Il protagonista di Europa, detto in poche parole e con un po’ di imprecisione, è un bambino tutto solo su un pianeta. Volendo essere più precisi: non è un bambino ma uno strano quanto adorabile incrocio tra un automa e un essere umano; non è completamente solo, perché incontra tanti strani animali meccanici; e non si trova su un pianeta ma su Europa, un satellite di Giove poco più piccolo della Luna principalmente noto per essere un luogo promettente dove trovare finalmente una forma di vita extraterrestre—e giusto poche settimane fa è partita una missione diretta da quelle parti, ma non ne sapremo di più fino al 2030.
Le premesse sono intriganti, e portano a farsi diverse domande: chi è quel bambino, e cosa ci fa lassù da solo, e da dove viene quella strana fauna robotica, e perché Europa non è una landa desolata ma una sorta di paradiso naturale, con una vegetazione lussureggiante del tutto simile a quella terrestre? Il gioco creato da una piccola squadra di sviluppatori messa insieme per l’occasione da Helder Pinto, già art director di titoli come Overwatch e Diablo 3—che, mettendosi in proprio in una dimensione più piccola, si inserisce in un trend sempre più diffuso—è piuttosto breve, perciò le risposte non tarderanno ad arrivare: bisognerà trovare alcune lettere, indirizzate al bambino da un uomo che sostiene di essere suo padre e lo invita a raggiungere un’isola sospesa nel cielo.
Se appena sentite parlare di “isola sospesa nel cielo” vi viene in mente quella di Laputa, disegnata da Hayao Miyazaki, rimarrete piacevolmente sorpresi dallo stile di Europa, che sembra un po’ un The Legend of Zelda realizzato dagli animatori dello Studio Ghibli; e anche alcuni nemici, come le torrette che ricordano da vicino i Guardiani di Breath of the Wild, rafforzano quest’impressione. In Europa, però, non si combatte, e gli unici ostacoli da superare sono i puzzle ambientali che saremo chiamati a risolvere. I nemici, invece, si limitano a dare noia: quando il bambino viene colpito resta frastornato, e si muove in modo più lento e impacciato per alcuni secondi, con delle eloquenti stelline che girano in circolo sopra la sua testa.
Sarebbe un segno di scarsa apertura mentale, e di troppa assuefazione a formule più consolidate, sostenere che una posta in gioco così bassa non può funzionare? Che cioè sarebbe meglio morire e dover ricominciare dall’ultimo checkpoint, o non dover affrontare proprio nessun nemico? (Alla fine gli sviluppatori sono corsi ai ripari proprio così, aggiungendo una modalità “zen” al primo grosso aggiornamento di Europa). Sicuramente qui non funziona: a volte è più comodo portare il bambino su una mina—per farla esplodere e non trovarsela più intorno—che aggirarla, e questo è un pericoloso invito a giocare male, e a spezzare l’immedesimazione con il personaggio. Si può dire che l’idea di avere nemici esclusivamente da evitare, senza alcuna vera penalizzazione per il fallimento, abbia del potenziale; in Europa è solamente implementata male, ma resta interessante.
Così com’è interessante la storia di Europa, che si rivela presto essere il racconto di un’utopia, e precisamente di un’utopia a cui è capitato di aver luogo—sul satellite di Giove, per l’appunto—e per diretta conseguenza di finire male. Il fortunato termine coniato da Thomas More nasce infatti come un gioco di parole tra eu-topos (buon luogo), che è praticamente la spiegazione del suo significato, e ou-topos (non luogo), da cui si ricava già un’indicazione più particolare: l’utopia appartiene per definizione al mondo delle idee, non a quello reale. Un’utopia praticata allora sarà inevitabilmente una contraddizione in termini.
Nel libro Gli utopisti, dedicato ad alcune tra le principali comunità utopiche del Novecento, Anna Neima mostra bene quante contraddizioni abbiano segnato tali esperienze: “I loro fondatori tendevano ad avere talento più per la teoria che per l’azione pratica; erano tutti abili a identificare i difetti del mondo così com’era e a evocare affascinanti alternative con le loro parole, ma non erano altrettanto bravi a organizzare persone e fondi in sistemi funzionanti e duraturi. Gli ideali di cooperazione, egualitarismo e democrazia che promuovevano erano in contrasto con le loro attitudini elitarie e gerarchiche. E vi era la costante difficoltà di conciliare la visione di un mondo che rinunciava al materialismo con le schiaccianti esigenze pratiche ed economiche della comunità”.
Durante la nostra esplorazione di Europa, e saltate questo paragrafo e anche i prossimi due se desiderate non avere alcuno spoiler sul gioco (si parlerà qui di tutto, tranne che del finale), verremo a scoprire che pure questo tentativo—tipicamente utopistico—di ricominciare da zero è andato male, portando a una situazione a dir poco drammatica. Verso il satellite di Giove si sono diretti alcuni esseri umani, addormentati in un lungo sonno criogenico, e un’intelligenza artificiale, alla quale spettava il compito di far trovare loro un habitat adatto, al momento del risveglio.
È stata quest’ultima, dunque, a progettare e costruire la fauna meccanica incontrata dal bambino: Giardinieri e Impollinatori robotici hanno faticato instancabilmente, per migliaia di anni, mentre l’umanità dormiva, al fine di costruire un nuovo ecosistema, del tutto simile a quello terrestre prima che fosse compromesso. Una volta svegli, gli esseri umani si sono ritrovati così all’interno di un enorme mondo vergine, e hanno iniziato a fare ciò che hanno sempre fatto: estrarre e sfruttare qualsiasi risorsa naturale. Nel codice dei Giardinieri però, leggiamo in una delle pagine del diario sparse per Europa, “c’è la direttiva di resistere a tutto ciò che potrebbe rendere il pianeta invivibile”.
La fauna mecccanica si rivolta allora contro gli umani, facendoli sentire degli ospiti indesiderati: “Dobbiamo stare attenti a come ci comportiamo con i Giardinieri. Vivono qui da molto più tempo di noi, e sono più in sintonia con i ritmi del pianeta”, leggiamo in un’altra pagina del diario. La situazione precipita velocemente: “Lottando contro i giardinieri, insegniamo loro a combattere. Hanno imparato a migliorare il loro arsenale, e ora hanno detonatori, raggi a carica calorica… ci imitano e ci superano, hanno trasformato questa terra in una fortezza”. Alla fine, quella che doveva essere una nuova casa per l’umanità diventa velocemente un nuovo teatro di guerra: “La violenza che abbiamo inflitto al pianeta ci sta tornando indietro decuplicata. Si è ripetuto ciò che era accaduto sul nostro pianeta natale, solo che qui sta succedendo a un ritmo molto più rapido”.
È facile vedere in questa storia una rappresentazione di ogni utopia praticata, destinata ad andare incontro al fallimento non appena, proprio grazie alla pratica, scopre i limiti degli ideali che l’hanno ispirata (o l’impossibilità di ignorarli). È ancora più immediato riconoscere poi nella trama i tratti di una favola ecologista, con una critica alla capacità che ha l’umanità di deturpare e distruggere non solo gli ecosistemi necessari alla sua sopravvivenza, ma qualsiasi ambiente riesca a raggiungere. (Fa sempre una certa impressione, a questo proposito, venire a sapere della quantità di rottami e spazzatura varia che abbiamo già lasciato in giro per il sistema solare—fermatevi un attimo a pensare a quanto è assurdo, per dire, che sulla Luna ci siano una Bibbia e due palline da golf).
A tutto questo si affianca un commento sulla minaccia che un’intelligenza artificiale generale potrebbe rappresentare per l’umanità—argomento già di tante riflessioni, come quelle di Nick Bostrom in Superintelligenza. Europa ci presenta un’IA che si rivela dannosa non per un’azione, ma per le conseguenze indirette di una sua decisione, la cui pericolosità diventa evidente solo dopo tantissimo tempo; e ci suggerisce inoltre in che modo un’IA potrebbe risultare nociva non perché malvagia anziché buona, ma più semplicemente perché inflessibile, priva cioè di quell’elasticità mentale necessaria a capire quando il prezzo da pagare per attenersi a certi principi è troppo alto.
Europa però ha anche il pregio di non abbandonare mai il cuore della propria narrazione, che è il racconto di un mondo visto per la prima volta dagli occhi di un bambino. Tutto è permeato da quel senso di scoperta e meraviglia tipico dell’infanzia—amplificato qui dal fatto di attraversare larghe porzioni di ogni livello volando—che una volta Louise Glück sintetizzò scrivendo: “Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria”. Sono davvero tanti spunti, per un gioco di così ridotte dimensioni. Probabilmente abbiamo passato tutti decine quando non centinaia di ore all’interno di mondi molto meno stimolanti.