invece di cartelli di divieto d’ingresso con su (letteralmente) scritto “Il proprietario della casa non ti permette di entrare”. Un mondo di gioco che è meno open world e più giardino, molto piccolo, compresso ma non complesso; ma comunque sofisticato, e soprattutto efficace.
È una di quelle situazioni per cui sono felice di non dare più giudizi numerici. È chiaro che il gioco vuole essere più della somma delle parti, e il fatto che non riesco a smettere di giocarci vuol dire che ci sta riuscendo pienamente. Ma è questo il motivo per cui mi sono lanciato in una scrittura un po’ più da recensione del solito. Si può considerare un gioco un capolavoro se eccelle in uno solo dei suoi aspetti? Se ogni due minuti ti imbatti in qualcosa che ti costringe a fare ricerche online o ti fa chiaramente vedere qualcosa di rotto? Se la maggioranza dei personaggi coinvolti nelle tue avventure non reagisce minimamente alle tue azioni o alla stessa conclusione della quest di cui fanno parte? Se nonostante la confusione, nonostante la mancanza di cura evidente, non puoi smettere di pensare a quanto ti influenzerà nei tuoi giochi futuri?
“Abbiamo combattuto gli Dei, e abbiamo vinto,” afferma un geniere dell’esercito dell’Unione Apostata fumando la sua pipa, in una città arrampicata su isole volanti dopo lo Spezzamento del Mondo. “Tu non hai mai visto un Dio con le spalle al muro, te lo leggo negli occhi. Io sono tornato a casa. Molti altri non ce l’hanno fatta.”
Una stella rossa brilla al posto del sole, affondando oltre l’orizzonte, diretta verso le terre dove i non morti aspettano eternamente, tingendo coi colori del sangue gli esseri giganteschi che le passano davanti. Se mi avventuro verso l’isola sottostante, posso provare a recuperare la seta di insetti giganteschi e usarla per fare un alcolico da vendere in una taverna malfamata raggiungibile tramite un portale magico nascosto da dei contrabbandieri. Mi manca poco per permettermi di comprare la mia aeronave.
Dread Delusion me lo ricorderò a lungo.