Come in tutti i periodi della mia vita, anche nelle ultime due o tre settimane ho attraversato alti e bassi. E fino a qui, giustamente, non ve ne può fregare di meno. Diversamente dal solito, però, durante le fasi di adombramento o scoramento o malinconia, il mio cervello ha automaticamente mandato in circolo questa musica per fare da commento sonoro ai più tristi pensieri. Nonostante somigli terribilmente a “The Nightingale”, il brano cantato da Julee Cruise in Twin Peaks, l’ultimo jingle del mio sconforto si intitola “Sojourner’s Truth” e fa parte della colonna sonora del videogame Virginia, uscito nel settembre 2016. Più precisamente, “Sojourner’s Truth” non somiglia soltanto a “The Nightingale”, ma ne è una chiarissima citazione, così come tutto Virginia è costellato da riferimenti alla serie più bella di sempre (e la mia seconda preferita in assoluto), a cominciare dal luogo in cui ascoltiamo per la prima volta il mio ultimo pensiero ossessivo: un pub somigliante al Roadhouse di Twin Peaks.
Tutto quello che in Virginia non grida Twin Peaks grida invece X-Files, la seconda serie più bella di sempre (e la mia preferita in assoluto). Al momento in cui scrivo, questo incredibile crocevia di reminiscenze è scontato del novanta per cento su Steam. Costerà 99 centesimi almeno fino al 9 luglio, quindi, se non ve lo portate a casa per il prezzo di un caffè nel nord Italia, siete semplicemente pazzi. Ma torniamo all’incipit di questo articolo. Dicevo che non mi era mai capitato di pensare così a lungo a un videogioco. Chiaramente conosco l’impazienza di tornare a casa dopo il lavoro per riprendere il filo di un’avventura lasciata in sospeso la notte precedente, però il ricordo di Virginia riposava (riposa) su una nota emotiva, cioè dipende dal fatto di trovarsi in una condizione sentimentale che è lo specchio del tono generale del gioco.
Un gioco incredibilmente muto, senza una sola linea di dialogo dall’inizio alla fine, in cui tutti i personaggi sono come immersi nei propri malinconici pensieri al punto da non aver voglia di comunicare a parole. E infatti la solitudine, il lutto, la discriminazione e perfino la droga sono i temi di questo thriller-noir sollevato, nelle atmosfere, da una squillante grafica low-poly. Ma forse a è arrivato il momento di rispondere alla domanda che vi state facendo da 2627 caratteri. Ovvero: che cos’è, esattamente, Virginia? La storia inizia nel 1992, due anni dopo la rivoluzione televisiva di David Lynch e un anno prima che una strana coppia di agenti dell’FBI si presenti al pubblico del piccolo schermo, provocando di lì a poco un’impennata di presunti incontri ravvicinati.
Anche in Virginia le protagoniste sono due agenti dell’FBI. Il prologo è identico all’episodio pilota di X-Files: Anne, il nostro avatar, riceve l’incarico di portare avanti un’investigazione interna su Marie, proprio come a Scully vien detto di sorvegliare Mulder nella puntata 1X01 della serie di Chris Carter. In entrambe le scene c’è un cigarette smoking man, l’antagonista per eccellenza dei protagonisti di X-Files. Marie, come Mulder, lavora in un seminterrato nella sede principale dei federali a Washington. Lo studio, avvolto nella penombra, è tappezzato di scartoffie e poster, uno dei quali magari potrebbe riportare la dicitura “The Truth is Out There”. Al centro c’è una scrivania e, sulla scrivania, un proiettore. Allo stesso modo in cui Mulder accoglie Scully, cioè proiettando sul muro alcune diapositive di strani fatti e inspiegabili fenomeni, così, con l’utilizzo del dispositivo di proiezione, Marie aggiorna Anne sul caso che dovranno risolvere insieme: la scomparsa di un ragazzino a Kingdom, Virginia, verde cittadina dall’altra parte della costa la cui sonnolenta quotidianità viene sconvolta da un trauma assimilabile all’omicidio di Laura Palmer.
Da qui in poi, gli eventi si succedono al confine tra veglia, sogni e allucinazioni, queste ultime provocate dall’utilizzo di sostanze psicotrope. Naturalmente ci sarà spazio per l’apparizione di extraterrestri, immarcescibile ossessione di Fox “Spooky” Mulder, mentre la teoria di tavole calde, tende rosse, insegne al neon ma soprattutto distorsioni da incubo della vita reale è presa di forza dall’immaginario onirico e provinciale di David Lynch. Dal punto di vista del gameplay, Virginia è strutturato come una serie di camminate negli ambienti di gioco, alternate a momenti in cui potremo solamente spostare lo sguardo, il che smentisce la definizione di walking simulator, perché siamo di fronte a qualcosa che è ancor meno di una passeggiata.
Tutto quello che possiamo fare, oltre a gironzolare e guardarci intorno, è cliccare su alcuni punti di interesse per mandare avanti il racconto. Spesso, ma a volte senza bisogno di clic, il nostro comando innesca una sorta di taglio di montaggio, un salto spaziale e temporale che consente di muoversi attraverso i punti salienti dell’intreccio. Virginia è cinema? Naturalmente no. Più che altro ci relega in una posizione semi-passiva, simile a quella che assumiamo sulle poltroncine in sala, una caratteristica che condivide con molte altri videogiochi focalizzati sulla narrazione (e infatti io Virginia me lo sono giocato sul letto e sulla sdraio fuori al terrazzo, posizioni che normalmente riservo alla visione di un film). Premesso che il parallelo cinema-videogiochi mi appassiona poco, credo che i videogiochi non abbiano molto da imparare dai film, tranne forse una cosa. Una cosa che Virginia centra in pieno.
Ve lo spiego con una scena. Verso la metà dell’avventura, quindi a circa un’ora di gioco, Anne e Marie decidono di mettere in standby le indagini e regalarsi una meritata serata di svago. Prima di entrare in un pub che è il Roadhouse di Twin Peaks spiccicato, Marie si toglie la fede dal dito e la dà ad Anne. Quindi si siede al bancone e attacca bottone con un uomo. Noi invece ci sediamo al tavolo e veniamo avvicinati da un altro uomo, visibilmente ubriaco, che tenta un maldestro approccio. Anne estrae la fede di Marie e si tira fuori da una situazione imbarazzante con una piccola bugia. Di fronte a noi, una donna canta “Sojourner’s Truth”. I momenti successivi mostrano Anne e Marie ballare in pista, probabilmente ubriache, quindi sedute in cima al serbatoio idrico a torre da dove è possibile far spaziare lo sguardo su tutta Kingdom.
La posizione scomoda di Anne, allo stesso tempo amica e watchdog di Marie, attiene al piano delle relazioni tra i personaggi. Ma uno sguardo più attento ci rende consapevoli della specularità delle protagoniste. Marie toglie la fede, Anne la indossa. La prima si intrattiene con un uomo, la seconda lo respinge (e si concentra su una donna). Allargando lo sguardo, altri elementi ci fanno capire che le federali sono l’una il rovescio dell’altra. Entrambe sono afroamericane, certo, eppure Anne sembra single, Marie è sposata. L’appartamento di Anne è piccolo e buio, quello di Marie, luminoso, si articola su più piani. La prima ha i capelli lunghi ed è molto femminile, la seconda porta un taglio corto e ha una figura più androgina. Anne segue le orme del padre, che ha perso. Marie quelle della madre, anche lei passata a miglior vita. Forse Marie è la proiezione mentale di quello che Anne vorrebbe essere, un’immagine con cui la protagonista si confronta continuamente durante il gioco? Potrebbe essere, ma resta un’interpretazione personale.
Virginia parla il linguaggio dell’allegoria. Senza uno slancio interpretativo, che tra l’altro compensa la passività di un player con un solo tasto da premere, questo gioco semplicemente non ha senso. Bisognerebbe prestare attenzione ai dettagli, ad esempio quando Marie, dopo la nottata di bagordi, serve per colazione ad Anne due uova invece che una, evocando per l’ennesima volta il tema del doppio. Quello che Virginia impara dal cinema, o meglio da un certo tipo di cinema, è la volontà di non offrire al videogiocatore risposte semplici, costringendolo a compiere uno sforzo intellettuale per venire a capo di una narrazione non convenzionale. Un input che ha come diretta conseguenza il fatto di mettere in discussione il modo in cui pensavamo che i videogiochi funzionassero. Spesso, ad esempio, leghiamo il concetto di rigiocabilità al concetto di sfida. Ricominciamo un titolo per vedere come ce la caviamo a un livello di difficoltà maggiore oppure per accumulare collezionabili o sbloccare obiettivi e ricompense. In Virginia la longevità è legata alla buona pratica di tornare e ritornare a Kingdom nel tentativo di sciogliere ogni allegoria e cogliere le simmetrie attorno alle quali è stata costruita la sceneggiatura, che apparirà meno delirante già alla seconda run.
Da questo punto di vista, funziona in modo differente anche l’iniezione di endorfine come conseguenza di una vittoria sudata nota in gergo con il termine di “reward”. Qui la provocazione consiste nel nascondere i significati e chiedere all’utente di considerarsi soddisfatto solo dopo aver sciolto una metafora. “Platinare” Virginia potrebbe significare dare a tutto un senso che regga il peso contenutistico del vortice di allucinazioni finali. Naturalmente sui forum specializzati le chiavi di lettura fioccano, e questa è indubbiamente una scommessa vinta per Variable State. Altro punto a favore di questi visionari indipendenti è la posizione numero cento riservata alla loro opera nella classifica dei migliori giochi dell’ultimo decennio secondo Polygon. Ma il merito più grande di questi intraprendenti consiste nell’aver elevato, una volta di più, il videogioco a esperienza culturale, fatta per carità anche di tempi morti, momenti di tedio e significati così aperti da poter risultare frustranti per alcuni. Forse un adrenalinico sparatutto sa rispondere meglio a ciò che la maggior parte dei videogiocatori cerca, legittimamente, in un videogioco mainstream. Virginia però ha il merito di alzare il livello delle ambizioni del medium del XXI secolo e di lasciare il segno. E se avete qualche dubbio a riguardo, considerate che chi vi scrive sta canticchiando “Sojourner’s Truth” da tre maledette settimane.