– Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino, Le città invisibili
Chi si interessa di architettura e urbanistica virtuali dovrebbe avere senz’altro tra i suoi punti di riferimento Konstantinos Dimopoulos, curatore di una rubrica fissa su Wireframe dedicata proprio a questo tema, e ora anche autore di Virtual Cities: An Atlas & Exploration of Video Game Cities, un libro che rappresenta un modello per qualsiasi futuro studio in materia. Per valutare la bontà di questo modello, e dunque dell’impostazione data al volume, occorre però prima farsi un’idea di cosa sia esattamente una città virtuale, e quale ruolo abbia all’interno di un videogioco. Per iniziare sarà utile trovare innanzitutto, in negativo, l’opposto della cosa che vogliamo definire: andrà bene il dualismo imperfetto ma molto comune che alla città oppone la campagna.
La prima potremmo pensarla come un luogo principalmente costruito, dove tutto è funzionale a uno scopo pratico o estetico, in perfetta corrispondenza con il pensiero di chi lo ha creato; l’idea insomma è che in una città tutto sia architettura. Come Paul Valéry fa dire a Socrate, nel suo dialogo Eupalinos o l’architetto: “Così siamo, ci muoviamo, viviamo nell’opera dell’uomo! Non v’è parte di quella triplice dimensione che non sia stata oggetto di studio e di profonda ricerca. Noi vi respiriamo, in qualche modo, la volontà e le preferenze di qualcuno”. Al contrario, la campagna sarà il luogo in cui tutto è dato, perché in natura opera il caso più che l’intento. È facile vedere come questa distinzione non abbia particolare senso nei videogiochi, in cui anche gli elementi naturali sono frutto di una progettazione—in cui cioè, come di recente ha mostrato bene il level designer Iuliu-Cosmin Oniscu sul suo blog, un ruscello spesso segue un certo percorso per fornire una traccia visiva al giocatore, e un’altura esiste solo per delimitare un’area.
Un altro modo di vedere il dualismo tra città è campagna riguarda invece la socialità. Alla campagna si lega in questo caso un’idea di isolamento: il ritiro di Thoreau sulle sponde del lago Walden, il capanno in Costa Azzurra dove Le Corbusier trascorre gli ultimi anni della sua vita, la baita montana nella Foresta Nera in cui Heidegger scrive Essere e tempo. La città è invece il luogo dello scambio e dell’incontro, dove accadono cose in continuazione in un costante flusso di azioni e interazioni. Quest’ultima è però una parola chiave in ambito videoludico, e ci segnala subito il rischio di andare nuovamente fuori strada: in molti giochi, anzi, le possibilità di interazione si fanno più intense e significative a livello di gameplay proprio quando ci si allontana dai centri abitati. Ci siamo però avvicinati di molto a quella che potrebbe essere la soluzione: considerare la città il luogo in cui si accumulano le storie; in cui, per così dire, è più alta la densità narrativa, e perciò si finisce sempre col tornare. In campagna le storie si diradano, nella città convergono, e ciò resta valido tanto per quelle reali che per quelle virtuali.
Fatta nostra questa idea di città, possiamo valutare meglio le scelte più particolari e controverse di Virtual Cities: quasi tutto ciò che c’è da leggere è scritto con l’intento di trattare ogni città come farebbe una guida turistica—evidenziando quindi i punti di interesse e le caratteristiche geografiche, fornendo cenni storici, parlando della composizione della popolazione, descrivendo usi e costumi locali. L’analisi del legame tra la progettazione degli spazi e il game design trova invece uno spazio ridotto in un box di testo separato. Konstantinos Dimopoulos sfrutta bene i pochi caratteri a disposizione per andare dritto al punto e fare in breve annotazioni sempre molto interessanti, ma è proprio questa sua abilità a lasciar spesso desiderare che le proporzioni tra i due approcci fossero invertite.
Una simile impostazione aiuta comunque a uniformare lo stile di fronte a giochi di generi e periodi diversi, e a tenere sotto controllo una quantità di materiale che doveva necessariamente essere messa in un qualche ordine. È interessante a questo riguardo la scelta di dividere il libro in tre parti, dedicate rispettivamente a città di fantasia (come Novigrad di The Witcher, Yharnam di Bloodborne o Dunwall di Dishonored), città virtuali che ricordano città reali (Racoon City di Resident Evil, Steelport di Saints Row o Kamurocho di Yakuza) e città del futuro (City 17 di Half-Life, Union City di Beneath a Steel Sky o New Vegas di Fallout). In tutto le città virtuali prese in esame sono 45 e, a proposito di uniformità, non appare indovinata la scelta di usare a corredo del testo le pur belle illustrazioni di Maria Kallikaki, che finiscono col far somigliare fin troppo ogni luogo a tutti gli altri—sotto questo aspetto si è forse persa un’occasione, perché Virtual Cities avrebbe potuto essere anche un gran bel libro di in-game photography.
Se questo senso di appiattimento è il suo principale difetto, Virtual Cities ha comunque una grande idea di partenza e si dimostra molto originale nel suo svolgimento. Difficile dire se limitare lo spazio dedicato all’analisi del design possa contribuire di più a rendere questo libro accessibile anche al grande pubblico oppure a renderlo meno appetibile per quella nicchia di appassionati in cerca di un approfondimento sulle intersezioni tra videogioco e architettura—cosa che, come visto, Virtual Cities è solo in parte. Sicuramente si tratta una scelta condivisibile, considerata la rilevanza narrativa che hanno le città virtuali all’interno delle opere videoludiche; per chi fosse interessato ad analisi più tecniche ci sono del resto altre fonti a cui attingere, come la rivista Heterotopias fondata e curata da Gareth Damian Martin. Magari molti arriveranno lì in un secondo momento, dopo aver iniziato a scoprire il fascino delle città virtuali proprio grazie a questo libro.