A volersi attenere alla generalmente sempre buona norma di parlare solo di ciò che si conosce, di moltissime cose non si potrebbe dire niente. Ci sono tantissime parole e categorie che usiamo in maniera intuitiva e il cui significato ci sembra chiarissimo, ma solo fino a quando non proviamo a delinearne i confini. Cosa definisce un horror? Al contrario di altri generi, l’horror per essere tale non ha bisogno di una precisa collocazione temporale—la storia può svolgersi nel passato, come nel presente o nel futuro—né di una determinata ambientazione, perché una casa in un bosco vale un supermercato o un’astronave. Di conseguenza l’estetica può variare sensibilmente, e non esistono nemmeno ruoli consolidati per i personaggi; c’è di certo un “cattivo”, ma a quale genere manca, e inoltre può essere tanto una creatura sovrannaturale quanto un essere umano.
Si potrebbe allora seguire un’altra traccia e dire che la sua essenza vada ricondotta a un certo tipo di stato emotivo: sarebbe horror, allora, ciò che evoca paura, e più nello specifico paura di morire, e ancora meglio brividi, oppure una sensazione d’ansia, ma questo non collocherebbe certi livelli realizzati con Super Mario Maker all’apice del genere? Un’altra strada ancora porta nella direzione di scene crude, di effetti splatter, della rappresentazione di corpi smembrati e di sangue che scorre a profusione, ma in realtà l’horror non sempre ricorre a questi mezzi; parleremmo di un sottogenere. Non potrebbe però essere l’horror stesso, come alcuni hanno proposto, a esistere solo come sottogenere di altri generi? Forse vale la pena fermarsi un momento e fare un passo indietro: cos’è un genere?
In un fondamentale libricino dedicato a questo argomento, intitolato I generi letterari e la loro origine, Enzo Melandri suggeriva che la loro apparizione, avvenuta per la prima volta nell’antica Grecia, vada rincondotta a una riflessione sul linguaggio. L’uomo si sarebbe cioè reso conto che nessuna parola si avvicina alla verità della cosa che indica, ma al massimo alla sua possibilità di esser detta. Anzi, l’atto stesso di nominare contempla e rafforza e ha sempre implicita l’idea secondo la quale ogni cosa è senza nome, ed esiste in una realtà che del linguaggio può benissimo fare a meno. È per noi e non per il mondo, che il linguaggio è fondamentale. Le parole, allora, ci servono a ripetere quella realtà da cui il linguaggio è per forza e per sempre separato; e, nella ripetizione, del mondo si possono dare versioni diverse. Questo erano i generi letterari per un antico greco, e questo sono rimasti fino ai giorni nostri. Non è cambiata cioè, attraverso i secoli e con la comparsa di nuovi media e altri linguaggi, questa verità di fondo, che ci permette di conferire senso a una parola come “commedia” tanto in relazione ad Aristofane quanto a Woody Allen.
Alcuni media, però, si sono rivelati impermeabili ai generi tradizionali, così come a quelli che sono stati via via codificati nel corso del tempo—nel caso dell’horror, nel Settecento, con la comparsa del romanzo gotico. Nella musica leggera, ad esempio, dal grunge allo shoegaze si è costruito un sistema di generi del tutto autonomo e peculiare. Nei videogiochi, invece, si è fatta un po’ di confusione: si sono ereditati tanti generi preesistenti, dalla fantascienza all’horror, e contemporaneamente ne sono stati concepiti di nuovi, affini a quelli musicali in quanto riservati al solo medium videoludico.
Per sgomberare il campo da questo perdurante equivoco, sarebbe allora da accogliere la proposta fatta da Ernest Adams su Game Developer—quando ancora si chiamava Gamasutra—nella sua rubrica Designer’s Notebook, dove scriveva: «I generi dei videogiochi sono determinati dal gameplay: quali sfide deve affrontare chi gioca, e quali azioni compie per superarle». Non esisterà quindi niente di simile a un videogioco horror, o a un videogioco di fantascienza. Esisteranno invece giochi di strategia, metroidvania, sparatutto in prima persona, e via dicendo. Cosa resta, allora, nel settore videoludico, dei vecchi generi? Rimangono definizioni utili a descrivere un’ambientazione, o un tema, o un’atmosfera, o più in generale un qualcosa di indefinito ma pur sempre afferrabile sul piano intuitivo su cui una comunità di persone è disposta a concordare.
Il volume sull’horror videoludico pubblicato da Bitmap Books non affronta questi problemi, ma sfogliandolo e scoprendo la sua insolita struttura è facile ricavare l’impressione che il curatore, Alexander Chatziioannou, se li sia posti, almeno inconsciamente. A differenza di precedenti volumi dedicati dalla stessa casa editrice a generi prettamente videoludici, come I’m Too Young To Die: The Ultimate Guide to First-Person Shooters 1992–2002 o The Art of Point-and-Click Adventure Games, la trattazione dei giochi qui non segue un ordine cronologico. Del resto, se l’horror non è un vero genere, ma al massimo una parola intorno alla quale la comunità videoludica può intendersi, perché ripercorrerne la storia? From Ants to Zombies: Six Decades of Video Game Horror—e non horror video games—suddivide i giochi selezionati in un altro modo, insegnando al lettore a riconoscere le varie declinazioni dell’orrore, a seguirne le tracce anche quando prova a farsi irriconoscibile; a coglierlo e a sorprenderlo, per così dire, nell’atto del suo manifestarsi.
Dove si nasconde, dunque, l’orrore nei videogiochi? Sicuramente in certe ambientazioni che la tradizione horror ha reso inquietanti, popolandole di mostri. Lo spazio, ad esempio, a cui è dedicato un capitolo dove troveremo Dead Space, Alien: Isolation e Prey; oppure le case infestate di Splatterhouse, The 7th Guest o P.T.; e ancora, gli abissi marini, da Scuba Dive a Soma, passando per Deep Fear; senza dimenticare le foreste di Cauldron, The Path o Miasmata. Oltre ai posti, però, ci sono i personaggi classici dell’horror. Ecco allora un capitolo sui bambini, protagonisti prediletti di un genere al quale è comodo idealizzarli come innocenti non ancora inseriti in quella società che spesso produce l’orrore dal quale sono costretti a scappare; e poi, un altro capitolo dedicato a persecutori e inseguitori d’ogni foggia; e un altro ancora, imprescindibile, è tutto per i giochi in cui si incontrano i mostri classici, a partire da Dracula e Frankenstein.
Questo approccio conferisce al curatore una grande libertà nella selezione dei videogiochi, e adottare il giusto punto di vista permette al lettore di non scambiare per un tradimento alcune scelte che dimostrano invece una profonda comprensione della materia trattata—perché potrebbe risultare strano, altrimenti, trovare titoli come Ecco The Dolphin, e avventure grafiche anni Novanta come Hollywood Monsters, o più recenti come l’ottimo Peridium. Svelare altro ancora dei contenuti, e della maniera in cui sono organizzati, rischierebbe però di rovinare il piacere della scoperta di questo ennesimo, bellissimo libro di Bitmap Books. In conclusione, vale la pena però anticipare la presenza di un capitolo interamente dedicato alle avventure testuali: impossibile non pensare che stia là a ricordarci come, qualsiasi statuto gli si voglia riconoscere all’interno e al di fuori del medium videoludico, l’horror nasca, al pari di qualsiasi altro genere, nel linguaggio, dal linguaggio, e forse proprio in seguito a un fallimento del linguaggio.