Scorrendo le foto del mio feed Instagram non sempre riesco a distinguere subito, nei piccoli riquadri, quelle scattate in posti reali da quelle prese in un videogioco.
C’è stato un tempo nelle nostre vite—chissà se tornerà—in cui non c’era alternativa: nessun posto dove andare, nessuno da incontrare. Scorribande per praterie e deserti e vallate digitali sostituivano gite fuori porta domenicali e passeggiate all’aperto, e allora tanto valeva abusare della modalità fotografia proposta da molti open world.
Vorrei che in qualche modo arrivasse a coloro che sviluppano videogiochi un sincero senso di gratitudine per aver riempito, con le loro creazioni, certi nostri pomeriggi e certe sere di primavera del 2020. Vorrei che questo mio senso di gratitudine arrivasse al di là delle storture di un’industria tanto ricca quanto impazzita, al di là del sospetto che, come un vampiro proteiforme, questa stessa industria abbia bisogno di noi chiusi in casa e attaccati alla macchina per proliferare e moltiplicarsi all’infinito.
Insieme a questo senso di gratitudine, scorrendo le foto scattate in giro per gli Stati Uniti d’America di Horizon Zero Dawn, mi tengo stretti i sentimenti provati attraversando quelle terre: curiosità per il senso di scoperta che accompagnava ogni avanzamento nella mappa; divertimento per le sessioni di caccia con i robot zoomorfi; tedio, perché non c’è open world che alla fine non porti a questo; e nostalgia, infine, perché in quelle terre vorrei tornarci (e in fondo potrei) e le ricordo con la stessa intensità dei posti reali in cui sono stato, quelli che tra le foto del mio feed Instagram finiscono col confondersi con le loro controparti digitali.
Realismo e realtà sono cose molto diverse, ovviamente: il grado di avvicinamento alla realtà della parte visiva di un videogame è piuttosto relativo rispetto alla percezione che quella che sperimentiamo giocando sia in qualche modo una realtà reale; col tempo potremmo anche arrivare alla conclusione che il fotorealismo dei videogiochi più recenti sia destinato a invecchiare in modo decisamente più problematico rispetto a soluzioni grafiche più stilizzate, “pittoriche” o fantasiose.
In altri termini, sono posti reali per me anche i mondi bidimensionali che ho attraversato dieci, venti o trent’anni fa; le isole di Monkey Island non sono meno reali della grande città di Meridiana di Horizon Zero Dawn solo perché le prime appartengono a un gioco tecnologicamente più anziano rispetto al secondo.
C’è dell’altro, insomma, a far sì che si abbia la sensazione di una permanenza reale in un luogo virtuale; c’è un’atmosfera, ci sono dei suoni e dei pulviscoli di luce, l’immersione nella storia, la personalità del mondo di gioco a livello estetico e architettonico, e più in generale la qualità del gameplay e la quantità di tempo spesa giocando.
Nel caso di Horizon Zero Dawn ha avuto un peso notevole anche quest’ultimo aspetto, dato che nell’opera di Guerrilla Games (incluso il DLC The Frozen Wilds) ho passato esattamente i due mesi del lockdown italiano. Lockdown che avevo iniziato portando a termine Red Dead Redemption 2 e ricavando già da quell’esperienza la sensazione—una volta tornato nel mondo reale, in particolare nella campagna appena fuori città nel mondo reale—che la mia realtà primaria fosse diventata quella virtuale, che io appartenessi prima a quella e poi a quest’altra fatta concretamente di ulivi, fili d’erba, muretti a secco e tutto il resto.
Ma oltre che senso di avventura e distrazione, in quei due mesi HZD mi ha trasmesso anche una quota d’inquietudine. Non sapevo nulla del gioco prima di iniziarlo, quindi ignoravo che mentre assistevo a una potenziale fine del mondo reale, mi sarei immerso progressivamente in una particolare forma di post-post-post-apocalisse ogni volta che accendevo la PS4.
Per quanto fortemente derivativa e piena di rimandi a opere tra le più disparate—da Terminator a Jurassic Park fino al Pianeta delle Scimmie, Mad Max chissà cos’altro—la storia dell’estinzione millenaria raccontata da HZD possiede diversi tratti di originalità, oltre che una caratteristica abbastanza insolita: è molto più interessante nelle sue premesse, piuttosto che nell’intreccio in cui ci muoviamo nel presente del gioco.
È come se non solo scoprissimo la lunga catena di avvenimenti che hanno dato vita al mondo post-apocalittico de La Strada di Cormac McCarthy, ma ci sentissimo molto più presi da quelli che dalla breve storia del padre e del figlio raccontata nel romanzo; in un rapporto peraltro sbilanciato anche rispetto alle modalità di messinscena: come per molti altri videogiochi, HZD racconta le sue backstory adoperando l’infrazione del vietatissimo—dai manuali di narrativa corrente, quantomeno—“show, don’t tell”.
HZD ci riempie di audio, testi e altri documenti dal passato dei Precursori per raccontarci come ci siamo guadagnati la fine attraverso egoismo, superficialità, guerre, cambiamenti climatici, migrazioni di massa e sviluppo di tecnologie di cui avremmo perso presto il controllo; non ho idea se riusciremo mai a superare del tutto questo modo quasi “documentaristico” di rilasciare elementi narrativi all’interno del mondo di gioco, ma tutto sommato in HZD il sistema funziona nella sua gradualità, svelando a poco a poco centinaia di anni di storia di estinzione e parziale rinascita della razza umana—una vicenda cui alla lunga è difficile non appassionarsi.
Da questo punto di vista HZD porta alle estreme conseguenze non solo i nostri timori per le crisi contemporanee ma anche, a livello più filosofico e antropologico, una certa rinegoziazione del rapporto tra scienza e religione.
Partendo dal presupposto che la superstizione è sempre ciò che la scienza rende obsoleto e non più credibile in ambito religioso (ma non spirituale: ecco quindi l’immortalità della religione, la sua eterna sopravvivenza a ogni progresso della scienza), in HZD il fondamento comunitario di ogni tribù umana è basato, religiosamente o superstiziosamente, su credenze e fossili (reliquie) provenienti dalle avanzatissime tecnologie del vecchio mondo.
È il caso, ad esempio, del focus indossato da Aloy, la protagonista del gioco: in sé non è altro che un dispositivo indossabile di realtà aumentata, peraltro simile in tutto e per tutto alla HUD di qualsiasi videogioco, eppure fa di chi lo indossa una specie di sciamano che può vedere altre forme di realtà tra le maglie della realtà percepita come tale.
Allargando il campo, in HZD troviamo tribù che venerano antiche intelligenze artificiali come fossero divinità di un pantheon mitologico, malattie e piaghe che si rivelano essere virus informatici e terre proibite perché popolate da gigantesche bestie robotiche come accadrebbe in regni ancestrali protetti da mostruose chimere.
Il fatto poi che questo mondo insieme tribale e tecnologico sia in parte il nostro rende tutto al contempo ancora più interessante e inquietante, perché fa di noi degli archeologi che indagano un passato che è il nostro presente come noi indaghiamo epoche e civiltà del passato—ricordandoci, tra l’altro, che non sempre estinzione dell’umano e fine del pianeta coincidono.
Le macchine zoomorfe di HZD, anche le più piccole e all’apparenza innocue, sono ovviamente il punto forte del gioco. A partire da quei nomi che, almeno nella traduzione italiana, stanno tra fiaba e dizionario illustrato di zoologia: Collolungo, Ferrariete, Cornaguzze, Manticero Incendiario, Secodonte, Divoratuono… Chiunque abbia vissuto un’infanzia sana—un’infanzia cioè in cui si è potuta esercitare una curiosità assassina verso tutto ciò che riguardava dinosauri, robottoni e animali reali e fantastici—non può che apprezzare l’ingegno che Guerrilla Games ha messo nella caratterizzazione della fauna meccanica che incontriamo nel corso dell’esplorazione.
La prima volta che mi sono imbattuto nel mastodontico e pacifico Collolungo, per dirne una, ho pensato all’emozione che provammo nel 1993 come spettatori davanti all’apparizione del brachiosauro in Jurassic Park. Il senso di meraviglia per il progresso scientifico e tecnologico in quel caso era doppio: quello dei paleontologi che nel film vedevano per la prima volta un dinosauro vivo coincideva con quello nostro che in sala ammiravamo per la prima volta un dinosauro vero; i primi colpiti dai progressi dell’ingegneria genetica, noi dal livello di perfezionamento raggiunto dagli effetti speciali dell’epoca.
Fatte le debite proporzioni quanto a stupore e senso di meraviglia, HZD si pone dalle parti di quel safari—e, anche qui, del documentario—che è la prima parte del film di Spielberg, più che da quelle del semplice luna park cui pure si rifanno molti open world. È un’esperienza decisamente indimenticabile anche solo appostarsi tra i detriti arruggini dello scheletro di un vecchio grattacielo per osservare i comportamenti delle macchine in quello che è ora il loro habitat naturale, e poi seguirle mentre brucano l’erba o si cibano di carogne di altra ferraglia morta, si attaccano tra loro o si spostano in branco per una radura, prima di andare a caccia dei loro pezzi di ricambio per migliorare il set di arco e frecce di Aloy.
Ma proprio la caratterizzazione di Aloy rappresenta forse la parte più problematica di HZD. Come sappiamo, la protagonista del gioco è un clone di Elisabeth Sobeck, la scienziata che intendeva dare una seconda chance all’umanità con il progetto GAIA. Elisabeth desiderava una figlia “curiosa, ostinata, inarrestabile, con abbastanza compassione da guarire il mondo, almeno un po’”.
A ben guardare, Aloy non è niente di più che il desiderio di Elisabeth realizzato, ma esclusivamente in relazione agli snodi e alle esigenze di trama: un personaggio curioso e ostinato perché il giocatore deve scoprire di più sulle backstory di HZD, inarrestabile grazie ai potenziamenti che metteremo insieme nel corso dell’avventura, con abbastanza compassione da guarire il mondo… perché così è scritto.
Il carisma di Aloy e la nostra affezione nei suoi confronti dipendono quindi da ciò che lei fa o non fa per mandare avanti gli eventi di HZD, ossia dalle azioni che noi giocatori le facciamo compiere; proprio come un giocatore che abbia fretta di arrivare alla fine, la cacciatrice-raccoglitrice della tribù dei Nora sembra solo voler andare avanti, da A a B, e in questo viaggio raramente la vediamo esprimere sentimenti che non siano legati in qualche modo all’evoluzione della quest principale (per lo più desiderio di scoprire di più sulla madre che non ha mai conosciuto, attaccamento a Rost che l’ha cresciuta sin da bambina).
Sappiamo invece che quando la sovrapposizione tra videogiocatore e protagonista non è assoluta, quando in altri termini il cosiddetto viaggio dell’eroe e quello del videogiocatore si discostano, almeno entro certi limiti, accadono cose molto interessanti: è il motivo per cui ci lascia di sasso la menzogna finale di Joel nel primo The Last of Us e apprezziamo le reticenze e gli imbarazzi di Kratos nel tentativo pasticcione di stabilire un rapporto col figlio Atreus in God of war.
Certo, l’impressione che Aloy sia “poco scritta” potrebbe anche non essere un limite ma il frutto di una precisa scelta da parte degli sviluppatori, specie se consideriamo che nell’incipit dell’avventura tra giocatore e protagonista si stabilisce davvero una sostanziale identità: così come noi siamo inizialmente stranieri nelle terre di HZD, allo stesso modo Aloy è estranea alla sua tribù e conosce poco o niente del resto del mondo di gioco; senza contare che in un certo senso siamo persino coevi della ragazza, visto che il suo corredo genetico corrisponde a quello di una donna del XXI secolo.
In fondo, la poca profondità di Aloy potrebbe essere attribuita proprio al fatto che non è che un clone programmato, scriptato da Elisabeth Sobeck per portare a termine l’obiettivo di “guarire il mondo, almeno un po’” e poco altro, che poi è lo stesso scopo che si pone il giocatore—ogni giocatore, in ogni videogioco.
Verso il finale di HZD ci imbattiamo in una serie di documenti del passato dei Precursori che raccontano gli ultimi mesi di vita di alcuni degli scienziati che lavoravano al dopo estinzione. Tra questi, ce ne sono due che si occupano di preservare la produzione culturale dell’umanità per consegnarla a uomini e donne del futuro. Si trovano ovviamente a fare delle scelte.
Assistiamo quindi a uno scambio molto divertente, in particolare, sull’opportunità di preferire e conservare il cinema di Pasolini (“estremo, ma è arte”) invece che il cinema splatter est-europeo. I due scienziati si beccano e si prendono in giro, ma fanno sul serio ed argomentano le rispettive preferenze, replicando quindi l’ozioso dibattito novecentesco su cultura alta e cultura bassa; ho pensato, leggendo quei dialoghi, a dove andrebbero posizionati i videogiochi in questo dibattito che continua inspiegabilmente a permeare anche il nostro mondo.
Quanto a me: non vorrei mai trovarmi nella posizione dei due scienziati, ma se proprio qualcuno me lo chiedesse sì, certamente conserverei una copia di Horizon Zero Dawn per i posteri: per quel senso di inquieta e problematica gratitudine di cui parlavo all’inizio, ma anche per la complessità e la stratificazione dell’intrattenimento che Guerrilla Games ha saputo condensare nella prima avventura di Aloy.