Moon over Moscow (1980), si intitola così quel brano incredibile che afferra Akira Yamaoka per la mano e lo porta a fare un giro sulle montagne russe dell’amore (Yamaoka, 2002). Akira è un ragazzino quando lo ascolta per la prima volta e, come in una di quelle storie sui viaggi nel tempo, ha un flash di se stesso una decina di anni più tardi: una rockstar con una zazzera di capelli neri e un sorrisetto piuttosto irritante. Dura solo un secondo, un battito di ciglia al ritmo martellante e ipnotico del brano dei Visage, ma è lì e ci resterà. Anche se Akira Yamaoka farà di tutto per non diventare quella versione di sé.
Il giovane Yamaoka è uno che la musica ce l’ha dentro. E questo è poco ma sicuro, tant’è che non riesce effettivamente a tenerla lontana dalla sua vita. Passa le giornate ad ascoltare gruppi di musica elettronica e punk. Ha una passione per i Visage ma adora ascoltare anche gli Ultravox e Vangelis, con il suo divino sintetizzatore. E non può fare a meno di iniziare a corteggiarla anche lui, l’elettronica. Come Vangelis si rifiuta di studiare le partiture. Gira questa voce su Yamaoka, una delle tante, che ai tempi della lavorazione di Silent Hill non sapesse leggere uno spartito. Lo si dice di tutti i grandi autodidatti, a dire il vero, ma in questo caso è lui stesso a confermarlo in un’intervista (Yamaoka, 2003).
Il fatto è che nonostante la passione e l’innegabile talento che dimostra, Yamaoka negli anni della sua gioventù cerca di intraprendere qualsiasi altra carriera professionale. Per esempio frequenta il Tokyo Art College per studiare interior design e product design. Una scelta bizzarra, lontana dalla musica. Viene da chiedersi che avesse in mente nel momento di scegliere l’indirizzo di studio. Si giustificherà anni dopo, davanti a tutti gli intervistatori che glielo chiederanno sorpresi: ma uno con un talento come il tuo perché voleva studiare interior design? Che c’entrava con la storia fino a quel momento, con Moon over Moscow e il sintetizzatore di Vangelis? Yamaoka dà sempre la stessa risposta: lui è cresciuto nei tardi anni ’80, ha sempre visto una commistione tra l’arte, la musica e il design. Artisti sperimentali come Steve Strange dei Visage o Mick Karn del gruppo Japan erano eccezionali designer e creativi (Yamaoka, 2002). È una risposta che ci soddisfa fino a un certo punto, perché erano senz’altro prima di tutto degli ottimi musicisti.
Durante gli anni dell’università Yamaoka compra un computer nuovo di pacca. Per fare musica, verrebbe da pensare, e invece no: vuole imparare modellazione 3D. Di nuovo, sembra nuotare lontano dal suo talento che ogni volta deve acchiapparlo per mano e fargli fare un valzer sotto il cielo di Mosca illuminato dalla luna. Nel PC Akira trova anche un programma gratuito per comporre musica. E proprio non ce la fa a lasciarlo stare; ogni volta che ne ha l’occasione accende il computer, si dimentica la modellazione 3D e comincia a comporre.
Insomma, Akira è un interior designer senza futuro, un product designer mancato e un modellatore 3D quantomeno distratto. Ma è un geniale musicista. Se ne accorge però solo quando capisce di poter mettere insieme tutte queste identità in un unico contenitore: i videogiochi. Così finalmente comincia a lavorare a Konami e viene facile pensare che uno forte come lui, adesso che quella zazzera di capelli neri e quel sorrisetto irritante sono nel fiore dell’età, scali in fretta i ranghi dell’azienda diventando un musicista di successo. Invece combina un casino.
Per esempio, il primo grande progetto in cui è coinvolto è un porting su PlayStation di un gioco di corse in auto che si intitola Speed King (1995). Akira dovrebbe semplicemente curare il passaggio dell’audio dalla versione arcade alla versione console. Solo che le musiche del gioco non gli piacciono. Gli sembrano quelle che metteresti in auto durante un appuntamento romantico, non se dovessi spingere un bolide a duecento all’ora per vincere una gara. E così si mette a riscrivere dall’inizio tutta la colonna sonora, e ne realizza una techno rave che restituisce al giocatore un considerevole senso di velocità. D’accordo ma le musiche originali dell’arcade? Nella versione PlayStation di Speed King non ne resta nemmeno una (Yamaoka, 2002). Il risultato è migliore dell’originale, e nessuno avrebbe il coraggio di dire il contrario, ma a Konami hanno capito che Akira Yamaoka è un ribelle; uno che fa le cose a modo suo a qualsiasi prezzo. Anche a costo di radere al suolo tutto e rifarlo da capo.
Nonostante il colpo di testa, Akira è un po’ come l’eroe di un film: irresistibile, fortunatissimo, carismatico e dal talento cristallino. Se gli spari lui si abbassa a raccogliere una monetina. Se lo centri al petto lo salva la stella da sceriffo e lui se ne sta lì col suo sorrisetto strafottente, da superstar. Così, uno dopo l’altro inanella una serie di lavori giusti, in cui tiene le mani a posto e si fa conoscere anche come sound designer di talento.
Partecipazioni importanti, sì, ma nulla per cui possa distinguersi. E poi sente quella voce che gira nei corridoi degli studi di Konami, a Tokyo. La voce del giovane director, ex-artista, a cui è toccato l’ingrato compito di scontrarsi a piena velocità con un muro chiamato Resident Evil. Yamaoka, come abbiamo detto, è un giovanissimo James Dean, è uno che vive per l’adrenalina, per il pericolo. Uno che contro quel muro ci si scontrerebbe volentieri.
Raccontando questa storia è difficile non rivolgersi a Yamaoka con sprezzante ironia e malcelata insofferenza, nonostante poi a conti fatti il suo personaggio sia definitivamente irresistibile. Quando anni dopo i giornalisti gli chiederanno come sia finito a realizzare la colonna sonora di Silent Hill, Akira darà la stessa risposta, con lo stesso ghigno di chi sta per raccontare una verità da guascone: mi sono proposto volontario, perché pensavo che a parte me nessun altro al mondo potesse scrivere quella musica (Yamaoka 2001).