Dopo un decennio abbondante segnato da ripetuti picchi di creatività e di innovazione in ambito videoludico, soprattutto grazie alle produzioni indipendenti, sembra essere alle porte l’inevitabile fase di stanca: le idee stanno finendo? Nei giorni in cui scrivo questo pezzo sono in uscita un titolo che è un dungeon crawler ma anche un dating sim, e un altro per il quale le definizioni di gioco di carte, di RPG a turni e di visual novel vanno tutte ugualmente bene. L’impressione è che alcuni sviluppatori, non sapendo più come emergere in un mercato sempre più saturo, abbiano reagito come fanno i giocatori bloccati in un’avventura grafica: provando a combinare tutto con tutto.
Volendo seguire l’esempio delle avventure punta-e-clicca, va detto però che provare a combinare tutto con tutto quasi sempre non si rivelava essere poi una grande idea: meglio invece tornare indietro e lasciarsi ispirare da quanto già visto. Ripartire dalle basi, dunque, dai fondamentali: c’è mezzo secolo di storia videoludica da rivisitare, ripercorrere ed eventualmente aggiornare. Insomma, è forse giunto il momento dell’estetica del riuso. C’è tanto materiale che aspetta solamente di essere riutilizzato creativamente, come hanno già dimostrato altri media, e in particolare la fotografia. Numerosi progetti artistici hanno portato alle estreme conseguenze le idee di riciclo e di photo trouvée—sulla falsariga dell’objet trouvé dei surrealisti.
Tra i miei preferiti ci sono quello dell’artista franco-statunitense Jeff Guess, che il giorno del suo matrimonio si è messo al volante insieme alla sua sposa, entrambi ancora in abito da cerimonia, e ha intenzionalmente superato il limite di velocità in una strada munita di autovelox, in modo da farsi recapitare comodamente a casa dalla polizia la propria foto di nozze. Ancora più diabolico l’irlandese Mocksim, che sapendo dell’abitudine degli agenti di Brighton di fare multe e scattare contestualmente una foto per certificare l’infrazione, si è messo a gironzolare intorno alle vetture parcheggiate male; recuperando poi dalle multe il codice per accedere all’immagine, si è ritrovato con molteplici suoi ritratti realizzati dai vigili urbani della città.
Un modo per tradurre questi indirizzi in ambito videoludico può essere l’adozione di strumenti di sviluppo esplicitamente votati all’utilizzo di un set di elementi già dati. Se Dreams permette di realizzare con facilità giochi al passo coi tempi, altre piattaforme come Bitsy o la “fantasy console” Pico-8 pongono forti limitazioni di partenza che però servono anche a stimolare la creatività—e a dare un feeling nostalgico. Altrimenti, come lo studio svedese Easy Trigger Games, si può fare del riuso il proprio motto. “When thinking outside the box is becoming the norm, our model is to combine proven gameplay elements that we know make a magnificent experience. The inside of the box is rich and filled with treasures”, si legge sul loro sito.
Non uscire fuori dagli schermi, allora; piuttosto restarci dentro, anche perché sono pieni di tesori. È un’idea che richiama la nozione di “uncreative writing” proposta da Kenneth Goldsmith in CTRL+C, CTRL+V, e parte da qui la mia chiacchierata con Tommy Gustafsson, co-fondatore di Easy Trigger Games insieme ad Andreas Rehnberg. «Non bisogna aver paura di ispirarsi a elementi di gameplay che già funzionano. Molte meccaniche di gameplay sono già state inventate, e usando formule consolidate già esistenti e collocandole in contesti nuovi si può creare qualcosa di innovativo», mi dice. «Non occorre inventare di nuovo la ruota. Oppure, come disse una volta un tipo famoso: “I bravi artisti prendono in prestito, i grandi artisti rubano”».
La prima opera dello studio, Huntdown, è una perfetta messa in pratica di queste idee. Uno shoot ‘em up a scorrimento orizzontale ambientato in un universo cyberpunk in cui alcune bande criminali hanno in mano la città, la polizia è impotente e le megacorporation assumono cacciatori di taglie, vale a dire i giocatori, per liberarsi di chi intralcia i loro affari. Vi suona tutto già sentito? Probabilmente sì. Esisteva già un gioco come Huntdown? No. C’era invece tutta una serie di elementi—di celebri shoot ‘em up del passato, di film sci-fi d’azione anni’80, di videogiochi in pixel art—che aspettavano di essere messi insieme per prendere la forma di Huntdown, e il risultato è qualcosa di molto simile a un jeux vidéo trouvé.
Non bisogna cadere nell’errore di considerare un’operazione del genere necessariamente più semplice rispetto a un progetto più originale, e lo dimostrano i tempi di sviluppo di Huntdown. Le prime tracce del gioco risalgono al 2017, quando su GamesIndustry veniva presentato come la prima uscita di Coffee Stain in qualità di publisher. I creatori di Sanctum e Goat Simulator hanno invece fatto in tempo a pubblicare altri due giochi, Deep Rock Galactic e il fortunatissimo Valheim, prima che Huntdown fosse pronto a uscire. Questione di risorse limitate, come mi spiega Tommy Gustafsson: «Easy Trigger consisteva in più o meno quattro persone full-time sul progetto. Perciò abbiamo lavorato letteralmente giorno e notte per realizzare il gioco, facendo tutto da soli». Alla luce di questo, impressiona il livello di rifinitura e di attenzione ai dettagli.
Le citazioni, prevedibilmente, abbondano ovunque, dalle linee di dialogo al design dei nemici: e se per le varie bande criminali gli sviluppatori sembrano aver attinto al ricco catalogo di un cult cinematografico come I guerrieri della notte, non mancano gli omaggi ad altre opere videoludiche. «Ci sono svariati riferimenti nel mondo di Huntdown, e non voglio anticipare nulla. Quando abbiamo mostrato il gioco alla Gamescom, alla GDC o al PAX East i giocatori hanno colto collegamenti diversi», mi racconta Tommy Gustafsson. Ho sentito dire “Questo somiglia a Streets of Rage”, oppure “Questo è proprio uguale a Metal Slug ragazzi”, o “mi ricorda Blackthorne”. E ovviamente avevano ragione in ogni caso».
Sono contrario a un eccesso di riverenza nei confronti dei capolavori del passato, e forse uno degli aspetti più interessanti del jeux vidéo trouvé è proprio lo spazio disponibile per migliorare alcuni difetti dei titoli a cui ci si ispira. Quando gli chiedo cosa cambierebbe nei classici che ama di più, Tommy Gustafsson mi risponde: «Amerei giocare un Flashback con più nemici, più contenuti, più armi, e via dicendo. Penso che quando giochi un grande titolo vuoi sempre più contenuti con lo stesso livello di qualità. Alcuni giochi sono perfetti così come sono, Another World ad esempio, oppure Metal Slug. Mi piace Contra ma faccio schifo, perciò ci metterei più rifornimenti di salute per sopravvivere».
Collegata a questa idea di migliorare i classici c’è la questione che più mi intriga di giochi come Huntdown: il paradosso per cui potrebbero essere migliori dei capolavori che li hanno resi possibili. È un argomento comune a qualsiasi progetto, in qualsiasi medium, adotti un’estetica del riuso.
Essendo opere impossibili senza quelle che le hanno precedute (ma qualcuna non lo è?) non potranno mai essere più importanti di quelle, ma possono senz’altro essere migliori. Alla fine non saprei dire se Huntdown è davvero migliore di Contra o Metal Slug, o solamente più sintonizzato sui gusti e la sensibilità del giocatore odierno; ma il senso dell’estetica del riuso, di una sorta di “uncreative development”, non è forse anche questo?
Di certo in Huntdown ci sono tanti piccoli dettagli che mostrano quanta passione e quanto amore siano stati messi in questo progetto. Il mio preferito è il pilota del veicolo parcheggiato a ogni checkpoint, che se si resta fermi lì vicino, per tirare il fiato o magari per ammirare un bel fondale, inizia a gettare lattine vuote dal finestrino. Il dettaglio preferito di Tommy Gustafsson, invece? «Penso quando i poliziotti prendono in giro il giocatore se non riesce a sfondare la prima porta nel primo livello. È un dettaglio nascosto di cui in molti non si accorgono».