Scritta da France Costrel per Netflix, High Score è una docuserie che racconta la nascita e l’ascesa del mercato videoludico dagli anni Settanta agli anni Novanta attraverso filmati d’epoca, animazioni e interviste a producer, designer, art director e programmatori. Il titolo del prodotto ricorda vagamente High Score Girl, manga di Rensuke Oshikiri (sempre su Netflix ne è disponibile una trasposizione anime), nel quale si racconta una storia di rivalità e affinità tra Haruo Yaguchi, bambino un po’ svogliato ma con una grande passione per i videogiochi, e la sua compagna di classe Akira Ōno, bella, inarrivabile e altrettanto abile nell’uso dei videogame, che si sviluppa tra i cabinati delle sale giochi giapponesi.
Le due opere, benché agli antipodi per stile e sviluppo, si muovono sullo stesso piano di contenuti, offrendo un gancio emotivo per lo spettatore sensibile e trentenne, che sguazza tra retromania, nostalgia istantanea e affezione gratuita. E dunque…
Press Start
A me regalarono il Super Nintendo nella prima metà dei Novanta, per tenermi lontano, credo, dalla sala giochi vicino casa, ricavata nel seminterrato di un bar. Di quel luogo ho pochi ma precisi ricordi. Il tavolino all’ingresso, dove il proprietario cambiava le monete in gettoni. I due grossi cabinati: uno con tanto di moto da cavalcare, l’altro con sedile e volante di automobile.
Tra i giochi più gettonati ricordo Metal Slug, Final Fight, Street Fighter II, Sega Rally Championship e un gioco di calcio arcade di cui non ricordo il nome, ma in cui Corea del Sud e Giappone erano fortissimi e a ogni partita avevi a disposizione un tiro speciale che assicurava (quasi) sempre il gol.
In quegli anni le sale giochi erano viste come covi di bulli in erba che minacciavano la crescita di inconsapevoli nerd che si affacciavano su mondi pixellati. Quella vicino casa fu chiusa dopo una rissa che scoppiò al suo interno. Ricordo un’ambulanza, i carabinieri, del sangue sull’asfalto e la mia nascente passione eclissarsi al suono di sirene spiegate. Da quel giorno non mi fu più concesso mettervi piede. Per fortuna, un amico aveva ereditato dal fratello partito per la leva militare il NES.
All’epoca ne giravano pochissimi, almeno nel nostro piccolo angolo di provincia, e ci piazzammo da lui tutti i giorni.
Ready? Fight!
Col senno di poi era chiaro: tirava aria di cambiamento. Anche Max Pezzali già allora cantava con nostalgia l’epoca delle sale giochi: ci stavamo lasciando alle spalle qualcosa di importante, ma grazie a Nintendo e SEGA stavamo entrando nell’era dell’home gaming. Sono state le loro console, più che una scazzottata, a segnare il declino dei cabinati.
Con l’arrivo dello SNES poi, mamma Nintendo aveva dato la risposta definitiva all’ansia dei genitori apprensivi: non dovete più preoccuparvi di tenere i vostri figli lontano dalle sale giochi, potete comprargliene una. Anche se l’apprensione dei genitori stava sempre un passo avanti, e dunque era meglio giocare di nascosto a titoli come Doom o Mortal Kombat. Proprio quest’ultimo infatti portò alla creazione della classificazione dei contenuti, in America con ESRB e in Europa con PEGI.
Doom invece fu il gioco che diede fama a uno dei più prolifici generi videoludici, lo shooter, aiutato dalla piattaforma di gioco in cui nacque, il PC, il quale contribuì enormemente a sviluppare il settore videoludico. Oltre il già citato Doom, i successivi Quake, Unreal, Diablo, Battlezone, o ancora le saghe di Monkey Island, Ultima, Civilization etc., hanno definito interi generi—RPG, sparatutto, avventure grafiche, gestionali—dove mouse e tastiera funziona(va)no meglio di un joystick.
Tuttavia era sempre la console la regina incontrastata dell’intrattenimento casalingo. E con l’arrivo della PlayStation, si può dire che niente fu come prima.
Pause
La PlayStation rivoluzionò il mercato videoludico. Se con lo SNES o il Mega Drive, in buona parte, si portava la sala giochi dentro casa, con la prima console Sony si aprì l’era dell’immersione totale nell’esperienza videoludica: la terza dimensione era il nuovo standard, non l’eccezione.
All’inizio la guardavamo con sospetto e diffidenza. Dischetti al posto delle cartucce e pubblicità perturbanti. «Ha 32bit», dicevamo, senza sapere cosa volesse dire di preciso. Solo i più audaci (ed economicamente benestanti) si lanciarono in quel territorio inesplorato, mentre tutti gli altri attesero qualche anno per valutare anche il diretto concorrente: il Nintendo 64, una console pazzesca ma conservatrice che, come altre successive della Nintendo, era allo stesso tempo troppo avanti e troppo indietro per competere col prodotto Sony.
La scelta del Compact Disc infatti, rifiutata da Nintendo, fu la chiave di volta: la diffusione di un gigantesco e prolifico mercato di giochi piratati troncò sul nascere qualsiasi discussione su quale scegliere.
La PlayStation è stata forse la prima vera console di massa, quella il cui nome, come Coca-Cola o Scottex, divenne sinonimo della categoria di appartenenza. Molti dei suoi franchise erano nati con le console precedenti (o col PC), vero, ma è con la PS1 che hanno fatto il salto quantitativo (e qualitativo), divenendo, come già Super Mario per la Nintendo, riferimenti dell’intera industria nonché dell’immaginario comune.
Resume
Se mi si chiedesse cos’hanno lasciato gli anni Novanta al mondo, direi i videogiochi. Non che siano stati anni privi di altri fenomeni culturali, ma i Novanta, per il mercato videoludico, sono stati forse quelli del grande balzo: da prodotto di nicchia a industria di largo consumo.
Dopo il Duemila, la console war ormai polarizzata tra Sony e Nintendo ha visto emergere il terzo incomodo, Microsoft, e ciò ha reso ancora più frenetica e variegata la crescita del settore. Tuttavia, se si fa eccezione per la diffusione massiccia dell’online anche nelle console, da un punto di vista tecnico mi è sembrato che all’inizio del nuovo decennio l’innovazione dell’esperienza di gioco abbia ceduto il passo allo sviluppo estetico. Si è assistito perlopiù a una convergenza dei generi, a un affinamento delle modalità di gioco, e a una fruibilità più ampia, in grado di soddisfare ogni tipologia di utente: dal vecchio giocatore che non ha mai appeso il joystick al chiodo, alle nuove generazioni che si facevano coinvolgere per la prima volta.
Sarà forse per questo che la docuserie Netflix e l’anime non esplorano questo periodo, ma si fermano appunto al decennio precedente, in cui i videogiochi divennero un vero e proprio fenomeno collettivo che influì anche sul modo di socializzare.
You lose…
Difatti, all’epoca, per noi giocare ai videogame non era una cosa da sfigati. Chi possedeva una console aveva la fila sotto casa. Si trattava di un nuovo tipo di esperienza e condivisione: organizzare tornei di Tekken o Pro Evolution Soccer, affrontare insieme le endurance di Gran Turismo, fare colletta per acquistare le riviste del settore, inventare leggende metropolitane su bambini ricoverati per crisi epilettiche dopo sessioni di gioco prolungate, nonni col pacemaker che prendevano in mano il DualShock e finivano al creatore, ragazzi fuggiti di casa per salvare il mondo dal cattivo di turno.
Per i genitori però la console era il cavallo di troia che portava in casa la nullafacenza. La potenza attrattiva che quel nuovo “elettrodomestico” esercitava su noi era qualcosa da cui guardarsi le spalle. Una “diavoleria”, peraltro decisamente costosa, che ci teneva lontano dalle sale giochi, ma a che prezzo? Distraeva dallo studio, provocava alienazione e isolamento sociale, rendeva violenti. Comprensibile per loro, che non le comprendevano, meno per noi, che invece le comprendevamo, e si finiva in un paradosso: se ci si chiudeva in camera per un intero weekend a giocare, si veniva considerati problematici o a rischio di qualcosa di non ben definito, mentre se ci si chiudeva in casa per lo stesso tempo a leggere un libro, o si era “secchioni” o, al più, ragazzi con una spiccata sensibilità e immaginazione.
Oggi è ancora così? Non lo so. Io dedico un paio d’ore a settimana a giocare, quando va bene. Ma vedendo sia la docuserie che l’anime, tutti questi ricordi mi sono passati per la testa. Perché sono due prodotti ben confezionati, un po’ ruffiani se vogliamo, adatti a questi tempi hauntologici, fruibili con leggerezza. Certo, a chiunque può non andar giù il fatto che tale aspetto, tale gioco o tale merito non sia stato trattato con la giusta attenzione, perché ognuno ha la sua storia personale, che varia in base al periodo, al luogo, agli interessi e alle disponibilità economiche avute. E va bene così, perché forse la morale sta da un’altra parte e non è richiesta la precisione storiografica.
…or you win?
Le console sono state una novità che poteva piacere trasversalmente a tutti (Nintendo Wii docet), allo stesso modo in cui a tutti ora piacciono smartphone e tablet, le cui applicazioni proprio su processi di gamification basano la loro esperienza d’uso. Per questo penso che la gioia per la meraviglia estetica e narrativa e la difficoltà della sfida che da ragazzino mi portavano a stare davanti a un videogioco, non sia tanto diversa da ciò che provano oggi molti genitori utilizzando gli strumenti digitali.
Ricordo che mio padre diceva sempre «l’ho letto sul giornale», trovando nel quotidiano che ogni mattina comprava una fonte autorevole, a cui credere, in grado di spiegargli i fatti del mondo. Quel quotidiano continua a comprarlo, ma oggi si fida meno (spesso a ragione) di quello che dice e così capita che ogni tanto mi dica «l’ho letto sul telefono», riferendosi alle notizie che il suo smartphone gli mostra in base alle sue ricerche. E mica lo posso rimproverare, mica posso dirgli di non fidarsi troppo di quella “diavoleria”, che ciò che ci legge va filtrato, analizzato, circoscritto, e dunque non è bene passarci troppo tempo sopra, perché più ci stai più ti spinge a starci, attraverso un meccanismo psicologico non troppo diverso da quello sfruttato dal gioco d’azzardo.
Mica posso arrivare a sequestrarglielo, lo smartphone, o a limitargliene l’uso. No, non lo posso fare, ma certo, non lo nego, farlo sarebbe una stupida e buffa rivincita.
Continue?
10… 9… 8… 7… 6…