In X-COM: UFO Defense, il turn-based tactics di Microprose sviluppato da Julian Gollop nel 1993, la debacle totale e irrimediabile è sempre dietro l’angolo, nonostante una campagna da medaglia al valore e il largo vantaggio accumulato sugli invasori alieni. Il momento più game-changing della mia carriera di videogiocatore si è verificato durante le operazioni di disinfestazione di una base sotterranea degli omini grigi (ma anche viola, arancioni, insettiformi, gelatinosi e con imbarazzanti tutine verdi, quello di Gollop sembra infatti un cartello di razze dai quattro angoli della galassia). Grazie al level-up delle missioni, i miei uomini erano diventati sempre più bravi a centrare il bersaglio, infaticabili e psicologicamente solidi. Dietro di me avevo lasciato un mare di corpi immersi in una poltiglia verde simile a sangue: dopo aver fatto piazza pulita, mi stavo avvicinando al cuore del quartier generale extraterrestre, dove avevano trovato rifugio un paio di comandanti nemici.
Mentre assaporavo una gratificante vittoria, un Reaper è sbucato alle spalle di un gruppo di soldati terrestri. Premetto che, come mi hanno insegnato le decine di ore di pratica, durante una partita a X-COM provo sempre a tenere le spalle coperte. Durante la missione nella base sotterranea, avevo passato al setaccio i corridoi e le sale della struttura palmo a palmo: come diamine era stato possibile che mi fosse sfuggita una blatta antropomorfa, nonostante il lavoro certosino di esplorazione?
La risposta, ho realizzato successivamente, si nascondeva nelle “falle” del mio percorso da autodidatta. X-COM: UFO Defense, pubblicato negli Stati Uniti con il nome di X-COM: Enemy Unknown (nel 1994), non dispone di un tutorial. I segreti del gioco vanno approfonditi tramite il manuale di istruzioni, dettagliato e spesso come un libricino per un esame da 4 crediti. Pensando di poter imparare tutto il necessario mouse alla mano, io semplicemente non ero a conoscenza del fatto che le “stun grenades” stordiscono i nemici per qualche turno e non, come pensavo, per l’intera durata della partita. Insomma quel Reaper comparso dietro l’angolo era stato messo a dormire solo provvisoriamente. Se pensate che questo sia solo un dettaglio, aspettate che vi racconti la fine questa storia.
Il Reaper ha una simpatica caratteristica: può trasformare in zombie bavosi gli atletici X-COM. Gli zombie possono a loro volta moltiplicarsi, ingaggiando gli umani in corpo a corpo, per trasformarli in altri esseri deambulanti e privi di volontà. Insomma, anche un solo Reaper è in grado di generare un’orda di nuovi assalitori, tramite un proporzionale sterminio di soldati o civili, contribuendo quindi ad aumentare a sfavore dei terrestri lo sbilanciamento tra le forze in campo. Nell’arco di cinque minuti, a fronte di ore e ore di campagna ottimamente condotta, non solo ho visto i membri della mia squadra X-COM trasformarsi in zombie spaziali, sui quali ero incapace di esercitare qualsiasi forma di controllo, ma per ogni minaccia in più avevo a disposizione un compagno in meno con cui difendermi.
Quando poi uno Snakeman ha fatto fuori altri due o tre uomini con una specie di razzo in grado di rimbalzare sui muri e girare l’angolo, ho capito che non c’era più nulla da fare. La mia squadra, messa insieme selezionando gli uomini migliori da ciascun distaccamento, in vista di un’operazione cruciale, era stata spazzata via. Le mie basi giacevano indifese. E ormai, a corto di soldi e risorse, non avevo né gli uomini né i mezzi per ingaggiare i marziani sul campo. I miei travolgenti successi, grazie ai quali ero riuscito ad accreditarmi presso i leader mondiali, si sono come dissolti per sempre. Non mi restava altro da fare che rimandare il più a lungo possibile la disfatta del genere umano, mentre i capi di stato e di governo si lasciavano circuire da extraterrestri travestiti da burocrati.
Badate bene che caricare l’ultimo gioco salvato non era un’opzione. O, meglio: sì, potevo farlo, ma non senza “trasgredire” a quello che ho interpretato come il mandato del gioco. Nel caso di X-COM, infatti, mi sembra che il game over sia concepito solo come qualcosa di irreversibile. La campagna può dirsi davvero finita quando la Terra è stata soggiogata, mentre le sconfitte intermedie comportano la perdita di uomini, armi e veicoli, ma non pregiudicano la possibilità di andare avanti con meno mezzi a disposizione. Se queste sono le regole, chiamatemi pure pazzo e maniacale ma il mio senso di gratificazione dipende dal rispetto della visione del team di sviluppo.
Se X-COM: UFO Defense fosse stato un titolo contemporaneo (e in effetti le sue più recenti installazioni lo sono) non sarebbe stato così punitivo. O almeno avrebbe previsto un sistema di bilanciamenti capace di offrire reali opportunità di riscatto a chi gioca. Al contrario, nel gioco del ‘93, ci si può trovare nella situazione di dover portare avanti una resistenza logorante, senza possibilità di ribaltare il tavolo, rispetto alla quale però c’è l’imbarazzo di fare marcia indietro, mancando segnali chiari sulla legittimità di un load game. Problemi di etica da hardcore gamer, certo, ma per i giocatori molto appassionati non ricorrere a scorciatoie è tutto. Un altro affare da hardcore gamer credo sia questo: parte dell’ostinazione con cui i moderni appassionati sfidano la punitività e le meccaniche ostiche (per gli attuali standard) del turn-based tactics di Gollop potrebbe dipendere dallo status di pietra miliare di UFO Defense. Questo titolo non ha inventato un genere, ma ne è stato sicuramente uno degli esponenti di maggiore rilievo. Ha inoltre un’estetica peculiare, che forse oggi tendiamo a dare per scontata.
Il titolo arriva sugli scaffali quando X-Files non è ancora un gigantesco fenomeno culturale, capace di provocare un’impennata nella curva degli avvistamenti di Ufo in tutto il mondo. Nonostante Communion (1989) o Fire in the Sky (1991), ad ascoltare il racconto degli sviluppatori si ricava l’impressione che una certa figura di extraterrestre ancora non fosse stabilmente presente nell’immaginario collettivo. E mi riferisco agli omini grigi che agiscono come subdole entità dedite ai rapimenti. La fantascienza aliena entra, negli anni Novanta, in una zona di confine tra l’horror, il thriller e i presunti incontri ravvicinati sui quali non solo X-Files, ma anche lo stesso X-COM si basa. Quelli di Gollop sono alieni che portano avanti i loro cinici esperimenti, evidentemente considerando l’umanità una razza non degna di compassione, rapiscono le mucche con i raggi traenti e organizzano meeting segreti con capi di stato e di governo (molto del materiale narrativo è stato ispirato da Alien Liaison di Timothy Good). I crismi dell’immaginario che salirà sulla ribalta con le inchieste dei due agenti federali più famosi della TV, insomma, ci sono già tutti, anche se un po’ annacquati, essendo mescolati a toni fumettistici o alla fantascienza più classica.
E però X-COM arriva anche lì dove il cinema non è arrivato. Mentre si costruiscono basi in Russia o in Perù, da dove far partire le navi con cui intercettare gli UFO in Europa o al Polo Nord, il giocatore si sente davvero coinvolto in una serie di operazioni su scala globale. Nei film piuttosto si adotta, per necessità di sintesi, un punto di vista specifico: che può essere quello di una famiglia (War of the Worlds, 2005), di un manipolo di soldati (Battle of Los Angeles, 2011), di un corpo di studio (The Arrival, 2016). Qualunque siano i protagonisti, il risultato non cambia: lo spettatore avverte meno intensamente le proporzioni di un accadimento che minaccia la casa comune dell’umanità. Signs (2002) ci arriva più vicino di tutti, tramite l’utilizzo intelligente dello stile del found footage e della comunicazione televisiva. Eppure non siamo ancora al livello di percezione accentuato dal celebre mappamondo della schermata gestionale di X-COM. Grazie al simbolo per eccellenza del turn-based tactics con gli alieni, ma anche al managing della ricerca e dello sviluppo dell’attrezzatura militare, ci si sente davvero nei panni di chi, nel tenere le fila della risposta armata agli alieni, deve elaborare una strategia intercontinentale.
Questo carico di cose belle e irripetibili, nonché irresistibili per un certo tipo di appassionato di fanta-horror, fanno a botte con una punitività senza compromessi, che ormai è possibile trovare solo nei vecchi giochi. Naturalmente viene il sospetto che una curva di apprendimento così schizofrenica possa essere il risultato di un gameplay ancora acerbo (parliamo pur sempre degli anni Novanta…), ma è anche vero che Gollop e soci hanno concepito X-COM come un videogioco privo della concorrenza di oggi: quando, nel 1993, si comprava un titolo, ci si impegnava a giocarci almeno per tutto il tempo necessario a mettere insieme altre centomila Lire di paghette.
Credo che il monte ore accumulato giocando al turn-based tactics di Microprose, e in generale a qualsiasi altro gioco presenti le stesse caratteristiche (e gli stessi problemi di compatibilità e di una gran quantità di bug, argomenti che meriterebbero un discorso a parte) ci possa insegnare molto sul nostro comportamento in veste di videogiocatori: quanto siamo disposti a “soffrire” per la gratificazione di aver completato un’esperienza videoludica fondamentale? E quanto forte è la spinta di un’idea bella e irripetibile, che ci dà il segno di fasi culturali ormai trascorse? Preferiamo il remake o cogliere le atmosfere originali, a costo di scendere a compromessi con bug e porting difettosi?
Personalmente ho dovuto ricominciare X-COM ancora e ancora, insomma ogni volta che un solo clamoroso errore mandava a monte una campagna assolutamente impeccabile. Adesso è il mio terzo gioco più giocato di sempre su Steam. Vi chiederete se sono riuscito a finirlo. Beh, di certo sono arrivato su Marte, dove ho avuto occasione di espugnare l’avamposto alieno. Sul pianeta rosso i marziani custodiscono un supercomputer al quale sono collegate tutte le specie: distruggerlo significa spazzare via la minaccia extraterrestre. I miei soldati erano in un corridoio sotto la sala comando dell’elaboratore bio-meccanico. Li ho raccolti intorno ai raggi traenti, che mi avrebbero portato al piano superiore, con l’intenzione di vincere grazie a un attacco coordinato. A difendere il supercomputer, però, c’era una razza di alieni con poteri psichici: si sono impossessati della mente di uno dei miei soldati migliori, e gli hanno fatto lanciare una potente granata, che ha distrutto l’intera squadra inviata su Marte. Sapete una cosa? Alla fine l’ho capito: la Terra era davvero fottuta dall’inizio. Ho chiuso il computer e sono andato a dormire.