Mi risulta difficile paragonare EarthBound a qualunque altro videogioco che conosco. La maggior parte dei titoli di successo smerciano adrenalina dura e pura a ripetizione, mentre EarthBound si concentra sull’emozione e sul desiderio. Il team dietro Call of Duty fa sfoggio del realismo delle armi nella serie, quasi fossero orgogliosi del macello che possono causare, mentre la campagna pubblicitaria per EarthBound puntava su adesivi “gratta e annusa” che evocavano l’odore di hot-dog e vomito.
Simulazioni del tran tran americano da milioni di dollari come Grand Theft Auto V sono messe assieme da enormi team di sviluppo e sceneggiatori eremiti che guidano Lamborghini, eppure non credo esista un gioco che riesca a far proprio e al contempo a dileggiare lo spirito randagio e sentimentale dell’America meglio di EarthBound, prodotto da meno di venti persone capitanate da un pubblicitario diventato filosofo.
Non molto tempo fa, ho chiamato mio fratello per la prima volta da un anno. Avevamo passato un po’ di tempo assieme quand’era in città per il mio matrimonio, ma—a parte qualche SMS—non ci siamo più sentiti da giugno del 2012. Sono successe cose molto importanti in entrambe le nostre vite e non sono più riuscito a chiamarlo, il che mi ha fatto—e mi fa ancora—sentire da schifo. Ho pensato che questo libro su EarthBound potesse essere una scusa perfetta per farci parlare di nuovo.
Per quale motivo mi sia venuto in mente che mi servisse un progetto di scrittura per riprendere i contatti con mio fratello, anziché un qualunque sconvolgimento nelle nostre vite—morti di familiari, licenziamenti, traslochi—rimane un mistero anche per me. Beh, è un “mistero” se voglio cercare una spiegazione più complessa di “Sono un coglione”. Quando mi sono finalmente deciso a chiamarlo, mi sentivo in colpa. Ma poi gli ho raccontato di questo libro. E abbiamo cominciato a parlare di EarthBound.
«Mi ricordo che l’avevamo preso, ma per un bel po’ non ci abbiamo giocato», dice Scott.
«Davvero?».
«Ma quando ci siamo finalmente decisi a cominciarlo, è diventato la nostra ossessione. Durante il weekend ci giocavamo tutto il giorno». Mi ricordo di come ci rintanavamo nella nostra stanza con le persiane abbassate. La sensazione del tappeto a pelo lungo sui polpacci e i piedi.
«Sono curioso. Cosa ti ricordi di più?».
«Gli adesivi gratta-e-annusa su Nintendo Power…».
«Sì! Cazzarola…». L’odore della polverina delle patatine Lay’s gusto barbecue incrostata sui polpastrelli. Ma a quale boss apparteneva quella fragranza? Mi metto a cercarlo…
«E ti ricordi l’odore di Mr.Barf?».
«No…». Carbon Dog! Carbon Dog: ecco il reo puzzone.
«Mio Dio, che odore strano. Non saprei… non avrei idea di come descriverlo».
«Scott: ci devi provare, ne va del mio libro», dico, ridendo.
«Forse era tipo… tipo un cetriolo. Però più schifoso. Ti ricordi l’insalata di cetrioli della Twang?».
«No». Con la mano libera, cerco su Google “insalata di cetriolo twang”. Dà brio a qualunque cosa!
«Era quello l’odore», dice Scott.
Faccio partire EarthBound e vedo tre loghi scuri: Nintendo, Ape, Halken. Tutti nero su bianco. Il logo di Ape Inc. si vede a mala pena, ma sembra essere composto da un uomo di Neanderthal stilizzato che tiene in mano una torcia di fronte alla parola APE, disegnata con delle ossa. Lo studio successivo, Halken, oggi conosciuto come HAL Laboratory Inc. (il nome viene da HAL 9000, il geniale computer assassino di 2001: Odissea nello spazio), mi ricorda qualcosa, quindi mi metto a setacciare Internet.
Su Google, digito Terminator 2 Il giorno del giudizio—un film che avrò visto 87 volte da bambino—alla ricerca del nome e del logo fittizio dell’azienda produttrice di Skynet, un’altra macchina cibernetica che cerca di sterminare il suo padrone. Mi compare il logo di Cyberdyne System, ma è troppo piramidale. Provo con “warner bros logo anni ‘70” e faccio simbolicamente tombola: il logo WB d’antan è il prozio dei punti e delle lineette di Halken ed è persino opera del leggendario Saul Bass, un designer che ho imparato ad amare mentre muovevo i miei primi passi nella grafica editoriale.
L’impeccabile sincronicità di questa correlazione mi dà i brividi. Ma poi diventa tutto ancora più intimo. Da bravo fan di 2001: Odissea nello spazio, mi riesce difficile guardare il logo di APE e non notare un riferimento al film che aveva stravolto la mia mente di dodicenne più di qualunque altra esperienza cinematografica, un film che mi aveva iniettato in testa quesiti filosofici che neanche sapevo potessero esistere.
EarthBound usciva nell’estate del 1995. Avevo cinque anni.
Non saprei dire quanti anni avesse mio fratello, dato che non so quanti ne abbia adesso.
Nel 1992—avevo tre anni—vivevano 1441 anime a Potosi, Texas, la città della mia infanzia. Negli otto anni a seguire, si aggiunsero altre 223 persone. Sono cresciuto in una terra piatta, ventosa e ricca di petrolio, circondato da animali. Un sacco di animali. Lo chiamavamo “il ranch”, ed era quella la sua funzione—mia madre curava la riabilitazione di animali feriti, di qualunque specie, e allestiva show di cavalli in miniatura. Per circa un anno, seguimmo la crescita di Tater Tot—lo stallone più piccolo del mondo. Mia madre aveva ficcato un acronimo nel suo nome, che si era rivelato veritiero: Tot stava per “talk of town”, “sulla bocca di tutti”.
Il piccoletto aveva successo; era molto richiesto da asili e case di riposo nel raggio di 50 miglia. Ho cercato di recuperare testimonianze su Internet delle mini-prodezze di Tater Tot, ma senza successo. Finché ho scoperto che esiste un altro cavallo in miniatura dal nome Tater Tot, le cui visite presso ospedali e scuole a Salmon, in Idaho, erano state documentate dal National Geographic. Mentre guardavo quel cavallo, mi sembrava che il mio passato non potesse avere alcuna esistenza empirica se non era possibile recuperarlo tramite una ricerca su Google.
Non ho molti ricordi del mio sesto anno di vita. O meglio, posso percepire il contorno di certe attività per l’impressione che hanno lasciato, ma i ricordi non sono punteggiati da alcun climax emotivo, essendo stati cancellati e ritracciati un milione di volte dai miei stessi tentativi di restaurare e affinare la memoria.
Allergie. Il vento dell’High West texano. Salti sul trampolino. Zampe di procione e punte di freccia. L’osservare enormi fiamme che divorano spazzatura in una fossa di rifiuti a cielo aperto. Io che guardo fuori dalla finestra sul nord, in preda al terrore. L’attesa di nuvole bianche e affusolate.
«Però era un gioco molto maturo». Scott si è fatto entusiasta. «Per cogliere tutte le allusioni sconce dovevi essere un adulto, o almeno un adolescente».
«Sì, mi ricordo che aveva un che di malizioso. Non so neppure se all’epoca sapessi cosa significa ”malizioso”, ma…». Quando avevo circa otto anni, Scott mi aveva chiamato su da lui per farmi vedere il suo computer, il cui monitor era in bella vista per chiunque passasse in fondo alla scala, la quale a sua volta era di fronte alla porta di casa. Ero in cima alle scale e guardavo il cursore di MS-DOS lampeggiare.
Scegli un numero…, disse Scott, con un ghigno sulla faccia. …da uno a tredici. Mi fermai un attimo; non avevo idea di cosa sarebbe successo. Tredici, dissi. Scott sorrise, digitò 1, poi 3, batté Invio con l’indice e mi mostrò il mio primo esempio di pornografia. Guardavo la donna, una rossa con indosso un indumento di cuoio che scendeva ad arco sui suoi fianchi, correva sotto la sua liscia pancia bianca e il suo seno sacro e sopra la zona (nuda, molto nuda) del costume da bagno. Oggi mi rendo conto, sbirciando mia moglie—una rossa—all’altro lato della stanza, che questo ricordo è come una profezia archeologica.
«Ed era un gioco di ruolo, ma sembrava appartenere a un genere completamente diverso», dice Scott, facendomi tornare a me.
«Aspetta—cosa intendi dire?».
«Era molto più semplice di tanti altri GDR. C’erano solo tre parametri base, solo poche azioni possibili in battaglia—le meccaniche erano molto semplici».
Le meccaniche.
Mi torna in mente che Scott programma ancora videogiochi.
Il Super Nintendo assomiglia a un carrarmato pallido. Le prime console di videogiochi avevano un aspetto innegabilmente utilitarista, come se la foga di lanciarle sul mercato lasciasse tempo solo per rivestimenti di plastica e controller funzionali. A ben vedere, le pressioni del mercato avevano fortemente influenzato il predecessore del Super Nintendo, il Nintendo Entertainment System, pensato per sembrare un videoregistratore nel tentativo di prendere distanza dal catastrofico crash dell’industria del videogioco del 1983 in Nord America (conosciuto in Giappone come lo “shock Atari”).
In soli due anni, i ricavi dei videogiochi erano scesi quasi del 97%. L’evoluzione strutturale delle console di videogiochi non è quindi lineare come da legge di Moore (secondo la quale le capacità di computazione raddoppiano ogni due/tre anni attraverso l’incremento del numero di transistor sui circuiti integrati); le console hanno fatto la spola tra compatti blocchi geometrici e parabole chic con l’aria da macchina sportiva, plasmate dai desideri di milioni di giovani umani.
Nel 1910, l’architetto austriaco Alfred Loos—che godeva dell’appoggio del filosofo Ludwig Wittgenstein—tenne una lezione dal titolo Ornamento e delitto. È un testo selvaggio, narcisista, convulso e tendente al predicozzo, recitato da un architetto diventato ideologo che si era innamorato dell’America. Una frase del suo discorso avrebbe poi esercitato un impatto enorme sull’architettura: L’evoluzione della civiltà è sinonimo della rimozione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Nella Villa Moller, la casa che Adolf progettò nel 1927, mi sembra di scorgere le origini squadrate del Super Nintendo. E—ancora più avanti—dell’impero ascetico di Steve Jobs.
Strumenti geniali come lo smartphone sono già forme semplici in dimensione tascabile, quindi è dura immaginare nuove possibili vesti per le console del futuro. Che possano un giorno diventare utilitariste fino all’estremo, cioè invisibili? Parti dell’ambiente come nuvole proteiformi?
«Final Fantasy VI aveva un mucchio di meccaniche diverse—il sistema degli esper, le reliquie, mosse speciali per ogni personaggio, input in tempo reale di alcune azioni in combattimento…».
«Oh, adesso ti capisco. Sì, hai ragione—EarthBound ha un che di davvero elegante. È come se avessero deciso di omettere qualunque cosa potesse distrarti dalla storia e dai personaggi. E dal suo tono stramboide…».
«Sì: per giocare bene, devi solo grindare, e per grindare ti basta salire di livello, curarti e trovare equipaggiamento migliore. Semplice». Mi stupisco di quanto Scott ne sappia di videogiochi e della naturalezza con cui ne padroneggia il gergo.
Il creatore di EarthBound, Shigesato Itoi, era diventato famoso anzitutto grazie ai suoi slogan.
La mia preferita tra le sue pubblicità risale al giugno del 1982, circa un anno prima che Nintendo facesse uscire il Family Computer (noto colloquialmente come Famicom) in Giappone. E—al contrario di EarthBound—lo spot è brutale: cristallizza il crescente antimilitarismo del pubblico giapponese, rinfocolato dall’intervento sovietico in Afghanistan e dell’infausto primo ministro entrante Yasuhiro Nakasone, direttore generale del Ministero della Difesa.
Pubblicato sulla rivista (oggi defunta) Kōkoku Hihyō (letteralmente: “critica pubblicitaria”), la réclame anti-guerra di Itoi presenta una sola riga di testo e una foto di due soldati giapponesi. Gli elmetti disegnano ombre sui loro volti, garantendogli una mezza anonimità. Sono leggermente inchinati, le loro mani gesticolano in direzione di uno sfondo grigio alle loro spalle. Le ombre sono nitide e convesse, come un ensō Zen dipinto a mano e tagliato a metà. Lo slogan di Shigesato si dipana orizzontalmente al centro della pagina, e si ferma in mezzo ai cuori dei due uomini. «Dopo di Lei, Primo Ministro».
La carriera di Shigesato nel settore pubblicitario è durata decenni, sulla scia della bolla economica giapponese tra gli anni ’70 e ’80. I suoi lavori come redattore pubblicitario sono disparati—macchine, gioielli, liquori della Suntory, cosmetici, abbigliamento, gruppi rock e i film d’animazione dello Studio Ghibli—e cacchio, fa capolino persino Woody Allen. La campagna più iconica di Shigesato—atta a promuovere i centri commerciali multipiano della Seibu—consiste di varie fotografie di Woody associate alle parole “Delicious life”.
Posso testimoniare che i centri commerciali giapponesi sono sensuali e ciclopici quanto le neurosi di Allen. Mia moglie e io viaggiammo in Giappone per la luna di miele, e durante la nostra visita a Tokyo passammo quattro ore in una filiale del nostro centro commerciale preferito, Tokyu Hands.
Il centro vanta otto piani, e le sue merci diventano sempre più sofisticate man mano che si sale verso l’alto. È il paradiso di un feticista del design e un ribaltamento completo dell’Inferno di Dante. Secondo piano: valige e portafogli. Ottavo piano: cancelleria e “accessori per la lettura”. I centri commerciali di EarthBound non assomigliano a quelli che visitavo mentre crescevo. Non si estendono a macchia d’olio tramite lunghe appendici stipate di negozi, e non ospitano corsie per il power walking che avvolgono tutta la struttura. No: i centri commerciali di EarthBound si innalzano verso il cielo.
«Mi sembra che iniziammo a giocarci nei weekend e ci stavamo dietro ogni giorno, tutto il giorno».
Rido. «Proprio così. Quanto ci abbiamo messo a finirlo?».
Scott ci pensa. «Mmh… tipo due mesi. Da uno a due mesi, dalle otto alle dieci ore al giorno, o almeno fino a quanto mamma non entrava in camera e diceva tipo, “adesso uscite”». È forse qui che è nata la mia tendenza al binge sia coi videogiochi che con le serie? O si è formata puramente grazie al tempo libero e alle comodità della tecnologia (Netflix, ad esempio)?
«Mi ricordo che ci giocavo, ma forse me lo sto solo inventando». Mi viene in mente che non ho alcun modo di saperlo davvero, se non grazie alla testimonianza di Scott. “Avrò avuto cinque o sei anni. Di solito guardavo te alle prese con un sacco di giochi, no? Era come se controllassi un film per tutti e due». Scott è titubante. «No, facevamo un po’ e un po’».
Scott ha sette anni più di me. Questo me lo ricordo. Scott dodicenne che passa il controller a Ken cinquenne. Se non avete un fratello maggiore, o se ne avete uno che non vi tratta bene, mi dispiace per voi.
I loghi scompaiono.
All’undicesimo secondo dell’intro di EarthBound si ode un lamento stridulo. Interferenze rosse e gialle riempiono lo schermo—una scia di sangue scattosa. Il suono si riallinea, si sdoppia, ritorna in sincrono—per 15 secondi, sembra di sentire un coro di antifurto, satelliti che muoiono, e bombe che cadono, preannunciando il caos.
Le interferenze lasciano spazio all’immagine di una strada urbana all’alba. Macchine e semplici edifici costellano la strada. Un manifesto che pubblicizza la prima risorsa sulla quale si buttano gli americani in caso di emergenza—GAS—svetta sul palazzo in primo piano, a sinistra. Tre dischi volanti punteggiano il cielo viola e giallo, e ognuno spara un raggio di energia filiforme verso la terra e gli edifici in lontananza. La scena è incorniciata da strane linee concave, come se la stessimo guardando attraverso la sicurezza di un elmetto con visore o di un cinema, a debita distanza.
Un testo rosso a caratteri cubitali sul lato alto dello schermo recita: LA GUERRA CONTRO GIYGAS!
Al venticinquesimo secondo, il cielo lampeggia. Sembra quasi di sentire i colpi, luce bianca che sfavilla nel cielo colorato e lancia riflessi sugli edifici, sottolineata ogni volta da un battito di basso. I colpi si fanno sempre più veloci e serrati, aritmici. Esplosioni. La musica è pura distopia: note minori e il suono—convincente da far paura—di una folla in preda al panico, durante una rivolta o una fuga o entrambe le cose—e poi i tuoni si fanno più veloci, le esplosioni più frequenti, il cielo diventa stroboscobico e il volume si alza—lo schermo è tutto bianco.
Due secondi più tardi, ascoltiamo il motivo musicale di EarthBound—jazzato, con un che di quartiere latino-americano che si sveglia in un’alba fantastica dopo un block party durato tutta la notte; la lettere che compongono il titolo del gioco ci scivolano davanti una a una, e viene da chiederci: ma che cazzo di gioco è EarthBound?