Il presente contributo intende offrire una mappatura delle differenti possibilità con cui gli sviluppatori italiani di videogiochi si sono approcciati, negli ultimi anni, al genere dei punta-e-clicca, a proposito del fattore nostalgico—tendenzialmente forte all’interno della categoria di prodotti presi in esame—nei confronti del periodo passato di massima fioritura di questo genere. Prima di indicare come è stato selezionato il corpus dei titoli analizzati è necessaria una premessa sui generi videoludici e sui problemi definitori che li riguardano. Nel 2006 Rune Klevjer sottolineava la curiosa carenza di studi dedicati a singoli generi videoludici, nel panorama dei game studies, come dimensione intermedia fra indagini su singoli videogiochi (o saghe) e analisi sul medium nel suo insieme. Anni dopo la situazione non ha subìto particolari modifiche, in termini di bilanciamento, e salvo alcune eccezioni1 le analisi su specifici generi sono rimaste tendenzialmente occasionali e disorganiche.
Al tempo stesso, però, sono state formulate numerose tassonomie dei generi videoludici, mosse da una sorta di ansia classificatoria che segue sostanzialmente due linee possibili (Maietti 2004, pp. 30-41): da un lato una specificazione delle ‘etichette’ impiegate da giornalisti e videogiocatori, dall’altro un tentativo di percorrere strade alternative, identificando nuovi possibili generi magari a partire da preesistenti nozioni (partendo, per esempio, dalla classificazione di Caillois 1967). Le categorie definitorie del secondo gruppo faticano ad affermarsi, mentre le prime rimangono ancorate a “poorly defined social conventions rather than clearly defined lists of characteristics” (Kerr 2006, p. 38). Di fronte a queste definizioni di superficie, in cui “after all, a genre is nothing but a general term for a number of texts with similar characteristics” (Kūcklich 2006, p. 101), studiosi come Dominic Arsenault (2009) hanno proposto un superamento della nozione di genere per i videogiochi, dopo aver preso atto che le definizioni degli utenti e della stampa sono solo l’identificazione di un gruppo di “cloni” che si sviluppa a partire da un prodotto di successo2.
Passando all’oggetto di analisi del presente saggio, numerose tassonomie e categorizzazioni che si sono succedute nel corso del tempo (come Crawford 1982, Herz 1997, Poole 2000, Paggiarin 2009) non parlano di avventure grafiche o punta-e-clicca, ma inseriscono al più questi videogiochi sotto l’ampia etichetta di adventure, in cui rientrano un gran numero di videogiochi piuttosto differenti fra loro. Altri, come Wolf (2001, pp. 81-90 e p. 262), pur mantenendo la definizione più generica di adventure, inseriscono all’interno di quest’ultima alcune differenziazioni che delineano almeno in parte l’ambito dei punta-e-clicca. Arrivando, infine, ai testi che forniscono una definizione delle avventure grafiche, queste rimangono comunque piuttosto generiche e non sempre strettamente univoche, probabilmente perché risentono del problema strutturale delle tassonomie videoludiche, le quali cercano di razionalizzare un insieme ricorrente di elementi ludici e grafici che si riscontrano in insiemi di videogiochi.
Si comincia con l’ancora embrionale definizione di Fabio Rossi, in cui l’avventura grafica è un “sottogenere dei giochi d’avventura in cui ambienti, personaggi e oggetti incontrati dal giocatore vengono presentati sotto forma grafica piuttosto che testuale. I comandi vengono ancora inseriti sotto forma di frasi di senso compiuto” (1993, p. 43, corsivo dell’autore)3, fino a definizioni più recenti, come quelle di Barbieri (2019)4 e Accordi Rickards (2018)5, passando per quella di Salvador (2013)6, da lui proposta—a fianco delle altre—pur premettendo che la posizione di Arsenault è condivisibile, e che questa sua tassonomia serve solo a chiarire i riferimenti interni al testo. Gli ultimi esempi sono stati selezionati da testi italiani, per avvicinarsi al campione selezionato, ma gli studi esteri appaiono sostanzialmente equivalenti, nel fornire definizioni che rischiano sempre di risultare troppo generiche o troppo specifiche.
Alla luce di quanto detto finora si è deciso di mantenere, in questo articolo,
una definizione piuttosto ampia di “punta-e-clicca”, ma che sia al tempo stesso sufficientemente specifica da permettere di tracciare un gruppo riconoscibile, in cui non vengano inseriti troppi videogiochi solo marginalmente collegati con l’oggetto di indagine. Sotto questa definizione sono stati considerati—tenendo conto degli aspetti tecnici e logici—quei videogiochi in cui c’è una interazione tramite cursore del mouse con elementi distribuiti nelle schermate, col fine di risolvere enigmi e far avanzare la progressione diegetica.
Per quanto riguarda invece la componente nostalgica7 sono altrettanto utili alcune precisazioni, perché il termine—coniato da Johannes Hofer nel 1688 (1934)—non è di immediata definizione nelle sue caratteristiche specifiche, nonostante sia di uso comune, soprattutto quando viene applicato all’esperienza videoludica. Già Kant (1798/2006) aveva sottolineato che il sentimento nostalgico non era semplicemente indirizzato al luogo dal quale si era lontani (come le Alpi per i soldati svizzeri di cui parlava Hofer) ma a una rielaborazione mentale di quel luogo, che risultava pertanto filtrata e, al tempo stesso, mai più pienamente ricomponibile nella realtà.
Ciò ha portato la psicologia a interrogarsi in vario modo (per un sunto si veda Sedikides et al. 2008 e 2017) su questo movimento tensivo, in cui si cerca di ritornare a qualcosa che è in realtà perso per sempre, o che non è nemmeno mai esistito del tutto, essendo una ricostruzione effettuata dalla mente. In ambito semiotico, similmente, l’analisi condotta da Greimas sul dispositivo nostalgico, a partire dalla sua definizione presente nel dizionario, giunge a riconoscere che si può aver a che fare “con un vissuto immaginario che non si è conosciuto e che si sarebbe voluto conoscere” (1991, p. 22, corsivo dell’autore).
Questo vale sia per la ricostruzione mentale della propria infanzia, per come si sarebbe voluto viverla, sia—con un passaggio ulteriore—per un tempo storico di cui non si è fatto parte. Il panorama mediale contemporaneo attua spesso dei recuperi del passato, ma cerca di evitare operazioni esplicitamente nostalgiche, per via della natura prevalentemente disforica di questa sensazione8. I recuperi, insomma, avvengono frequentemente, anche nell’ottica di rivivificare—e quindi sfruttare nuovamente—dei contenuti che hanno un valore residuo riattivabile (Jenkins, Ford, Green, 2013, pp. 91-118), ma sono più nell’ottica del vintage, che “non rappresenta una rievocazione nostalgica basata sul rimpianto di qualcosa che non esiste più, ma il frutto di un atteggiamento costruttivo che cerca invece di ricostruire e riattivare un mondo passato” (Codeluppi 2016, p. 91). Il vintage mood cerca di porsi come attivatore di elementi euforici, ha una intensità patemica inferiore rispetto alla nostalgia (ragione per cui è molto più diffuso e malleabile) e mescola passato e presente (Panosetti 2013, pp. 24-30). A prescindere dagli obiettivi prefissati, tuttavia, l’effettiva nostalgia—emotivamente più forte e almeno parzialmente disforica—continua a sua volta a riemergere nel pubblico, soprattutto nei momenti di forte accelerazione tecnologica (Boym 2001) e non senza una sorta di apparente paradosso (Niemeyer 2014), in cui emergono elogi della tradizione (per esempio nel genere fantasy: Dal Lago 2017) e richiami all’infanzia, facilitati dal ricorso alle tecnologie, anche in forma di registrazione e testimonianza (Cati 2013; Sisto 2018, pp. 64-69).
Calando tutto ciò nei videogiochi, la tendenza più propriamente nostalgica è quella del retrogaming puro, operato attraverso il recupero di videogiochi del passato in una forma vicina a quella originaria (Chirchiano 2016), che apre diverse considerazioni anche sulla conservazione e la catalogazione di questi vecchi videogiochi (Babich 2004; Fassone 2015). Più che questi recuperi puri, spesso da collezionisti, risultano interessanti le forme ibride, in cui dei nuovi videogiochi si rifanno esplicitamente ai prodotti del passato, sul piano del game design (Garda 2013), della grafica o di un ibrido fra queste e altre componenti (si veda per esempio Yu 2016). È potenzialmente interessante analizzare simili recuperi videoludici del passato perché essi possono svilupparsi su differenti gradi di profondità e complessità. In alcuni casi si assiste a un mero citazionismo, finalizzato a solleticare la (nostalgica) memoria dei videogiocatori, ma in altri si giunge a forme autoriflessive sulla natura stessa dei medium, in cui il recupero di elementi del passato è volto alla presentazione di una critica sul panorama videoludico stesso (Sloan 2016).
Metodologia
Passando alle note metodologiche, si è deciso di analizzare i punta-e-clicca italiani usciti negli ultimi dieci anni, dal 2010 agli inizi del 2020. La scelta di questo periodo temporale risponde a tre ragioni differenti. Non risalire oltre il 2010 serve innanzi tutto a offrire un campione numericamente navigabile e a garantire quel minimo di distanza temporale rispetto alle più note avventure grafiche del passato, così da poter dare senso alla nostalgia presente. Questa scelta, però, trova anche giustificazione nella trasformazione che i videogiochi indie—e tutti i casi analizzati possono essere collocati sotto questa etichetta9—hanno vissuto fra il 2010 e il 2012 circa, rispetto al periodo precedente. È il periodo in cui comincia l’effettiva esplosione della scena indipendente, per come viene concepita oggi: emergono numerose figure autoriali indipendenti, crescono modalità e piattaforme con cui è possibile pubblicare videogiochi realizzati con budget ridotto (Hill-Whittall 2015, pp. 65-118) e si sente la necessità di ripensare le definizioni fornite in precedenza (Sheffield 2011; Kogel 2012). Una volta definito il periodo temporale da considerare, sono stati identificati i “punta-e-clicca” italiani usciti in quel periodo, sia interrogando le piattaforme di distribuzione online (principalmente Steam, GoG, Itch.io e Gamejolt), sia osservando i programmi di eventi come la Milan Games Week e lo Svilupparty di Bologna, in cui molti team indipendenti presentano i loro videogiochi.
L’elenco dei videogiochi identificati, pur non avendo pretesa di assoluta esaustività, costituisce un’ampia panoramica sulle produzioni italiane interne al genere: A Homie’s Adventure (Sydney Sacchi, 2017), A Landlord’s Dream (LostTrainDude, 2017), Alla ricerca di Babbo Natale (Paolo Rossini, 2017), A Matter of Caos (Expera Game Studio, 2015), A Tale of Caos (Expera Game Studio, 2016), Amber County (Fafri, 2018), Anna – Extended Edition (Dreampainters, 2013), Another Desktop Adventure (Mazsoft, 2016), BELPAESE: Homecoming (Fazz Brothers, 2017), Beyond the Sky (Iperurania Arts, 2018), Children of Silentown (Elf Games, 2019), Chronicle of Innsmouth (Psychodev, 2017), Cursed Roots (MastroBros, 2019), Cyber (Andrea Pignataro, 2017), Detective Gallo (Footprints, 2018), Eselmir e I cinque doni magici (Stelex Software, 2018)10, Face Noir (Mad Orange, 2013), File://Maniac (Bornfrustrated, 2019), Forgotten Hill Disillusion (FM Studio, 2019), Game Over Carrara (Elvis Morelli, 2018), La Valle delle Stelle (Paolo Rossini, 2020), Lara Magenta (Hologrape, 2019), Last Day of June (Ovosonico, 2017), Little Briar Rose (Elf Games, 2016), MADievals (2finger, 2019), Nicolas Eymerich, inquisitore: La peste (Ticonblu, 2012), Onironauta (PianoB Studio, 2017), Paul Romano (Cristian Tiberi, 2019), Rogue Quest: The Vault of the Lost Tyrant (Expera Game Studio, 2017), Shadows of the Vatican (10th Art Studio, 2012), Still There (Ghostshark, 2019), The Hand of Glory (Madit Entertainment, 2020), The Peephole’s Chronicles (Black Corporation, 2020), The Ruins of Riddoh (Similia, 2017), The Town of Light (Lka, 2016), The Wardrobe (C.I.N.I.C. Games, 2017), Towayami (Andrea Pignataro, 2019).
Studi di caso
Dallo studio dei titoli suddetti11 sono emersi tre “filoni” di recupero nostalgico, di cui i primi due appaiono legati alla discendenza (talora “clonazione” di certi elementi, per riprendere Arsenault 2009) dai capostipiti classici (primi Anni Novanta)12 e post-classici (secondi Anni Novanta), mentre il terzo spicca per innovatività, con l’elemento nostalgico in sordina, talora forse inconscio, certamente molto diluito. Al primo filone fanno capo i giochi scaturenti da un’idealizzazione dei classici, dove il prototipo è The Secret of Monkey Island, e vi appartengono titoli tecnicamente molto simili a quelli dell’epoca aurea. Questi giochi non ripercorrono necessariamente i topoi classici a livello di tematiche, ma presentano caratteristiche volutamente retrò nel comparto tecnico, quali ad esempio un’interfaccia “esplicita”, ossia ben visibile e facente parte integrante delle schermate di gioco (ad esempio in A Matter of Caos) o una risoluzione sgranata in pixel-art13, tipicamente 320×200 (ad esempio in A Landlord’s Dream). Al secondo filone sono riconducibili i punta-e-clicca che presentano un comparto tecnico/visuale più vicino alle produzioni recenti, talora con grafica pseudo-3D (ad esempio Shadows of the Vatican e Nicolas Eymerich inquisitore), ispirato a quelli della seconda metà degli Anni ’90, che possiamo definire “post-classici”, in quanto cronologicamente successivi e tecnologicamente innovativi rispetto all’epoca aurea. Fu una fase di sperimentazione di nuove idee creative e soluzioni tecniche, soprattutto anelanti al 3D (si pensi a Grim Fandango o The Longest Journey)14. Il terzo filone è invece comprensivo dei titoli che tentano di allentare la morsa del genere, costruendo la propria individualità con soluzioni estetiche o narrative tali da sfociare in esiti apparentemente più innovativi che nostalgici. È il caso, ad esempio, di Little Briar Rose, punta-e-clicca 2D la cui grafica emula vetrate colorate, e di Cursed Roots, in cui l’aspetto retrò e l’interfaccia esplicita da punta-e-clicca vecchia-maniera sono applicati all’horror a tempo in prima persona15. Di seguito vengono presentati tre studi di caso che aiutino a comprendere meglio alcuni dei concetti sinora abbozzati.
Filone nostalgico “tecnico”: il caso di Chronicle of Innsmouth
Chronicle of Innsmouth, sviluppato da PsychoDev e distribuito nel 2017 via Steam, ibrida la leggerezza alla Monkey Island con la pesantezza orrorifica lovecraftiana16. Il gioco è basato sul racconto The Shadow over Innsmouth di Lovecraft (1936), che riproduce fedelmente, con l’eccezione di alcune aggiunte funzionali alla creazione di un seguito17. Dotato di un’interfaccia esplicita, con menù sempre visibile e nove verbi, come lo erano i giochi basati sulla quarta versione del motore SCUMM18, Chronicle of Innsmouth presenta un anonimo protagonista esteticamente somigliante al Guybrush di The Secret of Monkey Island19. Una componente che mette subito a proprio agio i veterani delle avventure grafiche, facendoli sentire maggiormente ‘a casa’ rispetto allo spaesamento tipicamente ricercato da Lovecraft.
La citazione di The Secret of Monkey Island non è limitata all’interfaccia e alle sembianze del protagonista, estendendosi alle battute. Ad esempio, nel corso di un dialogo, parlando della ferrovia, il protagonista inspiegabilmente si esprime con un “Look behind you: a three-locomotive-train”, sbloccando il trofeo Quote-Unquote, in quanto corrispondente alla celebre affermazione guybrushana “Look behind you: a three-headed-monkey”. È inoltre possibile parlare con un cane, come avveniva in The Secret of Monkey Island, sbloccando il relativo trofeo. Ma non solo: al protagonista capiterà di esaminare dell’argenteria e dichiarare: “I’ve always hated silverware”, come fa Guybrush a proposito della porcellana nei vari episodi della saga. Anche l’arredamento di alcuni interni cita le avventure di LucasFilm Games e LucasArts, ad esempio tramite Chuck the Plant (oggetto inutile presente in alcuni giochi delle case suddette) e il palo totemico, che ricorda quelli sull’isola di Monkey Island. Inoltre, il personaggio del guardiano del faro può riportare alla mente la sentinella dell’isola di Melée Island. I limiti di giocabilità tipici dei giochi SCUMM v.4 si ritrovano in Chronicle of Innsmouth, risaltando specialmente nel corso di un enigma e di una sequenza di fuga: nel primo caso, il dover tener premuto un tasto del mouse più o meno a lungo è un’azione non immediata e potrebbe impedire a un giocatore di proseguire; nel secondo caso, invece, occorre agire velocemente per evitare il game over, ma non è agevole riuscirci con l’interfaccia SCUMM v.4, motivo per il quale le avventure classiche degli anni ’90 tendevano a evitare l’inserimento di limiti di tempo. La scomodità risiede nel fatto di dover compiere azioni rapidamente, ma assiemando col mouse serie di comandi, cliccando sui diversi elementi interagibili della schermata (interfaccia esplicita inclusa) sequenzialmente, invece che poter agire immediatamente attraverso combinazioni di tasti (come avviene nei giochi action, in cui il fattore temporale è spesso importante).
Questi limiti tecnici dell’interfaccia SCUMM v.4 furono superati compiutamente a partire dalla seconda metà degli Anni ’90, periodo nel quale i produttori di punta-e-clicca insistevano sia sulla semplificazione delle azioni (con un’interfaccia sempre più implicita) sia sul rinnovamento grafico, talora sfociante in un 2D stile-cartone animato (come in Broken Sword: The Shadow of the Templars, 1996, The Curse of Monkey Island, 1997, e anche Tony Tough and the Night of Roasted Moths, 1999, quest’ultimo di produzione italiana), talaltra in un 3D a fondali fissi (alias “2,5D” o “pseudo-3D”, come in Grim Fandango) o primordiale (come in Gabriel Knight 3: Blood of the Sacred, Blood of the Damned, 1999). I numerosi, spesso superflui, verbi a schermo accompagnati dall’inventario perennemente in vista lasciarono il posto a schermate più coinvolgenti, poiché interamente dedicate al mondo di gioco, senza più la barriera costituita dall’interfaccia. Il cursore divenne più ricco di funzioni e il mouse più sfruttato, consentendo di selezionare l’interazione desiderata non più a priori, bensì a posteriori, cioè una volta posizionatolo su un oggetto interagibile. Allo stesso modo, l’inventario divenne richiamabile tramite tastiera, o comprimibile in altri modi. Tecniche di questo tipo, riassumibili nell’etichetta di “interfaccia implicita”, contraddistinguono i giochi che abbiamo riconosciuto come appartenenti al secondo filone: seppur nostalgicamente densi nei confronti dei classici dal punto di vista “tematico”, dal punto di vista tecnico questi titoli se ne distanziano, prendendo a riferimento la seconda metà degli Anni ’90, come avviene per l’oggetto del nostro secondo studio di caso.
Filone nostalgico “tematicamente denso”: il caso di Detective Gallo
Tra i personaggi più carismatici delle avventure grafiche della seconda metà degli Anni ’90 si annovera Manny Calavera, protagonista di Grim Fandango, che, insieme al Ben di Full Throttle, ha funto da ispirazione per il protagonista di Detective Gallo (2018)20, il quale ha però un aspetto più disneyano21. Peraltro, sia Manny che Ben sono stati ideati da Tim Schafer, che gli sviluppatori indicano tra i propri game designer di riferimento. Per struttura diegetica e gameplay, Detective Gallo richiama un poco tutti i classici della LucasArts, come confermato dagli sviluppatori:
Monkey Island e Day of the Tentacle sono stati fra i primissimi titoli che hanno segnato la nostra storia di videogiocatori: ci hanno catturato nel profondo, generando in noi la vera e propria passione non solo per le avventure grafiche ma per i videogiochi in generale. È innegabile che senza queste avventure Detective Gallo non sarebbe nato […] in termini di gameplay e umorismo ci siamo ispirati all’intramontabile Monkey Island, lo stile grafico dei fondali richiama gli stupendi fondali distorti di Day of the Tentacle (chi ha detto Peter Chan?) e lo stile comico-investigativo strizza l’occhio a Sam & Max Hit the Road, che non a caso è un’avventura investigativa con dei personaggi antropomorfi come protagonisti (Footprints 2020).
L’influenza di questi titoli, più o meno esplicita nel corso dell’avventura, emerge prepotentemente in alcune sequenze, come: l’intero Obiettivo 8, citazione22 di Day of the Tentacle (LucasArts 1993); il viaggio onirico di Gallo, ispirato al Vortice del Mistero di Sam & Max Hit the Road (LucasArts 1993), il combattimento finale, che ricalca quello di Escape from Monkey Island (LucasArts 2000), sia perché il nemico ha una fisicità simile a quella dell’antagonista della saga di Monkey Island LeChuck sia perché i due contendenti sono a bordo di macchinari, come avveniva alla fine del gioco citato. Le citazioni dalla saga di Monkey Island sono numerose: il personaggio di Baby Teppista che, come il Guybrush di The Secret of Monkey Island, vuole diventare un pirata ed è irriverente come il Guybrush bambino di The Curse of Monkey Island; la domanda “Come vanno gli affari?” rivolgibile da Gallo, così come da Guybrush, ad alcuni commercianti; il mini-duello a insulti con la telecamera della discarica, che riprende i celebri scontri verbali di The Secret of Monkey Island e The Curse of Monkey Island; la regola #41 di Gallo “Non c’è limite alla larghezza di una banale tasca” riprende le domande rivolte a Guybrush in merito al contenuto dei suoi poppinsiani pantaloni; il discopub “Il coltello e la mannaia” è indiretta citazione dello “Scumm Bar” di Melée Island, con tanto di avventori poco raccomandabili, lampadario e gioco delle freccette.
Anelando a una difficile sintesi fra tradizione e innovazione, non sono stati molti i titoli capaci di traghettare il genere punta-e-clicca nel nuovo millennio, col risultato che si è preso sempre più a parlare di “avventure grafiche”, a indicare i discendenti di un genere morente23 la cui giocabilità diveniva sempre meno soddisfacente per il grande pubblico: alcune famose saghe conobbero gravi difficoltà a implementare sequel in 3D (ad esempio quella di Simon the Sorcerer e quella di Leisure Suit Larry); altre semplicemente si estinsero (ad esempio Gabriel Knight e King’s Quest); per quanto riguarda l’Italia, i titoli di Artematica ispirati a personaggi dei fumetti (Druuna, Martin Mystère, Diabolik…) furono generalmente bocciati dalla critica.
Senza dilungarci, non possiamo esimerci dal segnalare come in questo periodo di generale moria dei punta-e-clicca alcuni sviluppatori si siano imposti all’attenzione del pubblico con titoli che, seppur non rivoluzionari, hanno spiccato per qualità del comparto tecnico e solidità diegetica. Il primo esempio in ordine cronologico che ci pare etichettabile come “punta-e-clicca del nuovo millennio”, ossia segnante la transizione dal genere originario verso le “storie interattive” e i walking simulators che hanno imperversato nella decade successiva, è il gioco in prima persona Post Mortem (Microïds 2002), rilasciato pochi mesi dopo il successo commerciale Syberia24, degli stessi sviluppatori. Interessante notare che i suoi sequel (Still Life, 2005 e Still Life 2, 2009) sono invece in terza persona (come i titoli della saga di Syberia). La strada della visuale in prima persona fu percorsa anche da Frogwares con Sherlock Holmes: The Awakened del 2007, che riscosse un buon successo. Significativo che il 3D sia stato invece abbandonato in Machinarium (Amanita Design, 2009). Proprio questo ritorno al 2D ci introduce al terzo studio di caso.
Filone nostalgico “tematicamente rarefatto”: il caso di The Wardrobe
The Wardrobe presenta una forte innovatività, espressa innanzitutto nella grafica e in secondo luogo nella narrazione. La prima è fumettistica, con fondali iper-dettagliati e segnati da un horror vacui dichiaratamente citazionistico: “la nostra scelta è stata appunto quella di cercare di avvicinare il genere anche a un pubblico più giovane e mainstream. Il citazionismo […] ci è sembrata la soluzione ideale”, hanno spiegato gli sviluppatori (C.I.N.I.C. Games, 2020). La seconda riprende25 specularmente quella dei vari capitoli della saga di Monkey Island, con la differenza che in questo caso è il protagonista a essere un non-morto, mentre suo fratello vive.
A proposito del protagonista, è interessante la scelta degli sviluppatori di conferirgli una personalità caustica, che non manca di dileggiare il giocatore qualora compia tentativi inesatti nella risoluzione degli enigmi. Generalmente, infatti, nei punta-e-clicca si cerca di far immedesimare il giocatore in un personaggio accattivante o almeno simpatico. Il fatto che il gioco sia comunque godibile dimostra l’ottima cesellatura diegetica dello stesso, attraversando alcuni topoi (in senso anche letterale) della LucasArts, quali la magione multipiano, il faro, la palude, il cimitero e la spiaggia. Quest’assimilazione della struttura concettuale dei punta-e-clicca classici è stata riconosciuta dagli sviluppatori intervistati: “The Wardrobe nasce in primis per nostro bisogno personale, da videogiocatori di avventure grafiche che sono cresciuti e hanno amato tutti i grandi classici del genere. Senza questa passione The Wardrobe non sarebbe neppure mai stato concepito” (C.I.N.I.C. Games, 2020).
Il protagonista è uno scheletro animato come quelli di Grim Fandango (1998)26, dai quali differisce solo per il fatto di essere un bambino. Fin dall’inizio del gioco viene istituito un parallelo citazionistico tra Skinny e Manny, simili anche nel nome, con battute di spirito riguardanti la mancanza di organi e un sistema nervoso a essi collegato: quando Skinny usa la metafora dell’orticaria, il tappeto a pelle d’orso, animandosi, gli fa notare che gli manca la pelle. Sempre nella prima parte del gioco compare una curiosa macchia che ricorda vagamente il profilo di Sigmund Freud, forse per citare il palloncino a forma di profilo facciale del neurologo austriaco che Manny utilizzava in Grim Fandango per spaventare dei piccioni. Inoltre, similmente al capolavoro schaferiano, The Wardrobe è incentrato sul tema della morte, permeato da un macabro cinismo, spesso sfocia nell’horror visivo e, quando non lo fa, si tiene sul grottesco.
Una cifra stilistica che ha contraddistinto tutte le avventure grafiche di maggior successo della LucasArts, le quali però difficilmente hanno raggiunto gli estremi di The Wardrobe. Come i primi due oggetti degli studi di caso illustrati, probabilmente nemmeno The Wardrobe esisterebbe o sarebbe concepibile senza Monkey Island: qui di seguito ne considereremo dapprima i macro-elementi citazionistici (in parte già accennati), per poi percorrere quelli micro-citazionistici, ossia inerenti a meccaniche di gioco ed elementi scenografici. Dal punto di vista macroscopico, osserviamo innanzitutto come il concept, la storia di due fratelli divisi dalla morte di uno dei due, derivi da quello di Monkey Island, in cui Guybrush e la sua nemesi LeChuck sono fratelli: la differenza è che qui il morto è il “buono”, mentre nella storia di Ron Gilbert il trapassato era invece il malvagio. Inoltre, si riscontra una similarità anche nella struttura narrativa, per la quale l’eroe è da solo per la quasi totalità dell’avventura e rincontra il fratello alla fine della stessa, apparendo ricalcata sulle odissee di Guybrush, il cui punto d’arrivo è sempre il fratello LeChuck. Infine, la topologia del gioco, per la quale ci si muove tramite una mappa da un luogo all’altro, somiglia a quella dei vari capitoli di Monkey Island.
A livello macroscopico-topologico, da segnalare anche come la casa in cui si muove il protagonista nella prima parte del gioco possa ricordare la mansion di Day of the Tentacle (1993)27. Spostandoci al livello microscopico, ritroviamo molti elementi di Monkey Island (1990-2000): il duello a insulti col guardiano del museo è citazione diretta (come confermatoci dagli autori) delle schermaglie verbali tra Guybrush e i suoi rivali nei capitoli della saga primo e terzo; allo stesso modo, gli autori ci hanno spiegato (C.I.N.I.C. Games, 2020) di aver voluto citare il secondo capitolo della saga piratesca inserendo nel gioco il rituale connesso alla bambola voodoo. Oltre ad altri elementi, quali bara, cripta e bandiera dei pirati che rimandano lascamente ai giochi su Guybrush, ulteriori citazioni esplicite del capolavoro LucasArts si riscontrano nel distributore di Grog (la bevanda più amata dai pirati della saga di Monkey Island), il “pollo con una carrucola in mezzo” (elemento divenuto identificativo dell’epica corsara LucasArts), un poster di Monkey Island nella sala dei programmatori durante il trip da pillola rossa e una X sul pavimento (citazione della X segna-tesoro di Monkey Island, a sua volta citazione di Indiana Jones and the Last Crusade). Ben presente anche il summenzionato Day of the Tentacle (1993), al quale troviamo numerosi riferimenti a livello microscopico: il quadro dei cani che giocano a poker, i tentacoli viola nel frigorifero, il ragazzino travestito da Purple Tentacle e il poster di quest’ultimo nella sala degli sviluppatori durante il trip da pillola rossa, fino ad altri più discreti e meno univocamente correlabili (il criceto, il forno a microonde, la mummia e la dentiera).
Infine, è citato anche Sam and Max Hit the Road (1993), del quale abbiamo colto due riferimenti, uno orale (la battuta di Sam “Trattasi di oggetto completamente inutile”) e uno grafico (un poster di Max nella stanza degli sviluppatori). Non mancano inoltre le citazioni di videogiochi di generi diversi (Super Mario, Pokémon e molti altri), oltre che di personaggi e oggetti iconici della cultura pop, sia videoludica sia audiovisiva, secondo quella che potremmo definire una “operazione nostalgia a tutto campo”. Questo terzo caso esemplifica come anche i punta-e-clicca più recenti e innovativi tendano a inserirsi nel solco della tradizione, a dimostrazione di una “nostalgia” e un interesse per il passato “classico” mai sopiti, per quanto declinati in forme tra loro possibilmente diverse, in particolar modo nel comparto tecnico. Ogni sviluppatore di punta-e-clicca sembra aver ben presenti i canoni tematici, diegetici ed estetici stabiliti dai classici degli Anni Novanta, LucasArts su tutti, che rielabora in base alla propria sensibilità, ma anche tenendo conto delle necessità commerciali. È auspicabile che nei prossimi anni siano condotte ulteriori ricerche, al fine di monitorare gli sviluppi del recupero nostalgico nel punta-e-clicca, inserendolo in un contesto più ampio, sull’esame del ruolo della nostalgia nella formazione del prodotto videoludico italiano ed effettuando un aggiornamento dei titoli considerati.
Riferimenti
- Accordi Rickards, M., 2018, Manuale di critica videoludica, Unicopli, Milano.
- Arsenault, D., 2009, Video Game Genre, Evolution and Innovation, «Eludamos», 3, 2, pp. pp. 149-176.
- Babich, A., 2004, Il retrogaming e la preservazione digitale dei videogames, in M. Bittanti (a cura di), Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare. Nuova edizione ampliata ed aggiornata, Unicopli, Milano,pp. 197-238.
- Barbieri, S., 2019, Glossario dei videogiochi. La lingua videoludica fra produzione, economia e gioco, Unicopli, Milano.
- Berens, K., Howard, G., 2002, The Rough Guide to Videogames, London, Rough Guides.
- Boym, S. 2001, The Future of Nostalgia, Basic Books, New York.
- Caillois, R., 1967, Les jeux e les hommes, Gallimard, Paris.
- Cati, A., 2013, Immagini della memoria. Teorie e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari, Mimesis, Milano-Udine.
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Note
- Come gli studi di Bernard Perron (2009 e 2018) sul genere horror, peraltro già segnalati da Klevjer come positiva eccezione. ↩︎
- Come peraltro ricorda Bernard Perron, gli elementi che convenzionalmente vanno a definire un genere per un gruppo di fruitori risaltano spesso più per la loro assenza che per la loro presenza, quando non sono inserite nei videogiochi in cui ci si aspetterebbe di trovarne traccia (2013, pp. 79-80). ↩︎
- Si noti, peraltro, la sua distinzione fra avventure dinamiche, grafiche, iconiche, semigrafiche e testuali, indicativa di una fase di assestamento in cui si oscilla fra la permanenza in una etichetta più ampia e la superfetazione di classificazioni poi ricondotte a un numero inferiore di varianti. ↩︎
- “Tipologia di videogioco nato come evoluzione della text adventure; in tale genere videoludico, su immagini solitamente statiche a schermo, si muovono i personaggi controllati dall’utente; il videogiocatore solitamente interagisce col gioco cliccando su elementi (oggetti, personaggi o altri) presenti sullo schermo, aggiungendo a tale azione degli input accessibili e intuitivi, anch’essi presenti a schermo di solito con icone, scritte o abbreviazioni” (Barbieri 2019, p. 100). Il punta-e-clicca, indicato come sinonimo dell’avventura grafica, è invece descritto così: “gioco formato solitamente da una serie di immagini statiche, sulle quali muove si il personaggio controllato dal giocatore e, accanto a questo, si trovano altri elementi (oggetti o personaggi), coi quali il giocatore può interagire; l’interazione avviene tramite il cliccare su tali elementi, in combinazione o meno con degli input, di solito presenti a schermo nella forma di icone, scritte o abbreviazioni” (Ivi, p. 159). ↩︎
- Quest’ultimo prima recupera le definizioni di Berens e Howard (2002)—che riassume così: “avventure grafiche: il giocatore viene calato in ambientazioni dove risolvere enigmi e interagire con altri personaggi tramite un’interfaccia punta-e-clicca” (Accordi Rickards 2018, p. 132)—sostenendo poi che “non si può più parlare di generi, pena lasciarsi soverchiare dalle infinite sfaccettature di un oggetto polimorfo quale il videogioco” (Ivi, p. 139), ma non approfondisce una proposta alternativa, dopo questa breve pars destruens. ↩︎
- “Esistono adventure ‘punta-e-clicca’, costruiti su una narrazione a enigmi, come quelli della celebre serie di Monkey Island. Molto simile a questi ultimi è anche una nuova tipologia legata alle sperimentazioni sugli audiovisivi interattivi basata sulla pressione ritmica di tasti per far progredire l’azione, titoli come Heavy Rain o The Walking Dead appartengono a quest’ultima categoria” (Salvador 2013, p. 32, corsivi dell’autore). ↩︎
- Per ragioni di brevità viene qui considerato solo il termine “nostalgia”, ma sarebbe utile estendere l’analisi anche a termini di tradizioni differenti—come il portoghese saudade e il giapponese natsukashii—che non sono perfettamente sovrapponibili (Farese, Asano-Cavanagh 2019). ↩︎
- La prevalenza, ovviamente, non comporta l’esclusività, poiché esistono anche forme piacevoli di nostalgia (soprattutto se si considera il termine natsukashii, una sorta di nostalgia positiva che infatti non è completamente sovrapponibile, si vedan per esempio Napier 2000, pp. 220-225; Swale 2015), ma indica quella che almeno nel contesto occidentale appare largamente maggioritaria. ↩︎
- Con videogioco indie solitamente non si intendono soltanto i videogiochi privi di un publisher—e molti dei casi considerati ne sono privi—ma anche dei prodotti realizzati con un costo inferiore rispetto alle grandi produzioni, che magari seguono una certa vena ‘autoriale’ o si rivolgono a specifiche nicchie. Tutte le definizioni fornite sono scivolose e non univoche, perché si appellano spesso a una sorta di “indie spirit” (Diver, 2016, p. 19) non meglio definibile o spingono su una sola fra le caratteristiche possibili. Come sottolineato per esempio da Paolo Ruffino (2013) sono definizioni vaghe, imprecise, a tratti quasi misticheggianti, ma non esistono soluzioni semplici. La posizione più ragionevole sembra allora quella di considerare l’indie come un gradiente, un continuum rinegoziabile (Pedercini, 2012), per dare un minimo senso definitorio senza costruire confini troppo netti e rigidi. ↩︎
- Il team di sviluppo è svizzero, ma considerando le presentazioni del videogioco in Italia e la presenza dell’italiano come lingua di gioco fin dall’inizio, può essere considerato equiparabile agli altri casi qui riportati. ↩︎
- I riferimenti a commenti e spiegazioni da parte degli sviluppatori sono tratti da interviste realizzate dagli autori rispettivamente a PsychoDev (2020) per Chronicle of Innsmouth, Footprints (2020) per Detective Gallo e C.I.N.I.C. Games (2020) per The Wardrobe. ↩︎
- Da The Secret of Monkey Island (1990) a Full Throttle (1995), entrambi titoli della LucasArts. ↩︎
- La pixel-art è uno degli elementi tecnici del recupero nostalgico dei punta-e-clicca proprio perché i punta-e-clicca classici furono realizzati con tale tecnica, per la quale ogni pixel dev’essere cromaticamente ben progettato, onde ottenere un effetto gradevole nella visualizzazione d’insieme. ↩︎
- Grim Fandango (LucasArts, 1998), creato da Tim Schafer, già autore di Full Throttle (1995) e coautore di Day of the Tentacle (1993), spicca sia per l’originalità della trama sia per l’applicazione del 3D a un genere poco avvezzogli, oltre che per i controlli, affidati interamente alla tastiera (sebbene Grim Fandango non preveda l’uso del mouse, la sua interagibilità e il suo gameplay sono talmente simili ai punta-e-clicca precedenti che nel 2014 fu sviluppata una mod atta ad aggiungervi l’interfaccia-cursore). The Longest Journey (Funcom, 1999) presenta una veste grafica sofisticata e un uso convincente del 3D, oltre a una protagonista carismatica ↩︎
- È importante precisare come il punta-e-clicca degli Anni Novanta (ma non quello della decade precedente) fosse l’esatto opposto del gioco a tempo, dovendo gran parte del suo successo proprio ai ritmi rilassati che lo definivano. ↩︎
- “L’idea iniziale era provare a trattare Lovecraft come avrebbe fatto la Lucas” ha spiegato uno degli sviluppatori (PsychoDev, 2020). ↩︎
- “Lone non è stato forzato ad essere il protagonista del secondo ma, pensando al seguito, l’ho inserito nel primo” ha spiegato uno degli sviluppatori, interpellato su un inedito personaggio presente nel gioco (PsychoDev, 2020). ↩︎
- SCUMM è acronimo di Script Creation Utility for Maniac Mansion. Maniac Mansion (1987, LucasFilm Games) fu il primo gioco a usare tale motore, che sarebbe poi rimasto in auge fino al 1997, data di pubblicazione di The Curse of Monkey Island, ultimo titolo ad avvalersene. ↩︎
- “Ho imparato la pixel art copiando tanti e tanti sprite della Lucas e la cosa è venuta un po’ da sé” ha spiegato uno degli sviluppatori. ↩︎
- Come hanno spiegato gli sviluppatori, due altri personaggi, ma da giochi non punta-e-clicca, che hanno contribuito al design del protagonista sono stati Tex Murphy (protagonista delle avventure grafiche di Access Software) e Sly Boots (da Anachronox: Ion Storm, 2001). ↩︎
- Ci hanno spiegato gli sviluppatori: “lo stile grafico dei personaggi richiama in generale i paperi della Disney, nello specifico la serie tradizionale Duck Tales. La grafica di ispirazione disneyana ci piaceva particolarmente per parodizzare il genere noir” (Footprints 2020). ↩︎
- Forse involontaria, dato che gli sviluppatori la definiscono una “coincidenza”. Tuttavia, a chi scrive sembra comunque significativo che gli alieni siano ricalcati sui tentacoli che volevano conquistare il mondo, così come la somiglianza tra la necessità di mascherarsi per sventarne il piano, identicamente a quanto doveva fare Laverne in Day of the Tentacle. ↩︎
- Un declino di cui testimoniano le chiusure dei colossi LucasArts (1982-2012, fondata come LucasFilm Games) e Sierra Entertainment (1979-2008, fondata come On-Line Systems). ↩︎
- Syberia è un titolo tecnicamente legato alle modalità della seconda metà degli Anni ’90, e quindi considerabile ancora un punta-e-clicca a tutti gli effetti. ↩︎
- Seppure, a detta degli autori, “involontariamente”. Gli sviluppatori intervistati hanno riconosciuto come uniche citazioni consapevoli da Monkey Island la gara d’insulti e l’enigma della bambola voodoo. ↩︎
- In una scena, minacciando il pittore Manet, il protagonista dichiara di essere “Manny Calavera”, protagonista appunto di Grim Fandango. Curioso come tale titolo non sia menzionato nella descrizione del gioco su Steam, che recita: “Inspired by the great ‘90s classics such as ‘Monkey Island’, ‘Day of the Tentacle’, ‘Tony Tough’ and ‘Sam & Max: Hit the Road’, ‘The Wardrobe’ has a strong sense of humour, but isn’t shy about dealing with mature and non-politically correct themes”. ↩︎
- Meno quella di Maniac Mansion, per questioni grafiche. ↩︎