Mettiamo che la persona a voi più cara al mondo muoia; che perda la vita in modo improvviso e brutale, sotto i vostri occhi; e che voi abbiate la possibilità di riportarla in vita; ma che tale possibilità comporti un prezzo da pagare, diciamo la vostra integrità morale e professionale nella sua interezza. Accettereste lo scambio? Scommettereste sul fatto di restare fondamentalmente la stessa persona, di poter guardare l’altro ed essere guardati con gli stessi occhi? Oppure, riuscireste a rifiutare lo scambio senza provare un senso di colpa, senza mettere in dubbio i vostri sentimenti, senza sentirvi egoisti? La premessa narrativa di Banishers: Ghosts of New Eden è più o meno questa, e ha un certo impatto, come spesso accade nelle produzioni di Don’t Nod.
Red e Antea sono due epuratori: il loro compito è far luce sui casi di possessione e di persecuzione spiritica, tenere separato il mondo dei vivi dal regno dei morti. Una missione particolarmente difficile da compiere nella New Eden del 1695, che potete immaginare come la New York di Ghostbusters subito dopo la liberazione di tutti i fantasmi catturati dai protagonisti—vale a dire come un luogo seriamente infestato, in termini sia di quantità di spiriti sia di potenza dell’entità che ha preso il controllo della zona. Tanto che Antea viene uccisa, e Red passa dal tenere separati i vivi e i morti al convivere con un fantasma, quello della sua amata. Dovrà decidere, come anticipato, se lavorare per la sua ascesa o per la sua resurrezione; ma per ottenere il secondo risultato dovrà diventare, in sostanza, un assassino.
La forza del dilemma morale al centro di Banishers: Ghosts of New Eden: è la sua vicinanza con il mito, e in particolare con quello di Orfeo, richiamato più volte nei testi che si possono trovare in giro per il mondo di gioco. In uno dei migliori film degli ultimi anni, Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, tre donne leggono quella famosa storia e non si capacitano della scelta di Orfeo di voltarsi, condannando Euridice. Alla fine una di loro propone un’interpretazione di quel gesto: l’argonauta sceglie il ricordo nella ninfa. «Non fa la scelta dell’innamorato, fa la scelta del poeta», dice. Se c’è un limite nell’impianto narrativo del gioco di Don’t Nod è proprio questo: è fin troppo facile fare la scelta dell’innamorato, piuttosto che quella del poeta. Gli sviluppatori probabilmente raccolgono questo tipo di informazione, e sarebbe interessante sapere in quali percentuali i giocatori abbiamo preso l’una o l’altra strada; l’impressione, però, è appunto che una resurrezione sia troppo più allettante di una morte seconda e definitiva.
Un altro limite di Banishers: Ghosts of New Eden riguarda poi il modo in cui il gameplay si mette al servizio dell’ottima trama. Ogni buona storia, nel rispettivo medium, ha bisogno di essere sorretta dalla messa in scena del regista, o dallo stile dello scrittore, o dalle scelte di design degli sviluppatori. Qui, ad esempio, appare discutibile il ricorso a un finto mondo aperto, una specie di labirintico intreccio di strade a volte a senso unico e spesso senza via d’uscita che appare un po’ scolastico nel suo ricorrere in modo sistematico al “bait and switch” (se la strada non porta da nessuna parte, c’è qualcosa da raccogliere in fondo; se vi voltate nella direzione opposta a quella da cui provenite, scoprite che c’è qualcosa di interessante alle vostre spalle—succede quasi sempre). Sia un level design lineare sia un vero open world, con i dovuti accorgimenti, avrebbero funzionato meglio di questa via di mezzo che lascia una sensazione di incompiuto. Anche la presenza su schermo di chiare indicazioni in merito ai luoghi in cui non è (ancora) possibile accedere, sotto forma di un lucchetto, non facilita certo l’immersione nell’affascinante mondo di gioco creato da Don’t Nod (capace di evocare, a tratti, le atmosfere di The Witcher 3).
Anche il sistema di combattimento, che soffre di sicuro una scarsa varietà di nemici e il ritardo con cui vengono introdotte le abilità capaci di rendere un po’ meno monotoni gli scontri, tradisce una convinzione non proprio monolitica nella sua stessa ragion d’essere—e qui torna ancora una volta d’attualità un vecchio articolo di Andrea Leonessa, provocatoriamente intitolato “I videogiochi devono trovare il coraggio di non divertire”. Per quale motivo in Banishers: Ghosts of New Eden si combatte? Perché è un videogioco. Non c’è un’altra risposta valida, e la presenza di una modalità “storia”, che azzera il livello di difficoltà, sta lì a dimostrarlo. Sarebbe stato stimolante trovare qui, se non proprio il coraggio di non divertire, almeno un tentativo di tenere impegnato chi gioca in maniera diversa. Nelle meccaniche relative alle indagini sui vari casi, in quelle legate ai puzzle ambientali, e in tutti quei piccoli dettagli mediante i quali il gioco, con tanta cura, favorisce l’immedesimazione nella vita e nel mestiere di un epuratore—le animazioni con cui si accende un fuoco, si cala una corda, si esegue un rituale—è forse possibile intravedere le strade abbandonate che avrebbero potuto condurre a un gameplay differente.
Nonostante quanto detto finora, Don’t Nod ha prodotto uno dei pochi titoli imperdibili di questa prima parte dell’anno, principalmente per una ragione: risolve una volta per tutte il problema del romanticismo nei videogiochi. Nessun film invita lo spettatore—e nessun romanzo il lettore—a intraprendere una relazione con un personaggio; è un po’ strano scriverlo in una fase in cui visual novel a sfondo sentimentale ed erotico vanno fortissimo, ma per quale motivo dovrebbero farlo i videogiochi? Nel medium videoludico il valore aggiunto dell’interattività riguarda essenzialmente il rapporto tra chi gioca e il proprio avatar, non un’impossibile connessione significativa con i personaggi non giocanti.
La soluzione proposta da Banishers: Ghosts of New Eden è tanto tradizionale quanto innovativa per un videogioco: fa controllare a chi gioca non un unico personaggio ma una coppia, nella cui storia ciascuno potrà poi ritrovare qualcosa delle sue esperienze o dei suoi desideri. La formula non è certo inedita—la si trovava ad esempio già in Haven di The Game Bakers—ma qui viene sviluppata con una qualità nella scrittura e con un’attenzione alle dinamiche di gioco che non ha molti paragoni; Antea e Red sono due personaggi distinti ma complementari, ugualmente necessari ai fini tanto della trama quanto del gameplay. Lo hanno spiegato bene Philippe Moreau e Stéphane Beauverger, rispettivamente creative director e narrative lead del gioco, intervistati da Joshua Rivera su Polygon:
Antea è stata molto impegnativa. Abbiamo lavorato molto su di lei per fare in modo che non fosse solo una spalla, che non fosse lì solo per fare battute o per usare qualche potere a un certo punto. Avevamo delle linee guida: Antea doveva essere una forza trainante, una forza positiva, e doveva essere sempre presente durante le cut scene. Se si presta attenzione, si può notare che la maggior parte delle volte è presente nell’inquadratura, anche se non ha nulla da dire.
Philippe Moreau
Dal punto di vista del gameplay, abbiamo fatto in modo che si potesse usare tanto lei quanto Red. È per questo che c’è la funzione per passare dall’uno all’altra, che non c’era al momento della progettazione del gioco. Le abbiamo dato molte abilità per assicurarci che i giocatori giochino nei suoi panni e per trovare il giusto equilibrio tra i due personaggi, in modo che le persone abbiano l’impressione di giocare una coppia.
Un’altra linea guida che avevamo durante la creazione del gioco era: Red e Antea funzionano sempre come coppia. E bisogna interpretare entrambe le parti, perché avremmo potuto dire ai giocatori: “Ok, tu interpreti Red, sei innamorato di questa donna e lei è innamorata di te. E devi accettare questo fatto”.
Stéphane Beauverger
Ma dato che si interpretano entrambi i lati della coppia, tutte le decisioni vengono prese da entrambi i personaggi, che non sono mai d’accordo al 100% su nulla. Questo è stato molto importante per noi. Fa intuire a chi gioca che sta affrontando e controllando una storia d’amore e una coppia, invece di trovarsi con una sorta di amore imposto con un altro personaggio. Alcuni giornalisti ci hanno chiesto perché non ci sono così tante storie d’amore nei videogiochi, e credo che sia proprio per questo motivo. Non è facile per chi gioca sentirsi dire: “Sei innamorato di questa donna o di quest’uomo e devi comportarti così”. Ma quando si dice: “Siete una coppia. Giocate entrambi. Questo è un pacchetto!” è più facile, credo.