Tutti i filosofi, oggi, dovrebbero studiare i videogiochi.
Slavoj Žižek
Nei vent’anni intercorsi dall’introduzione del primo capitolo di Grand Theft Auto (d’ora in poi GTA), il mondo è cambiato radicalmente. Persino l’università—un microcosmo che si evolve a ritmi glaciali—è stata costretta ad aggiornarsi: la disciplina dei game studies, un tempo periferica, oggi occupa una posizione centrale nel panorama degli studi sui new media. Italia inclusa. Anche per questo motivo, ci è sembrato utile, anzi indispensabile, esaminare uno studio di caso poliedrico attraverso contributi eterogenei che dispiegano una pluralità di approcci e metodi analitici. Il risultato è Fenomenologia di Grand Theft Auto.
Perché proprio GTA? Specchio riflettente e deformante della società americana, celebrazione e parodia del Sogno, GTA sollecita importanti riflessioni sull’impatto, influenza e appeal dei videogiochi. Ma anche sulla società che li produce, li consuma e li discute. Se accettiamo il presupposto per cui la popolarità di un prodotto dell’industria culturale legittimi—o addirittura solleciti—una disamina accademica, è difficile immaginare un esempio più appropriato di GTA. Lungi dall’essere un semplice gioco, GTA rappresenta un vero e proprio fenomeno di massa. Lo attesta il formidabile successo critico e commerciale del quinto episodio, introdotto nel 2013, che ha venduto quasi cento milioni di copie a livello mondiale generando ricavi superiori ai sei miliardi di dollari. Nel 2018, Grand Theft Auto V è stato definito “il prodotto di intrattenimento di maggior successo di tutti i tempi” dalla società di ricerche di mercato «Marketwatch» confrontando la performance del videogioco a quella dei best seller delle industrie creative contigue: cinema, musica pop e narrativa di consumo. A fronte di un budget di duecentosessantacinque milioni di dollari, GTA V ha generato ricavi superiori a quelli di blockbuster come Star Wars e Via col vento. Nemmeno James Cameron’s Avatar può vantare record simili. Ma GTA V rappresenta un caso più unico che raro anche nel contesto videoludico. Il suo successo sopravanza quello di un’altra celebre serie, Super Mario (1985-): sebbene i numerosi platform Nintendo abbiano venduto complessivamente più copie, nessuna opera singola di Shigeru Miyamoto ha saputo eguagliare i risultati conseguiti da Rockstar Games.
Considerazioni analoghe per i campioni di incasso della longeva serie di sparatutto Call of Duty (Activision Blizzard, 2003), che, per quanto popolari, hanno ottenuto riscontri commerciali di gran lunga inferiori. Per comprendere le ragioni di questo successo va ricordato che i ricavi non derivano unicamente dalla commercializzazione del videogioco, ma altresì delle espansioni – note in gergo come DLC—vendute separatamente, per lo più in forma digitale—che riarticolano il testo di partenza, aggiungendo nuove funzionalità, caratteristiche e contenuti. Questo modello di business non è assimilabile—nemmeno paragonabile—a quello della distribuzione episodica delle serie televisive, al florilegio di sequel/prequel/remake del cinema o delle reissue/remaster della musica pop. Nel caso del cinema e della televisione, gli autori propongono storie a uso e consumo del pubblico. Ma nei videogiochi la narrazione occupa spesso un ruolo marginale. Semmai, i videogiochi sono spazi di possibilità, luoghi da esplorare, ampliare, espandere e reinventare.
Ma c’è di più. L’enfasi sulla modularità e configurabilità di quell’opera aperta (spalancata) altrimenti nota come videogioco non ha una motivazione puramente economica: se è vero che la commercializzazione di contenuti aggiuntivi assicura alle aziende un gettito continuo di introiti, nel caso delle produzioni fandom il profitto non è, nella maggior parte dei casi, un fattore determinante. Parimenti inadeguata è la tesi che il perdurante appeal di GTA sia attribuibile alla disponibilità del prodotto su molteplici piattaforme.
In un settore caratterizzato dalla rapida obsolescenza tecnologica, dall’aggiornamento costante e dall’innovazione frenetica, la freschezza di GTA V continua a sorprendere. Nel 2017, a quattro anni di distanza dall’introduzione sul mercato, GTA V si è aggiudicato la sesta posizione della classifica dei videogiochi più venduti negli Stati Uniti e addirittura la terza in Gran Bretagna.
Un altro aspetto significativo è che, a differenza di molti altri videogiochi di successo, GTA V è sostanzialmente avulso dalle logiche transmediali e crossmediali di mega produzioni come Star Wars, LEGO o Harry Potter. Mancano infatti adattamenti cinematografici “ufficiali”, serie televisive, cartoni animati, fumetti, novelization, tie-in e merchandise. Nell’era della convergenza, la riluttanza di Rockstar Games a perseguire logiche di ibridazione mediale è significativa.
Fattori quali un vasto mondo esplorabile, l’inesauribile creatività dei fans e l’aggiornamento delle modalità di fruizione online hanno contribuito a rendere GTA V un successo sempreverde. Sotto questa ottica, appare comprensibile l’atteggiamento relativamente tollerante dello sviluppatore, Rockstar Games, nei confronti delle attività del fandom: negli ultimi sei anni, gli appassionati hanno prodotto un numero straordinario di mods (modifiche), maps (mappe e livelli), varianti e skins per alterare l’aspetto e il funzionamento del testo di partenza. Anziché limitare o arginare la diffusione di opere derivate/remixate, Rockstar Games le ha esplicitamente incoraggiate. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso del machinima. Il Rockstar Video Editor integrato al quinto capitolo è stato prontamente adottato dalla comunità. Gli utenti hanno usato questo versatile software di cattura e montaggio video per produrre e distribuire centinaia di migliaia di audiovisivi.
L’indiscutibile successo economico di GTA spiega solo in parte l’attenzione critica, come attestano innumerevoli saggi accademici, diverse monografie – tra cui Grand Theft Auto. Motion eMotion di Colin Harvey (2005) pubblicato nella collana Ludologica—e antologie—The Meaning and Culture of Grand Theft Auto: Critical Essays a cura di Nate Garrelts (2006) di cui questo volume rappresenta il successore spirituale—ricostruzioni giornalistiche, tra cui Wanted: la storia criminale di Grand Theft Auto di David Kushner (2003) e documentari, tra cui It’s Just a Game: Playing Grand Theft Auto III (2002). Non va infine dimenticato The Gamechangers (2015), un film per la televisione prodotto dalla BBC.
Fenomenologia di Grand Theft Auto raccoglie importanti esegesi dei quattro capitoli più recenti: GTA V, GTA Online, IV e San Andreas. Si propone di indicizzare e insieme storicizzare una vasta gamma di interpretazioni, evidenziando la varietà di approcci, metodologie e intenti. Per quanto eterogenei, i contributi sono accomunati da alcuni temi chiave. Ne cito quattro: la relazione tra il videogioco e la letteratura; le modalità di rappresentazione (sesso, gender, razza e classe sociale); le istanze geografiche ed architettoniche; infine, la dimensione contestuale e paratestuale. Queste istanze attraversano le varie discussioni, incrociandosi e intersecandosi, creando un fitto reticolo intertestuale. Vediamoli brevemente.
Numerosi articoli giornalistici pubblicati nell’ultimo decennio insistono sulla presunta omologia iconografica e narrativa tra cinema e videogioco. Per esempio, lo scrittore Junot Diaz ha paragonato GTA IV a un paradigma del genere gangster, Il padrino (1972) di Francis Ford Coppola, negando tuttavia qualsivoglia valore artistico al primo. Sulle pagine del «Wall Street Journal» (2008), ha scritto:
La vera arte tende a strappare il velo [di Maya], consentendoci di vedere il mondo con una chiarezza lapidaria; la vera arte ci sconquassa, salvo poi ricostituirci, spesso contro la nostra volontà; così facendo, ci rammenta in modo viscerale i nostri limiti e le nostre vulnerabilità, rendendoci più umani. È ciò che fa GTA IV? Direi proprio di no, secondo me non lo fa affatto e, diamine, ve lo dice uno che adora questo dannato gioco. […] A mio avviso, GTA IV esemplifica le nostre preferenze in materia di intrattenimento: è più simile a una fiaba, a una storia di consolazione che ad una incisiva critica culturale o persino, oserei dire, alla vera arte. GTA IV ci aiuta a dimenticare come avvengono cose complicate e avvincenti nel mondo reale; avrebbe potuto fare di più, avrebbe potuto mettere quelle complicazioni di fronte e al centro.
L’approccio comparativo ricorre in innumerevoli articoli che sottolineano corrispondenze tra i personaggi, le trame di GTA e il cinema di Tarantino, Scorsese e altri registi hollywoodiani. Tuttavia, le affinità tra questo videogioco e un certo tipo di cinema sono superficiali. L’idea che il videogioco sia “cinema interattivo” si fonda su quella logica distorta che il teorico canadese Marshall McLuhan ha definito sindrome dello specchietto retrovisore, una patologia che affligge chi non è in grado di cogliere le peculiarità di un nuovo medium e si ostina ad applicare categorie inadeguate. Per questo motivo, abbiamo deciso di esplorare una relazione meno ovvia, ma assai più intrigante, quella tra videogioco, prosa e poesia. Alcuni degli autori inclusi in questa raccolta paragonano GTA ai grandi capolavori letterari del Ventesimo secolo.
Come un romanzo di William Burroughs e Kurt Vonnegut, GTA non farebbe altro che rivelare l’assurdità del contemporaneo mettendo a nudo la profonda corruzione di ogni istituzione sociale, politica ed economica. Alcuni autori si spingono ancora più in là: Alastair Brown e Adam Ruch s’interrogano sulla funzione del videogioco all’interno della dialettica (direttrice?) tra modernismo e postmodernismo. Secondo il primo, GTA porta a compimento il progetto della cartografia cognitiva descritto da Fredric Jameson nei primi anni Ottanta. Pertanto, il videogioco non farebbe altro che esemplificare le logiche, i temi e gli stilemi postmodernisti. Ruch invece illustra le contiguità tra GTA e le opere di James Joyce, Virginia Woolf e T. S. Eliot. In questo caso, il videogioco è ricondotto al tardo modernismo. Nel frattempo, Jon Saklofske opera un confronto tra San Andreas e un poema di William Blake, concludendo che, sul piano linguistico, i cosiddetti media tradizionali hanno una marcia in più. Da parte sua, Martin Pichlmair considera GTA IV un adattamento non autorizzato di una delle opere più sperimentali di J.G. Ballard, La mostra delle atrocità, definendo il videogioco “uno scandalo deliberatamente pianificato, un capolavoro di cinismo”. Complessivamente, questi saggi propongono letture tutt’altro che convenzionali di GTA e, più in generale, del medium.
Il tema della rappresentazione, fondamentale nei cultural studies, si colloca al centro dell’analisi di David Leonard, che porta in primo piano l’ideologia sottesa alla simulazione degli afroamericani in GTA. Nel suo saggio, lo studioso americano illustra le contraddizioni inerenti ai dibattiti legati alla violenza virtuale, concludendo che “la funzione primaria dei videogiochi è promuovere l’ideologia politica della maggioranza bianca”. Si noti che l’influenza sociale di GTA è menzionata, en passant, anche da Roberto Saviano (2018) nel romanzo La paranza dei bambini. Lo scrittore descrive infatti l’uso del videogioco come allenamento al crimine. Si consideri questo passaggio:
Prima del venerdì prefissato erano andati a guardare il percorso, giusto per evitare di finire in un vicolo cieco con un’autocisterna da quaranta tonnellate. E poi si erano allenati con GTA. Avevano attrezzato la stanza da letto del covo con una Xbox One S e un televisore 4k da 55 pollici. C’era una missione che sembrava essere stata scritta apposta per loro, e avevano capito che guidare un’autocisterna a tutta velocità lungo un’autostrada non era una passeggiata. Non facevano altro che schiantarsi e prendere fuoco, e quando andava bene perdevano per strada la cisterna. Stavodicendo cominciò a seminare qualche dubbio sulla fattibilità dell’operazione ma Briatò lo zittì subito: – Mica stiamo pazziando a GTA, chesta mica è Tierra Rubada, chesta è ’a Statale 18!” (p. 317)
Con un cortocircuito epistemologico che conferma, ancora una volta, la porosità tra realtà e fantasia, nell’aprile 2019, il controverso videogioco di Rockstar è stato nuovamente accusato di istigare violenze efferate per un caso di cronaca noto con il nome in codice “GTA Monza” che ha visti coinvolti sei giovani, tra cui alcuni minorenni, residenti in Brianza, arrestati dalle forze dell’ordine per rapina aggravata e tentato omicidio. I membri della banda prendevano di mira giovanissimi che, sotto minaccia di violenza, erano forzati a consegnare smartphone, denaro, scarpe da tennis e altro. La squadra mobile di Monza ha concluso che il gruppo si era organizzato ispirandosi a Grand Theft Auto. In un’intercettazione telefonica, uno dei membri della gang dichiara:
Non sono uno da Xbox lo sai xxxx, le facevo in giro le cose. Sulla Play xxxx m’annoiano […] è GTA quello che sto giocando io ora! E vabbè, quello lì tu rubi, fai le rapine, rubi le macchine… eeeh vabbè, che xxxx, farlo sulla Play, xxxx oh… mi viene voglia di prendere, uscire e farle, capito, che xxxx di gioco fare sto gioco…
Indirizzando la discussione verso lidi più interessanti, Soraya Murray, Alberto Vanolo e Marc Ouellette prendono in esame la dialettica tra sovrastruttura (GTA) e struttura (neoliberismo). Secondo alcuni, il videogioco muove una feroce critica al tardo capitalismo, per altri ne è la più convinta celebrazione. Lascio ai lettori compito di saggiare la persuasività delle rispettive argomentazioni. In merito al rapporto tra politica e videoludica, mi piace ricordare in questa sede il contributo di Stephen Duncombe, autore dell’importante Dream: Re-imagining Progressive Politics in an Age of Fantasy (2007). Secondo l’intellettuale americano, Grand Theft Auto: San Andreas offre numerosi spunti per ripensare la logica sottesa a una politica progressista.
Progettare una politica che faccia tesoro delle sollecitazioni dei videogiochi significa prendere in considerazione qualcosa di più importante dei meri obiettivi finali. L’assistenza sanitaria universale, l’istruzione superiore gratuita e un’economia più equa sono obiettivi indubbiamente legittimi. Ma è fondamentale anche prendere in seria considerazione il modo in cui raggiungere tali obiettivi, ovvero, come fare politica. Detto altrimenti, dobbiamo ripensare la politica progressista perché rifletta la qualità del nostro gameplay. Forse una delle ragioni per cui il progressismo oggi è in crisi è perché, ultimamente, il nostro gioco non diverte più nessuno. […] Il nostro compito non dovrebbe ridursi nel condannare i sogni e le aspirazioni della società di massa, né criticare l’immaginario collettivo. Dovremmo, semmai, prestare attenzione, imparare qualcosa e – perché no? – divertirci. (pp. 65, 77)
Detto altrimenti, secondo Duncombe, la sinistra ha perso la partita della politica perché è stata incapace di comprendere che i videogiochi soddisfano bisogni sociali latenti. Parafrasando Lacan (via Žižek), si potrebbe affermare che essi rappresentano il supporto fantasmatico che rende possibile la sussistenza stessa della società. Eliminando tale supporto, la società imploderebbe.
Ho ripensato al libro di Duncombe all’indomani delle critiche mosse dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ai videogiochi, GTA in primis, nell’autunno del 2018. In questa sede vorrei evitare l’errore tipico dei giornalisti italiani mainstream che difendono a spada tratta l’intero comparto industriale anche (soprattutto) di fronte a dichiarazioni che meriterebbero accorte riflessioni. Mi aspetterei un simile atteggiamento da quel che resta della cosiddetta stampa specializzata—che da sempre svolge il ruolo di reparto di pubbliche relazioni per l’industria videoludica—ma non dai principali quotidiani. Riprendendo Duncombe, l’aspetto più significativo della querelle è che le critiche ai videogiochi arrivino dal centro-sinistra: beninteso, la sinistra neoliberista, dunque svuotata di qualsiasi valore, idea e ideale di sinistra, pertanto un simulacro della sinistra, ma pur sempre sinistra. In questo senso, le invettive di Calenda a GTA e ai videogiochi in generale—espresse attraverso una manciata di tweet—sono un sintomo della crisi di idee di un raggruppamento politico che, anziché comprendere ed eventualmente appropriarsi dell’estetica videoludica, come invece ha fatto l’estrema destra con straordinaria efficacia, si è dimostrata, ancora una volta reazionaria e anacronistica.
In un successivo intervento, Calenda ha difeso i videogiochi didattici e pedagogici, “quelli che insegnano qualcosa”, criticando GTA, reo di veicolare contenuti diseducativi. Questa accusa esemplifica l’inconsistenza culturale del Partito Democratico. Quando Calenda dichiara: “Non ho detto che fanno diventare tutti scemi, ma credo che almeno i bambini vadano preservati. Ci sono diversi videogiochi straordinariamente educativi, è vero, ma i più venduti sono GTA e quelli con le sparatorie”, la verità è che i bambini andrebbero difesi (“salvati”) da queste banalità. Perché prestare attenzione a GTA e “ai giochi con le sparatorie” significa interrogarsi sulla società in cui viviamo. Studiare l’appeal di GTA rappresenta il primo passo per comprendere il mondo circa 2019. Per coloro che non frequentano gli spazi videoludici, la società contemporanea può apparire caotica, imperscrutabile, malvagia, distopica. Sotto molti aspetti, questa interpretazione è corretta. Ma se non capisci GTA o Fortnite o League of Legends o Minecraft continuerai a perdere le elezioni.
A questo proposito, la dialettica tra fantastico e ‘reale’, tra copia e referente, tra la città tangibile e la sua controparte digitale, è un fil rouge che collega numerosi contributi di questo volume. Adam Ruch svolge un’attenta analisi topologica dei quartieri di New York e di Liberty City, mentre Vanolo chiarisce che una disamina geografica dei mondi virtuali non può prescindere da una correlata riflessione politica. Mark David Teo decostruisce gli spazi di Los Santos utilizzando quadri interpretativi formulati in architettura, mentre Kiri Miller adotta un approccio etnografico per studiare le città virtuali e, in particolare, la Los Santos di San Andreas. In sintesi, questi saggi portano in primo piano la logica sottesa all’approccio mimetico di Rockstar Games, che a sua volta rimanda alle riflessioni di Jean Baudrillard sui simulacri: se accettiamo la tesi che la proliferazione di copie prive di referente contraddistingue l’era contemporanea, allora GTA ne è la prova inoppugnabile. Come afferma Murray, “oggi è diventato difficile, se non impossibile, distinguere la simulazione dal simulato”.
Riprendendo gli studi pionieristici di Stuart Hall, John Fiske ha sollecitato gli studiosi di media a prestare attenzione alle modalità di appropriazione, trasformazione e ridistribuzione della popular culture da parte dei fruitori. Smentendo la tesi che situava l’audience in posizione passiva, subordinata e subalterna, Fiske ha dimostrato che il consumo della cultura di massa si estrinseca spesso attraverso pratiche creative. Questa tesi trova una conferma nell’era digitale: lo attesta la straripante produzione di paratesti da parte degli appassionati di GTA. Anche per questo motivo, la sezione conclusiva di Fenomenologia di Grand Theft Auto si cimenta con i processi (ri)creativi e le pratiche di remix/remake, con particolare attenzione al machinima. L’attenzione è rivolta tanto al fandom quanto all’arte contemporanea: Hava Aldouby esamina le opere videoludiche di Phil Solomon (1954-2019), uno dei più importanti registi sperimentali statunitensi del dopoguerra, mentre Steffen Krüger discute le installazioni degli artisti britannici David Blandy e Larry Achiampong. Matteo Bittanti, Matthew Thomas Payne e Michael Fleisch analizzano le reazioni dei fanboy alle recensioni giornalistiche, le modifiche non autorizzate e le pratiche di cheating. Questi studi di caso portano in primo piano le tensioni sottese alla cultura videoludica, tensioni che spesso determinano importanti ripercussioni sociali e legali. Lasciamo momentaneamente in disparte i videogiochi “straordinariamente educativi” e concentriamoci su un testo che ha molto da insegnare: Grand Theft Auto.