Eternal Strands è sempre imprevedibile

Un trionfo di gameplay emergente e un late game molto deludente.

Anno dopo anno, i videogiochi ci hanno proposto mondi sempre più ricchi di dettagli, sempre più belli da ammirare, ma soprattutto sempre più lunghi da attraversare: mappe sempre più vaste quindi, persino assurdamente grandi. A un certo punto, questa perdita di misura ha portato con sé anche una perdita di senso: perché proporre chilometri e chilometri di terre digitali, che sembrano non finire mai, se poi si incontrano le stesse facce, cambiano più raramente i panorami, si intraprendono attività sempre uguali? Davvero non c’è una direzione più interessante da prendere? Inevitabile chiederselo, considerato che, mentre la dilatazione incontrollata dei loro mondi di gioco andava avanti, la maggior parte dei titolo ha continuato a offrire al giocatore più o meno le medesime possibilità di interazione di dieci o vent’anni prima. Prendi di mira un barile esplosivo, spari, quello esplode e hai ucciso un sacco di nemici in un colpo solo; vicino ai barili però magari c’era una casa, o un muro, e dopo l’esplosione non presentavano il minimo danno.

Forse, riguardando a Breah of the Wild e Tears of the Kingdom con il giusto distacco, tra qualche anno gli daremo prima di tutto il merito di aver indicato un’altra via, quella di mondi con cui poter interagire in modo significativo, creativo, talvolta imprevedibile. Eternal Strands, il primo titolo di Yellow Brick Games—studio fondato da veterani del settore come Mike Laidlaw (ex BioWare, lead designer dei primi tre capitoli di Dragon Age) e Frederic Saint-Laurent (ex Ubisoft, lead designer di Assassin’s Creed: Syndicate)—segue proprio questa strada, e può essere visto come un BOTW in miniatura e, al contempo, elevato a potenza. Già, perché in Eternal Strands ho visto intere porzioni del mondo di gioco andare a fuoco e poi, dopo che le fiamme si sono spente, presentare un grigio cenere laddove prima c’era il verde della vegetazione; ho usato il ghiaccio per creare passerelle sul fuoco, ma anche per immobilizzare i nemici, o per rivelarne i movimenti quando erano in grado di rendersi invisibili; ho usato il fuoco per scongelare grotte altrimenti inaccessibili; ho sfruttato a mio vantaggio il comportamento territoriale di alcune specie attirando nemici nei pressi del loro nido, per lasciare che si scontrassero tra loro; ho assistito alla devastazione di enormi aree da parte di creature epiche; e mi sono chiesto: come fa un titolo a medio budget a offrire un tale trionfo di gameplay emergente?

Eternal Strands (Fonte: press kit)

Agli sviluppatori di Yellow Brick Games va dato il merito di aver avuto intuizioni molto buone, e idee chiare su come metterle in pratica: hanno saputo cogliere ciò che era essenziale per il loro progetto, per puntare tutto su quegli aspetti. Innanzitutto, hanno costruito un’ambientazione e una narrazione che fossero adatte a un gioco in cui si manipolano gli elementi naturali. La storia ruota attorno alla spedizione di un gruppo di “Weavers” verso l’Enclave, un tempo il centro culturale, commerciale e soprattutto magico del regno di Mayda. Con l’avvento di una calamità nota come “The Surge”, si sa che l’Enclave ha interrotto ogni comunicazione con l’esterno, delimitando i propri confini grazie a una barriera magica impenetrabile, chiamata “The Veil”. Non si sa, invece, cosa sia accaduto in seguito all’interno dell’Enclave. È esattamente questo che gli avventurieri intendono scoprire; e, proprio quando le cose sembrano mettersi male per il gruppo, un inaspettato colpo di fortuna gli permette di accedere all’Enclave.

Tale premessa pone solide basi per la direzione che prenderà il gioco: tranne il prologo, tutto si svolge all’interno di un ambiente preciso, l’Enclave, sconosciuto e da esplorare a fondo; e questo spiega per quale motivo la protagonista, Brynn, si dirigerà di volta in volta, usando dei portali, in specifiche zone di interesse. Questo gioco, del resto, non avrebbe mai potuto essere un open-world, per via dei complessi calcoli che mettono in moto le sue meccaniche principali, fondate sulle leggi della termodinamica e della fisica in generale. In Eternal Strands non esiste infatti nulla di simile a un “danno da fuoco”; esiste invece un mondo in cui ogni cosa ha una sua temperatura, che può essere alterata, come nella realtà, dalla produzione di calore. Che ciò si traduca in incendi, e nell’eventualità del loro propagarsi, o nella distruzione di costruzioni ormai bruciate, è solo un’inevitabile conseguenza. Affrontando un drago che sputa fuoco, allora, la migliore difesa non sarà schivare le fiamme, ma produrre ghiaccio per abbassare la propria temperatura corporea; e dato che il clima cambia in continuazione, prima di spostarsi in una certa area è meglio sapere non solo quale creatura si aggira da quelle parti, ma anche come sarà il tempo.

Eternal Strands (Fonte: press kit)

È grazie a questa geniale intuizione che Yellow Brick Games si trova nella favorevole posizione di poter mascherare molti dei limiti produttivi di questo titolo (il gioco ha persino perso il suo publisher, quando Take-Two ha venduto Private Division, con cui lo studio aveva un accordo per la pubblicazione di Eternal Strands). Ad esempio le creature epiche da fronteggiare—tra cui automi giganteschi ed enormi creature come il drago appena citato—avrebbero dovuto essere 12, e sono poi state ridotte a 9; i livelli da esplorare non sono più di una decina; i dialoghi hanno lo stile delle visual novel, con le figure bidimensionali dei parlanti che appaiono ai lati dello schermo, in modo da risparmiare ore e ore di lavoro di animazione. Si sono insomma fatti sacrifici mirati, in modo intelligente: perché poi, quando si mettono in moto tutte le variabili che possono essere innescate dalle meccaniche di gioco, il resto passa in secondo piano.

L’impressione è dunque, e a lungo, quella di trovarsi di fronte a un titolo sbalorditivo; ma un po’ per volta si scoprono anche alcuni difetti. Il primo a emergere è una certa debolezza della scrittura. Ogni personaggio è sempre so glad dei comportamenti e delle iniziative degli altri, e qualsiasi cosa venga detta means a lot per chiunque si trovi ad ascoltarla, senza eccezioni. È un interminabile, autentico tripudio della comprensione, dell’empatia e delle buone maniere. Per una banda di avventurieri che non si conoscono poi così bene, e hanno trascorsi completamente diversi, e si trovano oltretutto in pericolo, in un ambiente apertamente ostile, è davvero poco credibile; il tono non cambia mai, fino alla fine, nemmeno quando una svolta narrativa porta a dover dubitare della lealtà di una persona interna al gruppo. A proposito della fine, poi: il late game rischia davvero di rovinare l’opera nel suo complesso. Gli sviluppatori hanno avuto, evidentemente, molta fiducia nel fatto che il gameplay emergente fosse sufficiente a garantire varietà e divertimento a fronte di una certa ripetitività di fondo. Fino a un certo punto, l’esperienza di gioco dà loro ragione; poi subentra la sensazione che abbiano tirato troppo la corda.

Eternal Strands (Fonte: press kit)

Lo aveva già dimostrato bene Deathloop, quanto sia pericoloso riportare più e più volte il giocatore negli stessi posti, ad affrontare gli stessi nemici. È vero che Eternal Strands se la cava decisamente bene nel presentare situazioni sempre inedite; ci si può arrampicare ovunque (finché non si esaurisce la barra della stamina, come in BOTW), si può rompere e lanciare di tutto (nemici compresi, magari giù da un dirupo), e i combattimenti con le creature epiche hanno un dinamismo davvero impressionante, tra automi su cui arrampicarsi e draghi in volo che si dimenano per scrollartisi di dosso. Non è abbastanza, però, per sostenere l’accumularsi di missioni in cui si devono recuperare materiali (altra finezza: da una stessa fonte se ne possono ricavare diversi, se questa è stata bruciata o ghiacciata); e di altre in cui si deve andare in cerca di documenti, per capire meglio certi avvenimenti nella storia dell’Enclave. Si tratta di tornare in stanze in cui, in precedenza, magari si era già entrati in più occasioni, solo che questa volta c’è un marcatore da qualche parte a indicare il documento in questione. Ha del tutto senso, a livello di immersione, essere già passati di fronte a qualcosa di importante senza ancora sapere che lo fosse; ma resta insoddisfacente come principio di quest design.

Si ripetono poi anche missioni che prevedono di sconfiggere altre due o tre volte le stesse creature con cui ci si è già ripetutamente scontrati. Non si tratta di quest secondarie (che hanno ugualmente obiettivi simili), ma di passaggi obbligati per arrivare alla conclusione del gioco. Dopo un po’ di tempo, allora, mi arriva un’impressione, netta: il gioco ha dato tutto ciò che aveva da dare, ma mi sta trattenendo artificiosamente al suo interno, non concedendomi il finale. Capito questo, ho rinunciato a completarlo. Risulta davvero difficile immaginare il motivo di un late game progettato in questa maniera: vengono in mente astruse ricerche di mercato secondo le quali un titolo del genere deve durare X ore per avere successo, o qualche altro strano calcolo di questo tipo. Di sicuro è un aspetto che allontana il gioco dall’altissimo livello a cui sembrava poter ambire. Detto questo, Yellow Brick Games è uno studio che qualcuno dovrebbe ricoprire al più presto di soldi: è a opere come Eternal Strands che dovrebbero somigliare i tripla A del futuro.