Sappiamo che la forma delle cose non corrisponde alla loro natura. La buonanima del nano Brok lo ripete più volte nel corso di God of War: Ragnarök, e alla fine se ne convince persino Kratos. D’altra parte anche Atreus, adolescente, tende a mentire, ossia a mutare i fatti in finzione, e a cambiare spesso forma (orso, lupo, spartano, gigante). Se Atreus è Loki (o Loki è Atreus?), la sua vera natura non può che manifestarsi nell’instabilità, nel moto perpetuo, nella migrazione.
Che forma e natura siano cose distinte è molto vero per il mito, pure. Canonizzato, costretto in forma fissa e immutabile, il mito muore: quante versioni di Thor, Odino, Zeus, Arianna, Teseo e Ulisse conosciamo? Il mito deve cambiare, trasformarsi e contraddirsi, per poter essere raccontato ancora e ancora, a persone diverse, a un pubblico nuovo, com’era stato per il God of War del 2018.
Al contrario, la vera natura di un videogioco è assolutamente nella sua forma, nella chimera del gameplay, in cui meccaniche di gioco e narrativa misteriosamente si incrociano e si mescolano come nebbie di Niflheim e fuochi di Muspelheim ai confini dei regni.
E allora qual è la forma di God of War: Ragnarök? Se il God of War del 2018 era poesia, cioè intensità nella sua relativa brevità, Ragnarök è romanzo, prosa e coralità, abbondanza, incoerenza, tendenza a infinito. Nel bene e nel male.
God of War: Ragnarök rifiuta la stanca formula dell’open world, ravvivata di recente dall’approccio ermetico di Elden Ring, e insiste sul wide linear del capitolo del 2018: esplorazione aperta ma limitata, che non sacrifica troppo il ritmo del racconto come accade invece in un mondo completamente aperto.
In Ragnarök però questo modello viene ingrandito e diluito a dismisura, moltiplicando quest secondarie, boss opzionali e collezionabili. Una dimostrazione muscolare che porta il wide linear al collasso, quasi sul confine con l’open world in almeno una circostanza, verso la fine, in un’area secondaria di Vanaheim che richiede diverse ore di esplorazione per essere completata.
Come in un romanzo che tende al romanzo-mondo, Ragnarök aggiunge strati su strati di racconto, perde pezzi per strada, li recupera, poi li perde e basta, con conseguenti cali di ritmo e di tono (più che di FPS). È possibile che questi scricchiolii nella disposizione narrativa del gioco siano dovuti alla compressione in un solo titolo di quello che era il materiale per due capitoli, o che sia stato il cambio di direzione (da Cory Barlog, rimasto in produzione, a Eric Williams) a rendere tutto più instabile. Oppure, più semplicemente, il fatto è che nell’episodio del 2018 l’intensità nella brevità non lasciava il tempo di fermarsi ad analizzare razionalmente le parti meno riuscite, che pure c’erano.
Già allora l’uccisione di Baldur nel finale poteva apparire forzata, benché necessaria (se fato e sceneggiatura corrispondono): Kratos e Atreus la portavano a termine parlando di “essere migliori di così” senza interrogarsi neppure un istante sulle conseguenze che quel gesto avrebbe comportato per la povera Freya, madre del più amato tra gli Aesir. In quel caso però lo stridore non arrivava se non a una seconda o terza run, a mente insomma freddissima, tale era l’intensità degli eventi giocati; così come a un primo approccio non si percepiva la debolezza di aver per lo più detto, invece che mostrato, il rapporto tra Kratos, Faye e la profezia dei Jötunn, date le suggestioni che provenivano dal maneggiare per la prima volta la cosmogonia norrena.
In Ragnarök tutto viene invece mostrato, detto e stradetto più volte. Non si tratta di ripetizione ma di un eccesso di esposizione: quanto più mostrerai e dirai, tanto più io vorrò sapere perché, soppesando caratterizzazione e motivazioni di ogni singolo personaggio; e tanto meno mi lascerò incantare, finendo col notare incoerenze e momenti più deboli, con la netta sensazione, qui e lì, che le cose vadano in un certo verso perché così è scritto sul copione da un deus ex machina o dalle Norne (se fato e sceneggiatura corrispondono, ancora).
Così la maschera di Odino si rivela poco più che un MacGuffin, una scusa per portare Atreus in giro per i regni con questo o quell’altro asgardiano, e tutti i discorsi sull’inevitabilità del fato si sciolgono in un finale tanto epico lato gameplay quanto svelto e frettoloso nel tentativo di riannodare i molteplici fili del racconto.
E tuttavia, tenendo fede all’assunto per cui la forma è la vera e unica natura del videogioco, Ragnarök recupera proprio quando è puro gameplay, con un combat system rifinito rispetto al 2018 e un level design sempre appagante; quando le due cose si combinano, il motore di Ragnarök sale di giri e diverte, letteralmente trattiene a sé, verso le sue storie, piccole o grandi che siano. Soprattutto il combat system di Kratos, più di quello di Atreus, riesce a comunicare e a raccontare tutta l’epicità e la tragedia di cui questa serie ha bisogno.
Quando Atreus torna dalla sua prima fuga a Jötunheim e noi torniamo nei panni di suo padre a maciullare nemici su Midgard, proviamo la stessa rabbia e la stessa delusione di Kratos, sentiamo cosa opprime Atreus, sentiamo il senso di libertà ma anche di tradimento che ogni adolescente accarezza nei primi allontanamenti da casa, disposto a qualsiasi cosa pur di mantenere l’autonomia appena conquistata; sentiamo quella ferita che conosciamo prima da giovani—magari proprio quando ci rifugiavamo in una pericolosissima sala giochi disobbedendo alle raccomandazioni paterne—e poi da adulti, quando scopriamo che parte del percorso di crescita di un ragazzino consiste nell’abbandonarci, nel non seguire le tracce di un sentiero apparentemente sicuro.
Va detto che anche stavolta, come nel 2018, Santa Monica Studio guarda al lavoro fatto da Naughty Dog con The Last of Us. Se il primo God of War mutuava da TLOU il rapporto adulto/bambino (e lo migliorava nella resa complessiva del gameplay), qui riprende da Part II lo stare nei panni degli altri. Lo fa in modo sfacciato quando passeggiamo con Atreus e Odino per le strade di Asgard (com’era con Abby nell’accampamento del Washington Liberation Front), in modo decisamente più personale e riuscito quando comprendiamo che lo stare dall’altro lato non equivale qui a interpretare il nemico (per quanto anche Thor sia reso prossimo e umano ai nostri occhi), ma nell’alternare i punti di vista di padre e figlio. Tutto sommato sono e restano loro, Kratos e Atreus, i poli della questione. Non c’è altro: come doveva essere.
Come doveva essere, ma non è stato fino in fondo. Perché la profezia dei giganti non si avvera del tutto, nonostante sia già accaduta nel futuro inverando il presente (ne sa qualcosa Jormungandr, gigantesco Serpente del Mondo). E allora un Kratos più responsabile può sopravvivere a sé stesso ed evolvere in ciò che Odino—del tutto simile a un mafioso piuttosto ruffiano, ma con tantissimo stile—non ha saputo essere.
Chiede Odino a Kratos: “Che ne sai tu del divino? Di cosa vuol dire essere venerato dai mortali, del dover dare delle risposte ai mortali quando anche tu ne cerchi da sempre?”.
Kratos sa che Odino sta mentendo e resta muto in quello che sarebbe potuto diventare un nuovo capitolo dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (dove pure era presente un Cratos con la C, a ben guardare). La verità è che Odino ha sempre cercato conoscenza e vita eterna per sé e mai per gli altri, neppure per la sua famiglia; mentre alla fine proprio Kratos, fuggito al Nord per tornare a vivere da semplice uomo, si trova a fare i conti con la possibilità di essere un dio, di prendersi cura dei mortali, di sistemare le cose per gli altri come ha fatto con Freya.
Ma non tutto si sistema: non tutto, neppure nel corposo endgame dopo il Ragnarök, può essere aggiustato. Tra le criticità di questo God of War come di altri blockbuster “adulti” c’è il rapporto molto fragile con la distruzione che i protagonisti di queste storie si portano appresso. Razionalmente, anche una serie come The Last of Us incespica nel momento in cui i personaggi verso cui siamo chiamati a provare empatia sono gli stessi che hanno alle spalle improbabili scie di sangue, perlomeno in termini quantitativi—sto facendo di tutto per non pronunciare quella bestemmia, ossia dissonanza ludonarrativa, ma ecco che ho fallito.
In God of War, per quanto il fantasy possa tenere lontana ogni pretesa di realismo, abbiamo comunque a che fare con personaggi che dovrebbero riuscire a risultare verosimilmente profondi anche dopo aver distrutto e devastato diverse vite altrui senza colpo ferire, o comunque soffrendo meno di quanto ci aspetteremmo; ebbene, in Ragnarök c’è almeno un arco narrativo in cui le cose non tornano al proprio posto e le ingiustizie e le sofferenze restano senza riparazione—al massimo assistiamo al compimento di un’inutile vendetta.
È il caso dei fratelli Huldra, con la morte di Brok, il dolore di suo fratello Sindri e la rabbia di quest’ultimo verso Kratos e Atreus. Qui Santa Monica ci lascia sospesi e interdetti, perché infrange da un lato la simmetria delle storyline di due personaggi comici come Brok e Sindri e da un altro le convenzioni narrative che vedono i due nani, con Mimir, come i classici “aiutanti” il cui destino non può essere sconvolto del tutto.
Davvero è andata così? Davvero Brok è morto (stavolta davvero), davvero lasciamo Sindri devastato nel lutto, non più amico di Kratos e Atreus? Com’è possibile? Quello di Santa Monica è un piccolo atto di coraggio, forse involontario, una scelta narrativa piuttosto radicale che apre una crepa profonda tra la comfort zone di un ottimo gameplay fatto di mazzate ed esplorazione e l’amarezza delle cose più vere (vere perché irreversibili) che accadono a noi mortali.
Dietro la sua forma gigantesca e rassicurante, God of War: Ragnarök nasconde una natura tragica, viscerale e violenta; quando la mette in scena, come nel caso inaspettato di Brok e Sindri, ci ricorda perché Santa Monica ci abbia tanto sconvolto nel 2018.