Anche quello di Frostpunk è, come in Artico Nero di Matteo Meschiari, un popolo dei ghiacci. Il libro edito da Exòrma fa antropologia attraverso la finzione: un particolare modo per raccontare l’umano che prende il nome di antropofiction. Finzione è anche il contesto apocalittico di Frostpunk, survival game dagli stessi autori di This War of Mine, l’apprezzato studio polacco 11 bit studios. Disponibile su PC dal 2018, Frostpunk arriva con questo porting anche su Playstation 4 e Xbox One.
Il gioco ha per ambientazione un mondo tragicamente verosimile, segnato da una catastrofe ambientale: una nuova glaciazione, portando le temperature ben al di sotto dello zero, ha infatti causato un collasso sociale ed energetico. Poco importa, però, se il setting del gioco sia di fatto un’ucronia, quando realistiche sono le condizioni e le esigenze di un’umanità prossima all’estinzione. D’altronde, anche la guerra di This War of Mine era deliberatamente generica, come un modello privo di texture, di un proprio dolore specifico. Seppur ispirato all’Assedio di Sarajevo, la connotazione che il gioco dava alla sofferenza dei suoi protagonisti non era né storica né geografica, ma, a suo modo, antropologica. E sono i modi, questi, del genere survival, nel quale la sopravvivenza diviene l’unica forma, temporanea quanto amara, di appagamento. Forse un modo per parlare, attraverso un crafting disperato, della precarietà dell’esistenza umana.
Qualcosa di simile al sopravvivere il più a lungo possibile giocando a Snake, l’ebbrezza di durare all’ombra di una fine che, presto o tardi, vanificherà anche la migliore delle performance. Per quanto tutte e due le opere dello studio polacco abbiano un finale, il presentimento che si impone è quello, inquietante e malinconico, di guadagnare terreno rispetto a una fine che sarà inevitabile. Fine e finale, allora, divergono qui per la quantità di destino riservata all’essere umano, dove la dignità risulta la risorsa fondamentale di ogni auto-narrazione della nostra specie.
Le meccaniche survival di Frostpunk, tutto sommato semplici, confermano la vocazione di 11 bit studios per lo sviluppo di videogiochi coinvolgenti, impegnativi eppure mai complicati. Rispetto a This War of Mine, la scala qui si amplia notevolmente: gli aspetti gestionali riguardano non già un piccolo gruppo di sopravvissuti, ma una città intera. Frostpunk è quindi un city builder, a tema apocalittico, nel quale siamo chiamati a garantire la sopravvivenza della nostra comunità. Oltre alla costruzione degli edifici, si rivelerà necessario indire delle leggi per strutturare la nostra società: è possibile, ad esempio, permettere il lavoro minorile o legiferare sulle prassi mediche. Fede e onore sono due strade percorribili ma il valore fondamentale, al quale non si può rinunciare, è certamente il morale dei sopravvissuti: la loro speranza, espressa mediante una barra blu, è letteralmente il metro di giudizio del nostro operato.
La colonia del gioco, stile steampunk, si fonda su una tecnologia a base di carbone, protesi chirurgiche e bizzarri, quanto utili, quadrupedi di metallo. Per permetterle di prosperare, occorre studiare un’espansione circolare, ad anello. Sostanzialmente un intreccio, un loop fatale. Ci dice Timothy Morton, l’autore di Dark Ecology, che “Weird from the Old Norse, urth, meaning twisted, in a loop”. Sembra allora il momento migliore per un innesto cronenberghiano, per dire qualcosa di weird sul technium del videogioco. La console, la macchina da gioco che permette questa rappresentazione del futuro, appare come un organo esosomatico: è l’inumano che, insito nella nostra struttura biologica, emerge gettando un destino sullo schermo.
Il videogioco, come mezzo culturale, è allora il manifestarsi di una predestinazione che si calcola in tempo reale, forse il pre-rendering di destini virtualmente coesistenti. Personalmente, ho sempre pensato che la più accurata rappresentazione del sangue fosse quella digitale, mediante la determinatezza del pixel. La console ha una sua logica, ma fa il nostro gioco: la coesistenza della carne con il silicio è allora ecognosi, o quantomeno il superamento del distinguo tra tecnologico e biologico. All Hail The New Flesh! Se in Frostpunk il discorso sul clima resta volutamente sempre al margine della catastrofe, il gioco si presta a contenere, come un playground, ben più di una riflessione interessante.
Tornando al gameplay, intrecciare correttamente abitazioni e servizi, ottimizzando lo spazio, è allora l’unico modo per scongiurare un destino di morte, quello dell’ipotermia. Il pattern circolare permette per l’appunto di mantenere le varie strutture più vicine possibile all’imponente generatore centrale, un autentico fuoco prometeico, studiando al contempo le tecnologie utili ad incrementarne la portata.
La specie umana, successivamente alla catastrofe climatica, ha riabbracciato credenze ancestrali: quando il presente è ormai compromesso, il futuro lo si cerca in un’altra linea temporale, sepolto forse in un nuovo passato. Le chiese si edificano attorno a nuovi simboli, mitologie, letterature. Evidentemente non edotto al classico del nostro Alighieri, un sopravvissuto grida sullo schermo, tramite un pop-up, che “anche l’inferno si è ghiacciato!”.
Citando ancora Meschiari, “le terre all’estremo nord sono uno specchio del prossimo futuro”. Per attraversare questo specchio plutonico ci si avvicina al tracollo, con un fare quasi accelerazionista, se non direttamente nietzschano. Il futuro esiste ancora laddove sembra più difficile immaginarlo, nelle lande ghiacciate dove, lontano dal caos innescato dall’apocalisse climatica, un nuovo inizio è ancora possibile. Negli ultimi anni, abbiamo assistito virtualmente a ogni tipo di (post) apocalisse.
Dal ritorno di Fallout, datato 2008, sino all’imminente The Last of Us part 2, previsto per l’inizio del 2020, il decennio (non solo videoludico) è stato un brainstorming sul come tutto possa, da un momento all’altro, capitolare. Parliamo di scenari futuri e desolanti nei quali, nonostante una minaccia esterna spesso sovrastante, l’umanità si riscopre, secondo un topos ormai comune, la peggior nemica di se stessa. L’ossessione contemporanea per queste narrazioni apocalittiche, l’etimo lo confermerebbe, tradisce probabilmente il desiderio di assistere a quella rivelazione di senso storico che stilla, come fluido vitale, dal corpo di un mondo che va a morire. Ed ogni mondo che muore, come un iperorganismo, ci dice qualcosa degli esseri cellulari che lo hanno abitato.
Se cerchiamo, con ogni mezzo rappresentazionale, di gettare uno sguardo su un futuro che temiamo ostile, su quello che crediamo il nostro Armageddon, è forse perché, tra stelle Assenzio e Skynet, speriamo di ricavarne perlomeno una dottrina escatologica su misura di noi uomini postmoderni, di noi esseri (comunque vada) ecologici. Fra hauntology e cyber-nichilismo, oggi il futuro è soltanto una preview che glitcha: è il lenzuolo spettrale sotto il quale si agita lo spirito buggato del progresso, come le macchine naturali, o naturalistiche, di Horizon Zero Dawn.
L’apocalisse climatica di Frostpunk è decisamente uno scenario fra i meno fantasiosi, aldilà di qualche elemento fantastico che comunque non influenza la credibilità della minaccia. Anche se probabilmente non fa più notizia, date le sempre più frequenti conversioni di strategici per console, va detto che il titolo si gioca benissimo anche con il pad. Con questo porting pressoché perfetto, Frostpunk propone allora la stessa, ragionata quanto suggestiva, esperienza già disponibile su PC, anticipando l’inverno del nostro scontento e delle nostre console.