La prossima generazione di console, grazie all’aumentata potenza di calcolo e a nuovi strumenti di sviluppo di facile utilizzo come il MetaHuman Creator di Epic, sarà la prima a proporre sin dall’inizio paesaggi e personaggi fotorealistici. È la fine di una lunga rincorsa, di un percorso entusiasmante segnato a più riprese da momenti di grande ingenuità: quante volte abbiamo letto descrivere come fotorealistici modelli poligonali parecchio approssimativi o tramonti che oggi definiremmo piuttosto vaporwave?
La cosa che avremmo dovuto fare: dubitare che chi scriveva avesse mai visto una fotografia. La cosa che quasi sempre facevamo: illuderci che sì, il fotorealismo fosse quello, o quantomeno fosse ormai a un passo, perché avevamo troppa voglia di provare quell’esperienza. Ci sarebbero voluti invece altri quindici o vent’anni, ma ora che finalmente ci siamo la domanda è: ne valeva la pena?
Non credo che la risposta possa essere semplicemente un sì o un no. Non era immotivato quel desiderio, ma nemmeno sembra un gran traguardo vederlo esaudito: è solo passato del tempo. Il valore che davamo a quella tanto agognata esperienza si è ridotto progressivamente, e abbiamo faticato ad accorgercene mentre stava accadendo; mentre cioè internet arrivava ad aprire nelle case di tutto il mondo un rubinetto di immagini.
Ancora alla fine degli anni Novanta era tutt’altro che immediato sapere quale fosse l’aspetto di un personaggio storico, di una celebrità o di una località famosa nel mondo: si cercavano fotografie su riviste, libri o enciclopedie, si ricevevano cartoline da parenti o amici in vacanza. Così arrivavano le immagini, e sembra di parlare della preistoria. Era naturale, allora, giocare il primo Gran Turismo del 1997 e desiderare che avesse l’aspetto del Gran Turismo 7 del 2021. Oggi però le immagini sono in sovrabbondanza: l’infine scrolling di Instagram sembra davvero infinito, e su Youtube vengono caricate ogni minuto 500 ore di contenuti.
Pur potendo adesso girare in città virtuali con pozzanghere fantastiche dove l’acqua si muove in modo realistico quando ci si cammina dentro, e in cui le luci si riflettono dinamicamente e alla perfezione grazie al Ray Tracing, non resta solo quel vecchio dubbio, vale a dire poter trovare una pozzanghera all’altezza semplicemente uscendo di casa in un giorno di pioggia, ma occorre anche fare i conti con quel sovraccarico informativo rappresentato, solo su Flickr, da più di 406.000 immagini di pozzanghere.
Il fotorealismo videoludico si trova insomma di fronte allo stesso problema posto alla pittura dalla fotografia all’inizio del Novecento; la pittura, com’è noto, non accettò la competizione con quegli scatti così fedeli alla realtà, e nacquero le avanguardie dell’astrattismo, del cubismo, del futurismo. Anche i videogiochi, di fronte all’odierna proliferazione di immagini, dovrebbero allora iniziare a seguire un’altra strada: mostrare qualcosa di unico, proporre spazi impensabili nella realtà.
Diversi titoli hanno già indicato alcune direzioni interessanti. Sono senz’altro da citare gli scenari onirici e i giochi prospettici di Superliminal, così come le ripetizioni ricorsive di Maquette; ma nessuno si è ancora spinto tanto in là quanto Manifold Garden, dal mese scorso disponibile anche per PlayStation 5. Lo ha ideato William Chyr, che prima di dedicarsi allo sviluppo di videogiochi faceva il fisico, lavorando anche in Italia presso la sede di Legnaro dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Il gioco si propone subito come esperienziale, rinunciando a presentare una storia o una premessa o anche solamente un contesto: il giocatore inizia a muoversi all’interno di una struttura dove trova i primi puzzle da affrontare, che quasi sempre consistono nel prendere un cubo e nell’andare a collocarlo nella posizione corretta. A William Chyr, evidentemente, Portal è piaciuto molto, ma la sua è un’opera molto diversa. In Manifold Garden i cubi non mancano, però non ci sono portali, solo spazi impossibili e dalle proprietà parecchio interessanti.
Il giocatore innanzitutto ha la possibilità di cambiare in qualsiasi momento la gravità spostandosi da un piano all’altro. L’idea, come racconta William Chyr nel suo intervento alla Game Developers Conference del 2016, deriva dalla scena di Inception di Christopher Nolan in cui, all’interno di un sogno, la città di Parigi si piega su sé stessa. William Chyr ha subito pensato che potesse essere una buona meccanica di gioco, e si è chiesto: in che direzione cadrebbe un oggetto in una situazione del genere?
La risposta, in Manifold Garden, è che tutto si comporta in accordo con la gravità del piano su cui si trova: perciò ogni cubo sarà maneggiabile dal giocatore solo mentre si trova sul suo stesso piano; e con una soluzione molto elegante, per aiutare a orientarsi e a capire quali oggetti sono di volta in volta attivi, ogni piano è contrassegnato da un colore diverso.
Come in Portal, una suddivisione in stanze assicura al giocatore di avere sempre tutti gli elementi necessari alla soluzione di un rompicapo. Cambia invece l’approccio al gameplay: Manifold Garden non richiede alcun tempismo e nemmeno una grande precisione per risolvere i puzzle. L’esecuzione è sempre triviale; arrivare alla soluzione lo è invece molto meno. Quasi sempre si scopre che la soluzione poteva essere trovata cambiando gravità e adottando un diverso punto di vista, e vale qui la pena notare la profondità metaforica di una simile meccanica di gioco.
Spesso se si resta bloccati la tentazione è quella di cedere alla frenesia e alla frustrazione, iniziando a cambiare gravità in continuazione. Non solo può causare un discreto mal di testa, ma è un errore: quando si passa su un piano diverso e si adotta un nuovo punto di vista è bene prendersi del tempo per capire quali nuove opportunità si sono svelate, e di nuovo Manifold Garden sembra un maestro di vita più che un gioco.
La caratteristica più sbalorditiva di Manifold Garden è però un’altra ancora, e la sua storia merita di essere raccontata. William Chyr a un certo punto dello sviluppo si è ritrovato con una serie di puzzle tutti in ambienti chiusi molto uniformi e privi di profondità, e ha deciso di ovviare al problema inserendo delle finestre. Le finestre però ponevano a loro volta problemi: i giocatori in fase di test iniziavano ad aver voglia di uscire all’esterno, e lo stesso William Chyr, facendo sua la filosofia di design di Skyrim, voleva che qualsiasi luogo fosse visibile fosse anche raggiungibile.
Per raggiungere questo obiettivo, lo spazio di Manifold Garden ha preso una forma decisamente particolare, che ha importanti ripercussioni sul design e sulle meccaniche di gioco. In realtà anche vecchi titoli come Asteroids, l’arcade di Atari del 1979, presentano spazi particolari: qualcuno ricorderà come l’astronave controllata dal giocatore potesse uscire dallo schermo in alto per riapparire in basso e viceversa, e come la stessa cosa accadesse ai lati destro e sinistro. Lo spazio di Asteroids era dunque toroidale, ovvero a forma di ciambella.
Manifold Garden fa la stessa cosa in 3D, e la forma che assume il suo spazio è praticamente impossibile da concepire esternamente. È noto come la matematica tenda a far sembrare persino banale il pensiero di spazi a più dimensioni. Se uno spazio in 3D ha le tre coordinate x, y, z, uno spazio in quattro dimensioni avrà x, y, z, w, e per immaginare spazi di cinque, sei, ennesime dimensioni basterà aggiungere le lettere necessarie. Visualizzare simili spazi è invece parecchio più complicato.
Il gioco di William Chyr, pieno peraltro di ambienti impossibili e assai strani ispirati alle illustrazioni di Escher e ai racconti di Borges, permette di visualizzare l’aspetto di uno spazio tridimensionale avvolto su se stesso; o meglio, restituisce l’impressione che farebbe osservarlo dall’interno: apparirebbe infinito. In Manifold Garden spesso ci si affaccia su paesaggi e strutture immense e dal notevole colpo d’occhio che si ripetono senza fine. Ci si butta nel vuoto e si torna al punto di partenza, e perciò non si può morire, non si può perdere, non ci sono fail state.
Ora, parlare di infinito crea sempre qualche grattacapo. Cos’è, infatti, l’infinito? È qualcosa di reale, in cui siamo immersi, che riguarda l’infinita estensione dell’universo e l’interminabile divisibilità della materia? Oppure è solamente un’idea, un pensiero, un concetto legato alla matematica? L’infinito è necessariamente ripetizione? Aveva ragione Aristotele a rifiutare di identificarlo col tutto, e a scrivere che l’infinito “non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa”? Ha senso concepire l’esistenza di infiniti più grandi o più piccoli di altri, come ad esempio la sequenza di tutti i numeri e la sequenza di tutti i numeri pari? Soprattutto, l’infinito è pensabile?
Leopardi nello Zibaldone sosteneva che si potesse in realtà pensare solamente all’indefinito: “neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie di infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito; non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, una impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea”. Leopardi si sbagliava: Manifold Garden dimostra che l’infinito può essere non solo immaginato, ma persino visualizzato e sperimentato.