Qualche tempo fa stavo cercando un bilocale sul marketplace di Facebook: ho messo tutti i filtri del caso e ho cominciato a scorrere, spulciando tra le varie offerte presenti. Poi, all’improvviso, per non so quale motivo, in basso è apparsa un’offerta diversa, che niente aveva a che fare con affitti, spese di condominio e mobili vari: c’era un ragazzo che vendeva vecchie console Nintendo e relativi giochi. Tra questi, Pokémon Rosso e Pokémon Blu. È stato un lampo, una folgorazione: sono tornato indietro di parecchi anni nel giro di pochi secondi, e ho ricordato momenti della vita che credevo di aver rimosso, o almeno ai quali non pensavo da un bel po’. Dalla ricerca sul marketplace mi sono spostato a una ricerca interiore, intima, ripercorrendo alcune tappe della mia infanzia che sono state influenzate in modo inevitabile dai primi giochi Pokémon, che vedevano proprio nella ricerca uno dei loro aspetti principali. Sostanzialmente, quindi, ho aperto il Pokédex della mia infanzia. E dentro ci ho trovato cose bellissime.
Pokémon Rosso e Blu
Ogni generazione, come è normale che sia, ha dei suoi riferimenti, a livello di giochi. Non mi ha sorpreso, quindi, vedere negli anni alcuni dei miei amici più grandi reagire con totale freddezza quando si parlava di Pokémon, che fosse per i popolari cartoni animati che andavano in onda su Italia Uno oppure per i giochi per Game Boy. Io, invece, a quei discorsi reagivo sempre con entusiasmo: faccio parte di una generazione, quella dei nati nei primi anni Novanta, che è stata investita in pieno dal fenomeno Pokémon. Mi sono trovato lì, Game Boy in mano e cartuccia rossa inserita, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000, e questo mi tocca raccontare.
I videogiochi Rosso e Blu sono il primo prodotto del franchise Pokémon, ideato dall’informatico giapponese Satoshi Tajiri a metà degli anni Novanta. Inizialmente avrebbero dovuto chiamarsi Poket Monsters (in Giappone sono usciti proprio con questo nome, nel 1996) o Capsule Monsters, poi c’è stata la crasi che ha portato a Pokémon, molto più efficace, immediato e riconoscibile. In cosa consistono questi videogiochi? In breve, il giocatore veste i panni di un giovane allenatore di Pokémon, creature che hanno vari aspetti e che spesso ricordano specie animali. Il protagonista parte dal suo piccolo villaggio alla ricerca di questi mostriciattoli: lo scopo del gioco è catturarli tutti (lo slogan infatti è Gotta catch ‘em all!), e parallelamente farli lottare allo scopo di battere i vari capi-palestra sparsi per la mappa (l’immaginaria regione di Kanto), conquistando le otto medaglie necessarie per arrivare alla Lega Pokémon, ultimo step da affrontare per laurearsi Campione.
I primi videogiochi in questione ripercorrono fedelmente le tappe della serie animata basata su di essi, che in Italia sarebbe arrivata solamente nel 2000. Rosso e Blu, invece, sono stati lanciati sul mercato italiano nel 1999: io all’epoca avevo solo sei anni e cominciavo a prendere confidenza con qualcosa di più elaborato di un pallone. Il Game Boy era il mezzo perfetto per cominciare a interfacciarmi col mondo dei videogiochi, e passare da Tetris a Pokémon, per me, è stata una vera rivoluzione. Non perché Tetris non fosse un gran gioco (ancora oggi mi capita di fare qualche partita), ma semplicemente perché sentivo di potermi immergere in qualcosa di più grande, di diverso, che mi permetteva di viaggiare con la fantasia restando sotto le coperte. Un piccolo mondo nelle mie mani: cosa c’è di più affascinante, per un bambino?
Non a caso, i videogiochi Pokémon Rosso e Blu hanno riscosso sin da subito un grande successo: sono ancora oggi la generazione di cartucce Pokémon più venduta di sempre, si stima che (insieme a Verde, mai arrivata in Italia) abbiano raggiunto 31 milioni di copie in tutto il mondo (alle quali vanno aggiunte le 14 milioni di copie di Pokémon Giallo, personalmente il mio preferito). Numeri stratosferici per un gioco che ha cambiato l’infanzia di un numero indecifrabile di bambini, e che ha contribuito in maniera determinante alla diffusione del Game Boy, console della Nintendo che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del 2000 è stata vista nelle mani di quasi tutti i ragazzini. Me compreso, ovviamente.
La spinta all’interazione sociale
Nel 1999 io avevo solamente sei anni, e come tutti non ho molti ricordi dei miei sei anni. Però il giorno in cui mi regalarono la cartuccia di Pokémon Rosso lo ricordo in quella maniera chiara in cui si ricordano episodi chiave della propria infanzia. Ecco: i Pokémon hanno segnato la mia, in un modo o nell’altro.
La prima volta in cui ci ho giocato è stata attraverso il primissimo Game Boy, quel mattone grande e grigio che può capitarvi di vedere su quelle pagine Facebook tipo “Ma che ne sanno i 2000” o roba simile. La prima partita l’ho cominciata con un amico di famiglia che ha qualche anno più di me, e il nome dello starter lo abbiamo scelto unendo il mio nome di battesimo e il suo. Già da allora avrei dovuto intuire, anche da questo piccolo episodio, come Pokémon fosse un gioco tremendamente sociale, a dispetto della sua creazione per single player.
Crescendo insieme a Rosso, quasi sempre nell’andare avanti col gioco mi sono trovato ad interfacciarmi con i miei amici d’infanzia, anche loro alle prese con mappe, tunnel, capi-palestra da battere. Avevamo tutti gli stessi problemi immaginari, e il nostro obiettivo quotidiano, dopo la scuola, era di superarli insieme. Non c’era neanche competizione, perché tanto alla fine ognuno giocava sulla sua console, sul suo gioco: non c’erano pretesti per litigare come succede tra bambini che competono, ma solo occasioni di confronto per capire come andare avanti, come risolvere, come progredire. Pokémon Rosso e Blu invitavano ad unirsi, mai a dividersi.
Il fatto che si giocasse su una console portatile rendeva tutto ancora più semplice: non dovevamo necessariamente andare a casa di Tizio, chiedere permessi ai genitori, ritagliarci spazi per chiuderci in casa; no, bastava solamente uscire con le pile cariche e incontrarsi dove capitava, senza che nessuno interrompesse la nostra ricerca. Per completare la stessa avevamo anche a disposizione degli accessori: il più utile, per chi giocava a Pokémon, era senza dubbio il cavo Game Link, detto in gergo anche cavetto, serviva per scambiare i Pokémon attraverso due Game Boy diversi, e per lottare con gli avversari scegliendo una propria squadra da sei. E così si aggiungeva anche un po’ di competizione tra giocatori, che comunque erano chiamati ad aiutarsi a vicenda: per completare il Pokédex era inevitabile fare scambi con gli altri, perché alcuni esemplari presenti nella versione Rosso non c’erano invece in Blu, e viceversa.
Pokémon Rosso e Blu, sostanzialmente, ti spingevano all’interazione, al confronto e allo scambio, in uno spirito di collaborazione che raramente mi è capitato di vedere in altri videogiochi. Si giocava ognuno sulla propria console interfacciandosi con personaggi immaginari e virtuali, sì, ma c’era anche una dimensione spiccatamente fisica: io mi incontravo con gli amici per capire cosa fare, come muovermi. Non che internet allora non ci fosse, intendiamoci: era già vivo da tempo e abbastanza avanzato, ma per un bambino di meno di dieci anni dell’epoca restava comunque un mistero quasi totale. L’unica guida a disposizione per noi under 10 era quella cartacea e io ce l’avevo: mi era stata regalata da non ricordo chi, la condividevo con gli altri per capire insieme come procedere e come vincere, insieme.
Il tutto senza parlare dei vari easter egg presenti: oggi per capire se veramente c’è quel segreto in un gioco qualunque mi basta cercare sul web, allora invece eri costretto a fidarti ciecamente dell’unico indizio a disposizione, che di solito era stato dato da un amico di un amico di tuo cugino, o una cosa così. E così per scoprire se Mew (Pokémon leggendario appartenente alla prima generazione) era davvero dietro al furgoncino nei pressi della Motonave Anna dovevi andare fisicamente lì a controllare, fidandoti di chi dietro quel furgoncino ce lo aveva trovato veramente, Mew. O almeno così diceva. Pokémon ha insegnato alla mia generazione prima a fidarsi e poi a diffidare, a basarsi molto sull’esperienza personale fino a farla diventare saggezza, quella che serve per capire che no, non puoi battere tutti con Charizard, per quanto sia forte, imponente, bellissimo. E a proposito di cose che Pokémon Rosso e Blu hanno insegnato, bisognerebbe tenere conto anche dei a valori che sembrano aver ispirato questo gioco in maniera chiara e decisa.
I valori dietro al gioco
Non è una cosa banale: esistono anche giochi asettici, freddi; esistono giochi senza alcun fine pedagogico, o che semplicemente non hanno l’obiettivo di insegnare qualcosa, ma solo di far divertire: scelta sicuramente legittima. Pokémon però era ed è ancora diverso: dietro a quei mostri che si affrontano tra di loro ci sono storie che nel gioco evolvono, insegnano, ti spingono a riflettere su alcuni valori importanti: amicizia, scambio, spinta alla scoperta e alla curiosità.
Sull’amicizia in particolare si basa un po’ tutta la storia della prima generazione, che come detto segue quella del cartone animato, molto popolare in Italia a quel tempo. Ash Ketchum, il protagonista, non considerava mai i Pokémon come mostri da sfruttare per raggiungere il suo scopo; al contrario, per Ash i Pokémon erano amici, compagni di viaggio con cui condividere avventure, da difendere e accudire, e anche da lasciar andare, quando necessario.
I valori presenti nella serie animata erano di riflesso presenti anche nei giochi Pokémon Rosso e Pokémon Blu: dietro i brevi dialoghi scambiati con i personaggi erano nascosti preziosi insegnamenti, e avere questa piccola scuola di vita a portata di mano era una cosa straordinaria, per un bambino. Pokémon insegna ad amare il prossimo, ad accettare tutte le diversità; i giochi della serie ci dicono che non esiste giusto o sbagliato, quando si tratta di modi di essere. Lo ripete anche Karen, prima dei Superquattro (fortissimi allenatori della Lega Pokémon da battere prima di affrontare il Campione): «Pokémon forti. Pokémon deboli. Sono distinzioni dettate dall’egoismo. Gli allenatori davvero in gamba dovrebbero vincere con i loro preferiti».
Nessuno è più forte di un altro, non si deve scegliere in base alla mera potenza di attacco, alla capacità di fare più male: non si tratta di macchine chiamate a distruggere l’avversario, ma di amici, appunto. E questo concetto viene ripetuto in maniera potentissima anche nel primo Pokémon il film – Mewtwo colpisce ancora, una perla dell’animazione che andrebbe visto da tutti, amanti del franchise e non, per la sua bellezza e la sua profondità.
Nelle edizioni successive a Rosso e Blu l’amicizia è stata messa ancora più al centro del gioco stesso: sono stati inseriti degli attacchi (come Ritorno) che più si è amici con un Pokémon e più risultano forti; inoltre, ci sono alcune specie di Pokémon che si evolvono proprio grazie all’affetto, ossia al rapporto stretto con il proprio allenatore. Ovviamente con l’avanzare degli anni le versioni dei videogiochi si sono fatte sempre più sofisticate, e oggi sul web si trovano addirittura guide di wikiHow per aumentare la felicità di un Pokémon. Tutto ciò non fa che confermare come dietro al gioco ci siano valori chiari e ben definiti, che continuano ad essere al centro delle dinamiche delle nuove cartucce, come era già evidente in Rosso e Blu.
Cosa è rimasto dei Pokémon
Pokémon, in sostanza, per la nostra generazione è stato una sorta di rivoluzione, tremendamente coinvolgente e anche molto educativa. Tra l’altro non ho menzionato le carte da gioco, altro modo del franchise di espandersi e altra occasione per noi bambini nati negli anni Novanta di interagire tra di noi giocandoci e scambiandole. Quelle, però, sono passate di moda in fretta. Come una moda passeggera, almeno per molti della mia generazione, è stato Pokémon Go: lanciata nel 2016, questa app in sostanza consentiva di diventare dei “veri” allenatori di Pokémon andando a cercare i mostri in giro per le vie della città, sfruttando una tecnologia impensabile fino a un paio di decenni prima. Ci ho giocato anche io, poi però dopo un po’ mi sono stufato: banalmente, non era la stessa cosa, il coinvolgimento non era lo stesso.
Finché ci ha giocato anche un mio amico sono andato avanti, poi quando ha mollato lui ho mollato anche io, probabilmente perché sono rimasto ancorato a quella visione di Pokémon come gioco corale, da affrontare insieme. Io mi sono fermato a qualche edizione fa, l’ultimo gioco che ho avuto è stato Pokémon Rosso Fuoco, versione rivisitata dei primi giochi uscita per Game Boy Advance. Ogni tanto mi capita ancora di accendere il mio vecchio Advance SP e di giocare qualche decina di minuti a Pokémon, banalmente perché mi piace, mi fa sentire in pace con il mondo, mi fa tornare in un luogo che sento familiare. Tutto a portata di mano, di tasca, di pocket.
D’estate, negli stabilimenti balneari, negli anni mi è capitato ancora di vedere orde di ragazzini che si accavallano sopra un Game Boy (o un Nintedo DS, visto che la console nel frattempo è cambiata) per cercare di capire come uscire da quel tunnel, come catturare quel Pokémon, come battere quell’allenatore. Evidentemente anche le nuove edizioni hanno mantenuto quel leit motiv, spingendo i più piccoli ad unirsi, a confrontarsi, ad accettare diversità e a condividere strade, percorsi, soluzioni.
Alla mia generazione non resta che guardarli con nostalgia, ripensando a come siamo cresciuti con lo stesso insegnamento videoludico, precursori e pionieri di un gioco che sta attraversando decenni, console e generazioni stesse, uscendone sempre indenne. Non comprerò altre versioni, mi sento un po’ fuori quota e ho perso un po’ il filo, trascinato via banalmente dalla vita e da altre passioni che hanno riempito le mie giornate. Però quell’annuncio sul marketplace non me lo sono fatto sfuggire: ho acquistato di nuovo Pokémon Giallo e non vedo l’ora di cominciarlo un’altra volta, per provare ancora a catturarli tutti.