Avete presente quel Gears of War-mood che si rivela in scene come la seguente? Uno dei protagonisti corre verso un nemico, lo impala con una lama agganciata sulla punta dell’arma, si riversa addosso una doccia di sangue e sputa sulla morte della vittima con una battuta da macho in un film action anni Ottanta. Ecco, in Gears Tactics c’è un momento in cui questo tono crudo, aggressivo e muscolare sembra affievolirsi. Sid, Mikayla e Gabe, tre degli eroi di questo turn-based tactics (TBT d’ora in avanti) sono seduti davanti a un fuoco. L’atmosfera è così intensa che chiunque abbia un minimo di alfabetizzazione drammatica sa già cosa sta per succedere: il riflesso delle fiamme sui volti dei personaggi, il silenzio e il deserto tutto intorno, il cielo stellato sopra di Sid, il senso di colpa dentro di Sid annunciano l’arrivo di una SSACC (Sofferta Sentita Amara Confidenziale Confessione).
Non voglio esagerare con gli spoiler per evitare di infastidire chi ha un basso livello di sopportazione per le anticipazioni. Vi basti sapere che Sid, un canuto veterano dall’aspetto ingrugnito, ha fatto arrabbiare i suoi compagni di battaglia dall’aspetto ingrugnito con una mossa non concordata con il resto del gruppo che ha fatto ingrugnire tutti il doppio di prima. Quella teoria di elementi che rendono la scena del falò vibrante e viva suggeriscono a Sid che è arrivato il momento per un’apertura: eccolo che prende la parola e borbotta due o tre frasi. Mentre la regia di questi videogiochi-di-oggi-che-sembrano-quasi-film zooma sul volto amareggiato del vecchio soldato, noi spettatori siamo con entrambi i piedi nella scena, anzi, ci siamo dentro fino al torace, o al naso, o con tutto il corpo fino a una spanna sopra i capelli. L’atteggiamento di Mikayla e Gabe invece è completamente diverso: quando Sid, nel mezzo del suo discorso, sposta lo sguardo sugli interlocutori, si accorge che entrambi stanno dormendo. Mic drop.
Fino ad ora, Gears Tactics non ha fatto altro che “gearsizzare”. Il modo in cui, verso i due terzi del gioco, liquida con una battuta l’unica scena introspettiva è in fin dei conti una manifestazione di intenti: tutti quei bang, splat, skataklank dei combattimenti campali non lasceranno spazio a nulla di diverso da altri rattattatta, sdeng e sbam calci in faccia. D’altra parte, perché Gears of War avrebbe dovuto dare ai fan qualcosa di diverso da quello che gli ha permesso di diventare una killer application di Xbox? Cioè quella mescolanza di distopia, gore e bicipiti gonfi unita a un buon gameplay e a un’estetica del metallo così peculiare da essere riconosciuta alla prima immagine? Beh, innanzitutto perché Gears Tactics non è uno sparatutto in terza persona ma un genere più cervellotico: un TBT, che dal 2013 fa rima (anche se non fa rima) con X-COM. Premesso che il nostro prende a piene mani (come tutti gli esponenti della categoria) dal capolavoro Firaxis, c’è ancora una domanda a cui rispondere, la stessa che mi aveva instillato il dubbio di un possibile slittamento di toni: come tradurre il cinetismo della serie di Gears in un videogioco più cadenzato, in cui contano i ragionamenti e mai i riflessi, in cui spegnere il cervello non è un’opzione, i ritmi sono dilatati e i personaggi immobili fin quando non ricevono il via e si muovono in automatico? Questa, a mio parere, è la Grande Domanda, cioè, riformulo, il modo in cui un franchise molto conosciuto declina il carico di aspettative della propria fanbase su un genere che è proprio l’antitesi dello sparatutto, un genere che davvero sembra non c’entrare nulla con quei bagni di sangue che sono il non-plus-ultra della serie sui nostri amati coatti sguinzagliati contro le Locuste spuntate da sottoterra.
La prima cosa che balza all’occhio dell’appassionato di TBT in Gears Tactics è l’assenza della parte gestionale nella campagna. Ciascun soldato si distingue per il ruolo (cecchino, scout, supporto, avanguardia, mitragliatore) ed è caratterizzato da una diversa combinazione di abilità. Uno dei pochi aspetti strategici da svolgersi fuori campo è quindi la selezione del team più adatto a ogni tipo di missione (esistono infatti diversi obiettivi di completamento: raccogliere casse, difendere due postazioni, sbaragliare tutti i nemici, ecc.). In altre parole, bisognerà tenere presente non solo i ruoli più adatti a raggiungere le condizioni di vittoria, ma anche il modo in cui i bonus di ciascun membro della nostra squadra si combinano con le skill speciali delle altre parti del team, in modo da creare combinazioni a catena in cui un’abilità ne attiva un’altra, che ne attiva un’altra e così via. Veniamo qui a un aspetto a mio avviso centrale in Gears Tactics, che contribuisce per gran parte a infondere quell’action-touch in una struttura di gameplay rigida e a turni. Prima però elencherei la montagna di nemici che assaltano i nostri (massimo) quattro membri del team, la sensazione di continuo assedio, la facilità con cui è possibile abbattere quella specie di rettili che boh, hanno un nome da insetti e cioè Locuste. Tutto questo dà un non-so-che-di-Gears a un genere per nulla Gears. Personalmente l’ho trovata un’ottima soluzione per rendere l’esperienza di gioco più dinamica, senza impoverirne l’aspetto tattico.
La chicca però è quella accennata poco sopra, cioè la possibilità di innescare combo di abilità di un COG e tra COG. È la strategia vincente: ogni pedina ha di base tre punti movimento, ma alcuni bonus e le esecuzioni, con cui è possibile finire con un sanguinolento corpo a corpo un nemico prostrato dai colpi, regalano azioni aggiuntive agli altri compagni di squadra. Nonostante passassi anche dieci minuti a pianificare il mio attacco, a un certo punto ho realizzato che le mie previsioni raramente riuscivano ad anticipare lo svolgimento della battaglia. Molto meglio lanciarsi a capofitto contro i mostri, sperando di imbroccare quell’effetto a cascata che poteva darmi risultati sorprendenti, come ripulire l’intero campo di battaglia in un solo round. Se la carta vincente diventa darsi la carica, capite bene come gli sviluppatori di The Coalition e Splash Damage siano riusciti a infondere il brivido dei match al cardiopalma à la Gears in un TBT, genere da pensatori e videogiocatori posati. Un altro meccanismo da padroneggiare al più presto per avere un consistente vantaggio sugli avversari è la vedetta. Questo comando consentirà alle vostre truppe di coprire una porzione di arena, evidenziata da un cono la cui ampiezza e lunghezza dipendono dalle abilità del COG. Qualsiasi nemico incrocerà l’area di copertura subirà uno o più attacchi, a seconda dei punti azioni rimanenti al momento in cui la nostra pedina è stata messa a sorveglianza del territorio.
Francamente credo di avervi detto quel poco che ritengo assolutamente necessario sapere. Vale la pena comprare Gears Tactics? E che ne so. Insomma, vedete voi. Tendenzialmente su Ludica privilegiamo un approccio analitico a uno valutativo. Ma forse è meglio completare il quadro con alcuni elementi che mi hanno divertito o, al contrario, infastidito. Prima le brutte notizie: Gears Tactics costa troppo (al momento in cui scrivo, quasi 70 euro su Steam). È un gioco lungo, che vi terrà impegnati dalle 30 alle 60 ore, ma se siete abituati a spendere la stessa cifra per i tripla A, beh, forse avrete come l’impressione di esservi portati a casa un Jack Russell quando avreste desiderato un San Bernardo. Seconda idiosincrasia, in realtà molto grave: ci vorrebbe una difficoltà intermedia tra “esperto” e “folle”, cioè il penultimo e l’ultimo grado di sfida offerti dal gioco. Il livello medio-alto è l’entry level ideale, o almeno lo è stato per il sottoscritto che non è una spada negli strategici. Tuttavia fare piazza pulita dei nemici in modalità “esperto” non è né roba da esperti né gratificante: ma giocare a “folle” è troppo, troppo, troppo devastante. Peccato, perché credo che la chiave per apprezzare uno strategico sia sentirsi intelligenti e avere la percezione che le proprie scelte abbiano, a conti fatti, funzionato. Con Gears Tactics, invece, o ci si sente in grado di poter fare di più, o ci si sente troppo stupidi. Né aiuta che l’intelligenza artificiale lasci a volte a bocca aperta per l’insensatezza di alcune scelte.
Un aspetto positivo assolutamente da sottolineare è invece l’editor dei personaggi. Fatta eccezione per gli eroi, che devono mantenere caratteristiche fisionomiche costanti, per tutti gli altri c’è un ampio spettro di scelte cosmetiche da approfondire con un certo divertimento. Ho trovato entusiasmante la possibilità di creare una combinazione di colori e motivi per l’armatura dei miei pupilli, una trama militare, ad esempio, o texture a stelle. Anche l’arma è modificabile. Davvero goduriosa l’opzione di personalizzazione dei materiali: insieme alla superficie di arma o armatura, varia il riflesso e la plasticità dei colori del rivestimento. Le combinazioni sono innumerevoli. Dedicarmi all’aspetto dei personaggi ha funzionato come un momento di distensione prima di cominciare una nuova battaglia. Attenzione: avete tutti gli strumenti per imbestialire i vostri soldati. Ma beccare la combinazione giusta di opzioni estetiche vi regalerà enormi soddisfazioni, facendovi sentire davvero dei leoni sul campo di battaglia. Io ho preferito mantenermi su uno stile coatto ma fico, tipo Brad Pitt in Fight Club: il mio cecchino, ad esempio, era completamente dorato come un Cavaliere dello Zodiaco, mentre Sid aveva sull’armatura una trama a nido d’ape gialla e screpolata in grado di dargli un tocco di carisma in più.
Un’ultima manciata di informazioni sparse: nel corso del gioco, si alterneranno missioni principali e secondarie, ognuna delle quali vi darà accesso a un loot più o meno raro. Nel caso delle opzionali, dovrete scegliere due missioni su tre disponibili o tre su quattro, consapevoli che i membri del team mandati in battaglia non potranno tornare a combattere prima della prossima missione-storia. C’è un end game che non ho avuto occasione di approfondire, ma pare sia fatto di missioni leggermente più ostiche utili a collezionare un equipaggiamento migliore. Invece si registra l’assenza di multiplayer, mentre la storia è piuttosto lineare e scontata anche se si articola attraverso una serie di cutscene ben fotografate. Menzione speciale per la grafica, davvero senza precedenti per un TBT. Per il resto beh, volevo dirvi l’essenziale ma credo davvero di aver accennato a quasi ogni aspetto del gioco. Quindi non mi resta che darvi un consiglio: la quarantena è finita e il tempo per giocare a tutti i giochi di questo mondo è più che dimezzato. Ma esiste questa cosa che si chiama sindrome della capanna, cioè la paura di uscire dopo la serrata collettiva. Se siete alle strette con i tempi, provate a simularla. Gears Tactics e sindrome della capanna potrebbe essere the new pizza e Netflix del post-lockdown.