Il grosso guaio dei premi? Sono tanti e vengono assegnati ogni anno. Ci sono senz’altro delle buone ragioni perché sia così: ha senso, ogni dodici mesi, mettere un punto e porre in evidenza alcune cose che hanno meritato attenzione. L’effetto però è quello di un appiattimento generale: i premi sono tutti uguali, ma le opere premiate? Qualche lavoro resterà a lungo, qualche altro risulterà in fin dei conti dimenticabile nel giro di qualche tempo; ma i premi, nella loro abbondanza e con la loro cadenza regolare, non riescono a darne conto. Inside di Playdead è un ottimo esempio: il suo sound design è stato premiato da Edge (nel numero 302 della rivista), e anche ai Game Developers Choice Awards; ma ai BAFTA Game Awards e ai D.I.C.E. Award ha ottenuto solo due nomination, superato nel primo caso da Virginia e nel secondo da Battlefield. Si tratta di premi relativi al 2016, ai quali sono seguite decine di altre nomination e di altre vittorie. Questo sound design di Inside allora, era semplicemente buono oppure era eccezionale? L’ho scoperto solo di recente, giocando finalmente l’ultima opera di Playdead e provando la sensazione di trovarmi di fronte a uno dei risultati più alti mai raggiunti nel settore videoludico: un comparto audio in grado, da solo, di trasformare un ottimo titolo in un’esperienza che non dimenticherete mai di aver fatto nella vita.
Il merito è di Martin Stig Andersen, coadiuvato da SØS Gunver Ryberg, Jakob Schmid e Andreas Frostholm Røeboe. Una delle prime cose che impressionano del loro lavoro è il livello del dettaglio, la cura per i particolari. Inside racconta una fuga, quella di un bambino da una struttura in cui si fanno esperimenti e accadono cose a dir poco strane. L’alter ego di chi gioca, dunque, è un bambino che corre, e della sua corsa sentiamo distintamente i passi, e il respiro pesante, l’affanno di chi si trova ad affrontare una prova impegnativa tanto sul piano fisico quanto su quello emotivo. Quando ci fermiamo, il respiro affannoso prosegue per un po’, finché non si è ripreso il fiato. Attraversando uno specchio d’acqua i passi si fanno progressivamente più umidi, finché a prendere il sopravvento non è il suono del liquido che si muove; e tornando sull’asciutto anche l’audio si fa via via meno bagnato. Sott’acqua è tutto più ovattato. Tra i macchinari in funzione il clangore è metallico.
Tutti questi suoni si sentono distintamente perché emergono dal silenzio: la colonna sonora, prevalentemente ambient drone, interviene ad accompagnare alcuni momenti, ma non sono sempre quelli che ci si aspetterebbe. «Con Inside mi sono fatto influenzare da cose come i film di John Carpenter. Mi ispira molto la semplicità delle sue colonne sonore, e il modo in cui colloca la musica all’interno delle scene. Mi piacciono quelle lunghissime scene d’azione in cui non c’è alcuna musica e poi passa un’auto a caso e arriva una nota musicale ben precisa», ha raccontato Andersen a Kill Screen. Quando non c’è alcuna musica però il silenzio è particolare; è come se fosse un silenzio amplificato, che ascoltiamo attraverso un impianto di diffusione. Anche i suoni hanno qualcosa di strano, forse perché sono stati registrati usando un teschio umano come filtro.
«All’inizio, mentre lavoravamo a Inside, mi è venuta l’idea di usare un teschio umano, perché credo sia molto interessante il fatto che il suono della propria voce sia molto diverso nella propria testa. Spesso le persone rimangono scioccate quando si sentono registrate, perché il suono all’interno della testa è completamente diverso. Il suono è molto più morbido, più pieno, in un certo senso. Questo perché gran parte di ciò che si sente è la voce che risuona all’interno del corpo, ad esempio nella mascella. Provate a tapparvi le orecchie mentre parlate o cantate: questo è il suono di cui parlo. Così mi è venuta l’idea di cercare di ricreare i suoni come sarebbero se si verificassero all’interno della vostra testa», ha detto Andersen a Game Developer. Quanto tutto ciò sembri appropriato per un gioco che si chiama Inside appare persino superfluo sottolinearlo.
A questo punto ci troviamo già ben oltre l’ordinaria amministrazione, ma il sound design di Inside fa molto di più, associandosi al game design e istruendo in diverse occasioni chi gioca sulle azioni che dovrebbe compiere. Un esempio arriva abbastanza presto nel gioco: il bambino fa un passo su una trave di un pavimento instabile, quella si rompe e lui precipita al piano inferiore, dove alcune persone, che sembrano prive di coscienza e di volontà, si trovano in fila, impegnate in una strana processione. Camminano, e dopo un po’ si fermano. Il bambino deve imitarli per non farsi notare, anche perché un drone si è subito avvicinato a verificare l’idoneità della sua presenza. Per andare a tempo, il suono è la guida. Quando la fila procede si sente il rumore dei passi, poi segue un momento di silenzio, infine arriva un suono più forte di cui non si conosce ancora la provenienza, e la sequenza si ripete. Il suono più forte diventa il riferimento da tenere presente per capire quando riprendere a camminare. Proseguendo, non si tarderà a scoprirne l’origine: un salto che anche il bambino dovrà eseguire, all’interno di un’area delimitata con alcune righe a terra. Abbiamo sentito quei salti prima di vederli, e li abbiamo visti prima di farli. Nel frattempo il gioco ci ha raccontato qualcosa, e ci ha proposto un momento di gameplay unico.
C’è un’altra sequenza ancora più sensazionale. Parliamone dopo esserci presi un momento per guardarla per intero.
Per questo passaggio vale quanto già detto a proposito del precedente: è il suono a istruire chi gioca su cosa fare per andare avanti. Possiamo aggiungere, però, almeno altre due considerazioni. Innanzitutto, il suono qui è anche il nemico, l’unica causa possibile di game over. La sua pericolosità viene segnalata subito: per liberare il passaggio il bambino deve spostare una cassa, e questa, investita dall’onda d’urto, va in mille pezzi. Non c’è dubbio: quello che abbiamo appena sentito non è un suono prodotto da un nemico, l’onda d’urto è essa stessa il nemico; se non fosse per il bagliore in lontananza che l’accompagna sarebbe per giunta totalmente invisibile, ma la sua ripetizione a intervalli regolari è la chiave per attraversare lo scenario illesi. L’ostacolo coincide dunque con l’indizio per superarlo, ed entrambe queste cose sono un suono. A ciò va aggiunto un possibile significato nascosto: l’onda d’urto va verso chi gioca; se colpisce il bambino, lo sbalza nella direzione di chi gioca.
Ora, Inside è un gioco molto criptico; non c’è una sola linea di dialogo, non c’è niente da leggere. Nulla ci aiuta a capire a cosa stiamo assistendo, figuriamoci come interpretarlo. C’è una schermata semplicemente incredibile, l’ultima del gioco, degna di un Kubrick o di un Tarkovskij, che accompagnerà i nostri pensieri a lungo, molto a lungo dopo aver finito Inside. In luoghi dell’internet come r/PlaydeadsInside si possono trovare le intepretazioni più disparate sul mondo di gioco, ma solo un’idea riscuote un consenso pressoché unanime: il grande tema di Inside è il controllo, e il bambino non sta solo scappando da qualcosa, è anche attirato verso qualcosa. Ci sono effettivamente una quantità di momenti, in Inside, a conforto di questa tesi, che spalanca le porte a scenari da meta-gaming. È come se il bambino venisse controllato sia da chi gioca, sia dal gioco; è come se ci fossero forze concorrenti che vogliono vedere il bambino proseguire, oppure fermarlo. È molto potente, allora, l’idea che nella sequenza appena vista il personaggio, qualora non si riesca a evitare l’onda d’urto, venga idealmente gettato fuori dallo schermo, restituito a chi gioca.
Quando è in sconto su Steam, Inside si può acquistare per il prezzo di due caffè. Fatevi un favore, e giocatelo con un paio di buone cuffie.