I primi in Italia ad affrontare con decisione la questione sono forse stati gli Afterhours, che, non ancora finiti i Novanta, cantavano “non si esce vivi dagli anni Ottanta”. Poi è arrivato il grande revival new wave e post-punk, con Interpol, Franz Ferdinand, Maximo Park e compagnia cantante. Band storiche come Wire e Pixies si sono riunite non solo per tornare a suonare dal vivo, ma anche per registrare nuovi album (caso limite quello dei Mission of Burma, la cui discografia ora comprende un solo album uscito negli anni ‘80 e altri quattro dal 2004 in poi). Sul grande schermo sono stati proposti tributi di ogni tipo, sia con storie originali (Donnie Darko) che con adattamenti da cult televisivi dell’epoca (Miami Vice); anche sul piccolo schermo sono stati proposti tributi di ogni tipo, sia con storie originali (Stranger Things) che con adattamenti da cult letterari dell’epoca (The Handmaid’s Tale). Mi sembra che gli anni ‘80, con questa propensione a estendere i propri confini e a contaminare tutto ciò con cui entrano in contatto, abbiano diverse e preoccupanti affinità con l’Area X della trilogia di VanderMeer. Ma prima di arrenderci al fatto che gli Afterhours avessero ragione, e che moriremo tutti prima di aver visto davvero finire gli anni ‘80, potremmo anche ipotizzare uno stato differente delle cose: e lo spunto ce lo forniscono proprio alcuni videogiochi.
Il mondo videoludico infatti non è certo rimasto esente dall’eterno ritorno degli anni ‘80: molti titoli recenti sono ambientati in quel periodo, e per molti dei loro sviluppatori la tentazione di scegliere gli Ottanta è risultata irresistibile soprattutto a causa dell’influenza che le produzioni culturali di quel decennio, in particolar modo quelle cinematografiche, continuano a esercitare ancora oggi. Si tratta di fonti di ispirazione che poi tornano nei rispettivi giochi sotto forma di easter egg e citazioni varie. Slayaway Camp è ad esempio un puzzle game molto particolare, nel quale vestiamo i panni del tipico serial killer degli slasher horror anni ‘80. “Abbiamo ambientato il gioco negli anni ‘80 perché in quel periodo sono usciti i film di cui Slayaway Camp fa una parodia, come Venerdì 13, Halloween, Nightmare – Dal profondo della notte”, mi racconta Jason Kapalka di Blue Wizard. E ci sono innumerevoli altri riferimenti nel gioco: “tutti gli achievement su Steam per esempio, hanno il titolo di un film horror, e quasi tutti gli avatar dei killer che si possono sbloccare sono velate (o non poi così velate) parodie di personaggi famosi o di culto”. Persino i livelli si rendono disponibili, man mano che si avanza nel gioco, sotto forma di sequel cinematografici.
In Beat Cop impersoniamo invece un poliziotto di quartiere nella New York degli anni ‘80. “È stata una scelta ovvia per me. Quando penso a ‘USA’ e ‘polizia’, vedo immagini dei film anni ‘80 con cui sono cresciuto. Gli ultimi giorni dell’analogico, quando le persone dovevano lavorare, incontrarsi e sistemare le cose senza e-mail e telefoni cellulari. In quel periodo c’era un alto tasso di criminalità a NYC, che volevo fosse la città del gioco”, mi spiega Adam Kozłowski di Pixel Crow. Per quanto riguarda riferimenti e citazioni, c’è “qualsiasi cosa avesse a che fare con gli anni ‘80 – da Scuola di Polizia a Quelli della pallottola spuntata ad Arma Letale. Ad esempio c’è la macchina di Frank Drebin nel gioco. Avevamo in mente di restituire ai giocatori l’atmosfera degli anni ‘80 e abbiamo cercato di evitare anacronismi, e un sacco di piccoli dettagli, come i numeri di telefono e le targhe delle macchine, sono quelli di quel luogo e di quel periodo. Una grande ispirazione è stato il lavoro fotografico di Mark Weber, ha scattato toccanti e incredibili fotografie della New York che volevamo rappresentare in Beat Cop”. Ma nel gioco non sono finite solo citazioni a tema poliziesco. Su uno dei citofoni dei palazzi che si affacciano sulla strada che pattugliamo, per dirne una, troviamo un discreto numero di personaggi di Alien e Aliens – Scontro finale. E qui, a mio modo di vedere, si apre già una prima crepa.
Le cose iniziano poi a farsi più complicate quando i riferimenti sono mediati o differiti: è il caso di Hotline Miami, tuttora uno dei più grandi successi targati Devolver Digital, la cui storia si svolge sì nel 1989, ma con una fonte di ispirazione principale molto più recente. “Siamo stati piuttosto influenzati dal film Drive, soprattutto per il modo in cui rende interessante una trama abbastanza noiosa attraverso lo stile e la musica. Sia io che Dennis [Wedin, ndr] siamo cresciuti guardando film degli anni ‘80, e ci è piaciuta la maniera in cui Drive cattura l’atmosfera di quel periodo usando strumenti moderni”, mi dice Jonatan Söderström, aggiungendo un tassello fondamentale per il discorso che andremo a fare più avanti. “Abbiamo preso la giacca da football che indossa il protagonista da Beverly Hills Cop – Un piedipiatti a Beverly Hills, certi dettagli da Miami Vice, alcuni elementi della storia dal documentario La vera storia di Scarface, e vari cliché dai film d’azione anni ‘80”.
L’ultimo arrivato in ordine temporale è Crossing Souls, un altro titolo Devolver Digital, ambientato nel 1986. “Abbiamo scelto gli anni ‘80 perché in sostanza ci manca essere ragazzi. Nel momento in cui pianifichi il tuo futuro prossimo e la tua possibile vita da adulto torni sempre a ricordare com’eri e come le cose sono cambiate col tempo. Ci piacciono i vecchi giochi, dunque abbiamo dovuto solo mettere insieme questi ingredienti per ottenere Crossing Souls. Con questo gioco abbiamo voluto rivivere quelle sensazioni dell’infanzia. Volevamo sviluppare un gioco divertente e profondo, con una bella trama che portasse il giocatore a ricordare quei tempi con un pizzico di nostalgia”, spiegano a Ludica i ragazzi dello studio spagnolo Fourattic, con sede a Siviglia. “Perciò, di base l’idea che muove il gioco è: la tua infanzia e i tuoi momenti spensierati in compagnia dei vecchi amici. Ci mancavano quel tipo di avventure che eravamo abituati a vedere nei film, in cui qualsiasi cosa era possibile e un ragazzo qualunque poteva diventare un eroe e vivere un’avventura unica senza mettere piede fuori dalla sua città. Pensiamo che quell’epica si sia in qualche modo persa. Viviamo più stressati e non ci godiamo più quella magia. Nei film contemporanei accade la stessa cosa. Quanta gente pensa che Prometheus non è come Alien, o che Super8 è lontano dallo spirito che avevano E.T. o I Goonies?”.
Crossing Souls è in effetti un action-RPG che attinge molto da tutto il repertorio a disposizione per evocare quegli anni. Come da tradizione per il genere, inizia con il protagonista che si trova a letto, nella sua stanza: viene svegliato, mette un piede a terra e ancora non sa che quel giorno cambierà per sempre la sua vita e forse il destino stesso dell’umanità. È così che iniziano titoli classici come The Legend of Zelda: A Link to the Past, Chrono Trigger o EarthBound. Vale la pena notare subito che a svegliarci è una comunicazione via walkie talkie e che nella stanza in cui ci troviamo c’è un NES e un poster di Ghostbusters; e si tratta solo dei primi tra i tantissimi riferimenti ai topoi del decennio disseminati in Crossing Souls. La prima cosa che dovremo fare sarà radunare tutti i nostri amici, in una prima sezione del gioco progettata e scritta con grande abilità, che funziona sia come tutorial che come introduzione al cast dei personaggi giocabili, tutti molto stereotipati secondo le tipiche convenzioni delle avventure anni ‘80, per poi iniziare la storia vera e propria, che oltretutto partirà citando Stand by me – Ricordo di un’estate.
L’impressione è che gli sviluppatori abbiano voluto dare un ritmo cinematografico a Crossing Souls, e ne trovo conferma quando mi parlano della colonna sonora. “Eravamo abbastanza sicuri, fin dall’inizio, di dover includere nel gioco due diversi stili: le musiche da film alla John Williams e il synth pop. Volevamo usare un genere per le cutscene e l’altro per il gameplay, ma una volta che abbiamo testato la prima beta abbiamo notato che era il gioco stesso a indicarci quale stile fosse più adatto a ogni momento. Abbiamo trovato un giovane compositore tedesco, Chris Köbke, che era un musicista prodigioso con l’abilità di creare perfetti arrangiamenti alla John Williams. Quello è stato un momento incredibile per noi, perché sapevamo che includere quel tipo di musica nel gioco avrebbe fatto la differenza per un sacco di persone. Un altro momento importante è stato quando abbiamo sentito la traccia Dreams di Timecop1983. Avevamo sentito altri suoi brani in passato, ma quello lì era Crossing Souls. Persino nel testo”.
Presi di peso dal cinema e dalle serie tv americane sembrano essere anche tutti gli spazi che attraversiamo accompagnati da queste musiche, così come i personaggi che li popolano: le casette monofamiliari a due piani con il giardino, il cinema, la tavola calda, la scuola, la casa sull’albero, la sala giochi. In quest’ultima troviamo poi un dettaglio forse decisivo: tra i vari cabinati possiamo infatti notare due giochi piuttosto recenti come Gods Will Be Watching e Mother Russia Bleeds. Non c’è dubbio sul fatto che gli sviluppatori abbiano voluto in questo modo omaggiare alcuni compagni di scuderia (sono entrambi giochi pubblicati da Devolver Digital); ma la presenza di questi elementi estranei all’interno di una minuziosa ricostruzione della California del 1986 mi sembra richiedere una riflessione ulteriore, e svelare il carattere illusorio dell’idea stessa che gli anni ‘80 stiano continuando a esercitare una reale influenza. Questi mondi incredibilmente sovraccarichi di citazioni e di riferimenti estetici hanno davvero qualcosa a che fare con gli anni ‘80 o dovremmo iniziare a considerarli diversamente?
Io inizio a credere che gli Ottanta siano stati da tempo sostituiti da un’idea artefatta degli Ottanta, un’idea che somiglia più a una completa reinvenzione che a un lascito o a un’eredità. E che l’ingenuità con cui negli anni ‘50 si immaginavano futuri che non sarebbero mai arrivati, gli anni Duemila delle colonie sulla Luna, delle macchine volanti, degli zainetti a razzo, delle città sospese tra le nuvole o sottomarine, abbia molto in comune con la sofisticazione con cui oggi ricreiamo un passato che non è mai avvenuto, a uso e consumo delle nostre nostalgie. È sempre difficile parlare del tempo e trovare le parole giuste. In uno dei migliori saggi che mi sia capitato di leggere negli ultimi mesi, Viaggi nel tempo di James Gleick, si parla tra le altre cose del modo in cui il linguaggio ci impedisce una corretta rappresentazione del tempo, di quanto siano fuorvianti ad esempio una metafora come “lo scorrere del tempo” o l’abitudine a prendere in prestito termini che nascono per orientarsi nello spazio, dicendo “avanti” o “indietro” nel tempo, o “a distanza” di tempo. Ma proverò ugualmente, e se a quel nuovo millennio fantastico degli anni ‘50 abbiamo dato il suggestivo nome di retrofuturo, potrei usare per gli anni Ottanta di Stranger Things, di Dark, di Hotline Miami e di Crossing Souls, il termine speculare di antepassato. Non saprei dire quando gli anni ‘80 siano davvero finiti, ma mi sembra chiaro che gli Ottanta del Duemila si possano ormai considerare un’epoca a parte. Certo, dovremo far finta di poter definire “epoca” degli anni che esistono solamente nella loro stessa rappresentazione, e in cui nessuna macchina del tempo ci potrebbe dunque mai riportare; oppure potremmo parlare di spazio mentale collettivo, sapendo comunque bene che “spazio” non è la parola giusta. Ma anche questo fa parte del gioco.