Captain è un guerriero e un cacciatore di taglie, e si dirige verso la torre in cerca di un oggetto di grande valore. Little Dros è una palletta gelatinosa, e in quella stessa torre veniva tenuta prigioniera, prima di riuscire a fuggire. Le loro storie di incrociano subito: Captain ha la peggio in uno scontro, Dros lo trova e lo rianima, anche perché la sua armatura le sembra un ottimo guscio di cui servirsi. I destini si uniscono, l’avventura va avanti: Captain può continuare la sua ricerca all’interno della torre, Dros può tornarci per capire le origini e le motivazioni della sua prigionia. L’antefatto di Dros, titolo sviluppato dallo studio australiano emergeWorlds, è semplice ma ingegnoso: presenta subito i due personaggi giocabili, e fonda tematicamente tutto il gameplay.
All’epoca dei giochi a 8 e a 16 bit, dare una fondazione tematica al gameplay era l’ultima delle preoccupazioni di un team di sviluppatori. Nessuno riteneva importante che le caratteristiche e le abilità dei personaggi trovassero una spiegazione nel contesto del gioco. L’esempio classico è senz’altro Super Mario: fiori che permettono di sparare palle di fuoco, stelle con cui diventare temporaneamente invincibili, e così via. Il principale franchise di Nintendo—così come il mondo Disney, l’universo Marvel, ogni dogma religioso o il regolamento di qualsiasi sport—si fonda su quella che, in ultima analisi, è una serie di assurdità; saperle trasformare in elementi di fascinazione, e soprattutto in subitanei dati di fatto—cos’altro potrebbe fare un fungo, se non far diventare Mario più grande?—è un’arte misteriosa.
Oggi sono in pochi a potersi permettere un lusso del genere. Troppe cose devono andare per il verso giusto, affinché a partire da una serie di assurdità emerga un linguaggio, un pezzo di immaginario, un oggetto di culto e di studio; verosimilmente, resterà piuttosto una serie di assurdità. Così, persino in piccole produzioni come Dros è possibile trovare, se non altro, un solido impianto tematico, anche quando le dimensioni del team non consentono di spingersi oltre: «Ovviamente, tutti vorrebbero vedere i propri personaggi e mondi di gioco portati in vita da un team di 20 o 30 sviluppatori e artisti. Essendo una piccola realtà indipendente (solo 3-4 persone), abbiamo dovuto fare fin dall’inizio delle scelte creative alternative che ci permettessero di dare corpo al mondo di Dros senza sforare il nostro budget. Un esempio è stato l’uso di fumetti disegnati a mano per espandere la storia e la lore», hanno raccontato gli sviluppatori a VeryAli Gaming.
Del mondo di Dros, allora, non sapremo molto, neppure una volta concluso il gioco; scopriremo che la torre è in realtà una sorta di gigantesca fabbrica, all’interno della quale i dros sono al servizio degli esperimenti di un malvagio alchimista, una sorta di pifferaio magico capace di comandarli a distanza suonando un flauto—vale a dire l’oggetto dei desideri di Captain. I riferimenti all’alchimia presenti nel gioco sono diversi, dalle quattro sezioni in cui si dividono i 40 livelli, corrispondenti ai quattro elementi—aria, terra, fuoco e acqua—allo stesso termine “dross” (proprio “dros” in inglese antico), che indica i residui, gli scarti, le impurità di un metallo. Se non verremo mai coinvolti in una trama avvincente, tutto ciò che vedremo all’interno della torre avrà però una collocazione precisa, andando a designare una catena produttiva—vale a dire una narrativa ambientale—credibile e dotata di senso; e anche tutte le azioni e le abilità dei personaggi avranno una loro coerenza, alla luce delle premesse.
L’incontro tra Captain e Little Dros non configura un protagonista e un deuteragonista; benché sia la seconda ad “abitare” il primo, chi gioca non ha un punto di vista privilegiato da fare proprio. Non sarà cioè un V alle prese con un Johnny Silverhand, come in Cyberpunk 2077, o un Akito posseduto da Kazuhiko Inoue, come in Ghostwire: Tokyo. Captain e Little Dros hanno ugualmente bisogno l’uno dell’altra, e allo stesso modo impareranno a convivere solo dopo qualche scaramuccia iniziale; ma sono entrambi personaggi principali e, come il gioco non tarda a rendere chiaro, complementari. Captain, essendo privo di coscienza, senza Little Dros non può fare praticamente nulla, nemmeno muoversi; però, una volta animato dalla sua compagna, è capace di combattere, salire le scale, azionare certi macchinari. Little Dros, invece, quando abbandona le spoglie di Captain è l’unica a poter saltare, nuotare, infilarsi in passaggi stretti, decifrare scritte incomprensibili e visualizzare percorsi altrimenti invisibili; però è indifesa, e deve evitare il contatto con qualsiasi nemico. Per entrambi collaborare significa sopravvivere.
L’esplorazione del mondo di gioco si divide dunque equamente tra i due personaggi, a cui corrispondono due gameplay differenti, e perfettamente coerenti con il modo in cui il gioco ce li ha presentati. Captain è il protagonista di un hack-and-slash, Little Dros di uno stealth, ed entrambi partecipano a un puzzle game orientato all’esplorazione; la struttura dei livelli ricorda molto i diorami ricchi di passaggi segreti e zone nascoste su cui si basava Captain Toad: Treasure Tracker. Il level design non mente: i rompicapi sono il cuore del gioco, la parte più curata e più riuscita di Dros, su gli sviluppatori puntano tutto. La loro fiducia nella bontà degli ambienti che hanno progettato si riflette anche negli obiettivi facoltativi, pensati per incoraggiare a tornare più volte a ripetere lo stesso livello: alcuni spingono a esplorarne ogni angolo, per arrivare a raccogliere una determinata quantità di collezionabili, spesso nascosti davvero bene; un altro obiettivo richiedere invece di completarlo entro un certo un limite di tempo, invitando quindi ad adottare un approccio del tutto antitetico.
In generale, agli obiettivi è evidentemente riservato il compito di alzare un livello di sfida abbastanza basso: i rompicapi brillano per varietà e complessità, e spesso presentano qualcosa di nuovo a chi gioca, ma non sono certo difficili; e il resto del gioco è molto permissivo. Dato che Little Dros può facilmente rifornire di energia vitale Captain, morire e dover ricominciare un livello da capo è un evento rarissimo; il più delle volte commettere un errore riporta al momento immediatamente precedente l’evento fatale. Il combattimento è piuttosto piatto e ripetitivo, e non sarebbe potuto essere altrimenti vista la carenza di mosse e di nemici; lo stealth è ugualmente ridotto all’osso, e il platforming è sempre molto basilare. Tuttavia non è automatico considerare questi aspetti dei veri e propri difetti. È vero che inserirli nel gioco è stato un po’ avventato, a livello di “posizionamento” sul mercato: dalla loro presenza ci si potrebbe aspettare uno zelda-like, o comunque un titolo più vasto rispetto a un puro puzzle game tridimensionale come il già citato Captain Toad: Treasure Tracker; ma Dros voleva esserlo?
Sarebbe difficile, e tutto sommato superfluo, stabilire se il gioco sia rimasto in qualche modo incompleto—complice magari una campagna Kickstarter che non è andata a buon fine—o se gli sviluppatori abbiano inteso fin dal principio dargli la forma con cui si presenta. Fatto sta che Dros funziona benissimo anche così: tutte le sezioni diverse dai rompicapi sono momenti in cui chi gioca può spegnere il cervello per qualche minuto e premere pulsanti fino al rompicapo successivo. Insomma, il fatto che combattimento, stealth e platforming siano deludenti, e restino in un certo senso dei momenti ausiliari, sempre al servizio di quello che è il cuore del gameplay, può paradossalmente essere considerata una qualità, nell’economia complessiva del gioco: la loro semplicità contribuisce a creare delle zone di comfort in cui è possibile acclimatarsi all’interno dei livelli.
Non esiste, qui, quella fatica mentale che deriva dal continuo susseguirsi di nuovi quadri e nuovi rompicapi tipica di tutti i puzzle game, da Adventure of Lolo e Kickle Cubicle a Portal e The Talos Principle. Ecco allora che tutte quelle componenti trovano la loro ragion d’essere anche in un puzzle game in cui le sezioni action sono ben lontane dal portare dalle parti di uno zelda-like—o da qualsiasi altra parte: chi si aspetta questo da Dros non potrà che restare deluso. Ad ogni modo, per quanto il gioco funzioni bene anche così, è inevitabile restare con l’impressione di trovarsi di fronte a un titolo che avrebbe potuto avere altre ambizioni. Sarà interessante vedere se basterà come biglietto da visita, e se gli sviluppatori avranno in futuro la possibilità di lavorare con un budget e un team di dimensioni adeguate. Con tutte le riserve del caso e in maniera forse un po’ indecifrabile—ma sicuramente con il contributo di un’azzeccata palette dei colori, e della colonna sonora di Arovane—il titolo sviluppato da emergeWorlds riesce comunque a mettere in piedi un luogo in cui ci si trova bene, e a cui è piacevole pensare di tornare fino a raggiungere la cima della torre.