In concomitanza con l’annuncio del lancio delle nuove console targate Sony e Microsoft, con cui i due colossi monopolizzano il mercato dell’home gaming dai primi anni Duemila, Amazon Prime Video annuncia di aver affidato a Jonathan Nolan e Lisa Joy, già autori di Westworld (2016), la realizzazione di una serie TV tratta da Fallout, storica saga videoludica ambientata in un’America post-apocalittica ferma agli anni Cinquanta.
L’annuncio conferma il crescente interesse verso i prodotti di un’industria in grado di fare incassi tre volte superiori a quelli del cinema e raggiungere trasversalmente utenti di tutti i tipi, dato che oggi i videogame, stanati dalla nicchia in cui sono maturati, fanno parte di un consolidato immaginario popolare. Basti pensare al solo universo Nintendo, con Super Mario, Donkey Kong, Zelda e tutto il franchising dei Pokemon.
Guardando oltre il parco della grande N però, si possono citare Sonic, il riccio blu della Sega e Crash, il marsupiale della Sony. E ancora: i roster dei vari Street Fighter, Mortal Kombat e Tekken. Lara Croft, eroina della saga di Tomb Raider, a cui fa il verso oggi Nathan Drake in Uncharted. I vari principi della serie Prince of Persia. Racoon City e l’Umbrella Corporation per Resident Evil, o il carismatico Solid Snake (modellato sul Jena Plissken di 1997: Fuga da New York) protagonista dell’amata e odiata serie Metal Gear Solid, creata da Hideo Kojima, figura di culto del settore. Fino ai più recenti Fortnite e Angry Birds.
Al pari dell’universo letterario o fumettistico, quello videoludico è un prolifico bacino di storie e personaggi, anche se il passaggio di queste su grande schermo non sempre è stato all’altezza del prodotto originale, tra trasposizioni più o meno fedeli e tentativi di replicare l’esperienza di gioco su un medium di natura differente.
Primi passi
Partiamo dal 1993, anno in cui Rocky Morton e Annabel Jankel girano un poco riuscito Super Mario Bros, film che accantonava le atmosfere acide e lisergiche della serie dell’idraulico baffuto, per sostituirle con venature cyberpunk, in voga in quegli anni. Un piccolo fiasco, divenuto oggi cult perché si tratta del primo film tratto da un videogioco—benché, come vedremo, non il primo a ispirarsi al mondo dei videogame.
Seguono a stretto giro Street Fighter – Sfida finale (1994), di Steven E. de Souza, con Jean-Claude Van Damme nel ruolo di Guile, e Mortal Kombat (1995), di Paul W. S. Anderson, con Christopher Lambert nel ruolo di Raiden. Entrambe le pellicole sono ispirate ai due storici picchiaduro, ma non fanno gridare al miracolo. Sono comunque due film onesti e fedeli.
È negli anni Duemila però che le trasposizioni decollano. Nel 2001 vedono la luce un dimenticabile film in CGI su Final Fantasy, diretto da Hironobu Sakaguchi e Moto Sakakibara, e il più noto Lara Croft: Tomb Raider, di Simon West, che affida il ruolo dell’eroina ad Angelina Jolie, sottoponendola a una preparazione atletica tra arti marziali, uso di armi da fuoco, rafting e guida sportiva, che purtroppo non basta a decretarne il successo.
Nel 2002 Paul W. S. Anderson si dedica a Resident Evil, impacchettando un film che prova a ricostruire le angoscianti atmosfere da survival horror tipiche della serie. Risultato: un film con alcune scene azzeccate ma per il resto poco convincente, benché sia riuscito ad avere cinque seguiti.
Tra il 2005 e il 2008 vengono girati diversi film tratti da altrettante storiche saghe. Per citarne alcuni, nell’ordine: Alone in the Dark (Uwe Boll), Doom (Andrzej Bartkowiak), Silent Hill (Christophe Gans), Max Payne (Mark Wahlberg) e Hitman – L’assassino (Xavier Gens).
La lista prosegue fino al 2019, ma non ci interessa renderla esaustiva. Più o meno tutte queste trasposizioni si muovono tra alti e bassi. Possono essere più o meno apprezzate, avere più o meno successo al botteghino (si veda l’ultimo Pokémon: Detective Pikachu, di Rob Letterman, 2019), ma finiscono presto nel dimenticatoio.
Non è per via della stanca retorica “l’originale è meglio del film”. La storia ci ha infatti insegnato che possono esserci pellicole in grado di superare o dialogare alla pari con le opere da cui sono tratte. Non è nemmeno per carenza di risorse, visto che molti di questi sono blockbuster.
Differenze di stile
Riportare su schermo l’esperienza videoludica non è un’operazione semplice. Nel film, così come nel libro o nel fumetto, lo spettatore/lettore “subisce” passivamente le scelte di chi scrive/dirige la storia, mentre nel videogioco si è chiamati a vestire i panni di un personaggio e compiere azioni e scelte che influenzano tanto l’andamento delle vicende raccontate, quanto il successo o l’insuccesso delle quest da affrontare.
Certo, anche nel gioco le scelte sono “subite” dal giocatore, nel senso che si muovono dentro dei binari prestabiliti dal game designer, dai limiti tecnici della potenza di calcolo e della raffinatezza dell’IA utilizzata per la messa in scena, ma i progressi in questa direzione stanno fornendo esempi di esperienze videoludiche in cui la libertà del giocatore è pressoché illimitata. Si pensi all’ultimo capitolo di Grand Theft Auto o a quello di Animal Crossing. Queste caratteristiche in un film possono apparire difficilmente replicabili, ma in realtà è proprio qui che si trovano i tentativi più interessanti.
Di recente lo abbiamo visto in Black Mirror: Bandersnatch (Brooker, Slade, 2018), in cui siamo chiamati, letteralmente, a interagire con la vicenda raccontata, prendendo delle scelte che influenzano lo sviluppo degli eventi e aprono molteplici finali. La pellicola, più che ai videogiochi, si ispira ai libri game, ma si inserisce in scia a una serie di film che, già dagli anni Ottanta, esploravano tanto la fascinazione quanto le potenzialità dei mondi virtuali e il loro rapporto col mondo reale.
Oltre al classico Tron (Steven Lisberger), prodotto nel 1982 dalla Disney, si può citare il più interessante Wargames (1983) di John Badham, che affronta la tematica della Guerra Fredda attraverso la storia di un hacker in erba che riesce a sfidare un’intelligenza artificiale di origine militare, portando incautamente il mondo sull’orlo del collasso termonucleare. O ancora Il piccolo grande mago dei videogames (Todd Holland, 1989) che racconta il nascente mondo degli e-sport, realtà oggi affermata in Cina, Stati Uniti e Giappone. Questi film, in un modo o nell’altro, cercano di portare su schermo non tanto il contenuto narrativo di un gioco, ma quello che potremmo definire il punto di vista del giocatore.
PDV
Nel mondo dei videogiochi i punti di vista che vanno per la maggiore sono due: la prima e la terza persona, ed entrambi, a loro modo, permettono al giocatore di tenere sott’occhio una serie di informazioni utili a monitorare il campo d’azione e lo stato del personaggio, dunque a sviluppare tattiche e strategie, distinguendo così il piano pragmatico di gioco da quello astratto del racconto.
Nella prima persona ricadono gli FPS (first-person shooter). In questo tipo di giochi non vediamo il nostro personaggio, ma solo le armi che imbraccia o gli oggetti che afferra e utilizza. È una narrazione diretta, che permette ritmi di gioco frenetici e un’immedesimazione totale.
A quanto sappiamo, se si esclude il mondo del porno, un solo film ha osato replicare questo stile: Hardcore! (2015) del regista, sceneggiatore e musicista russo Ilya Naishuller, che estende un’idea già utilizzata per alcuni videoclip della sua rock band moscovita. Utilizzando delle GoPro montate sul viso degli attori e stuntman che interpretano il protagonista, il film ci cala direttamente nell’azione come farebbe un FPS, tra scazzottate, sparatorie, esplosioni, inseguimenti, salti, cadute, etc. Non vediamo mai il protagonista in volto, né sentiamo la sua voce, ma vediamo solo le sue mani afferrare oggetti, lanciarli, impugnare armi, come se fossimo noi a vivere la storia.
La pellicola, va da sé, punta tutto su questa trovata e dire che la trama è pretestuosa è un eufemismo: un uomo di nome Henry, a cui hanno sostituito gli arti con delle protesi meccaniche, deve sbarazzarsi di un’organizzazione di mercenari guidata da uno psicopatico che vuole ucciderlo. Quanto basta a mettere in moto l’action movie ma non a reggere la pesantezza di un film girato interamente in prima persona.
L’altra via è la classica terza persona, dove ricadono gli action/platform e derivati (le varianti sono tantissime). Nel caso più comune la telecamera si posiziona alle spalle del personaggio giocante e lo segue per tutta l’azione, lasciando però al giocatore la libertà di muoverla in tempo reale, per adattare la visuale alle azioni che si susseguono sullo schermo, donando quindi un’esperienza più cinematografica e perciò più facilmente replicabile.
In questa categoria ricadono pellicole dimenticabili, come Stay Alive (William Brent Bell, 2006), un teen-horror sulla falsariga di The Ring (Gore Verbinski, 2002), e pellicole discrete, come Edge of Tomorrow – Senza domani (Doug Liman, 2014), un film di fantascienza in cui il loop temporale ricalca lo spirito del muori-e-ripeti tipico dell’esperienza di gioco, tant’è che, nell’edizione inglese, si chiama Live. Die. Repeat.
Tra le ultime uscite citiamo Guns Akimbo (2019) di Jason Lei Howden, con protagonista Daniel Radcliffe, l’attore che interpretava Harry Potter. Il film racconta l’assurda vicenda di Miles, sviluppatore di videogiochi scadenti che viene rapito dallo psicopatico creatore di SKIZM, un gioco “reale”, in cui le persone sono chiamate a farsi fuori a vicenda come se si trovassero dentro un videogame. Le loro folli imprese vengono riprese e trasmesse nel Dark Web, con tanto di classifica e punteggio. A Miles vengono impiantate chirurgicamente delle pistole nelle mani, e gli viene assegnato il compito di sfidare la campionessa in carica del gioco, Nix, un personaggio a metà strada tra Harley Queen e Lara Croft.
Il film ha una struttura da action movie, ma i protagonisti sono costretti dagli eventi ad agire come personaggi di un videogioco, avvicinandosi in questo senso a quanto proposto da Mark Neveldine col film di fantascienza Gamer (2009), in cui dei condannati a morte vengono “connessi” a un giocatore attraverso un microchip impiantato nella corteccia celebrale, e dunque utilizzati come personaggi giocanti di una battle royale reale, per il divertimento del pubblico pagante. Una variante di quanto visto anche in Death Race (2008), di Paul W. S. Anderson, altra pellicola che si ispira al mondo dei videogiochi (Destruction Derby o Twisted Metal), sebbene sia il remake di un vecchio film di fantascienza.
Anche l’Italia ha sfornato qualche titolo. Citazione di merito va a Metal Gear Solid: Philanthropy (2009), un film semi-amatoriale, low-budget e senza scopo di lucro, girato da Giacomo Talamini e prodotto dalla Hive Division, per il puro piacere di omaggiare il gioco. Si può vedere su Youtube.
Dal taglio più professionale abbiamo Ride (2018), scritto dagli autori di Mine (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, 2016) e girato da Jacopo Rondinelli. Il film racconta le vicende di due ragazzi amanti degli sport estremi che vengono coinvolti in una misteriosa gara di downhill nelle Alpi, e lo fa come se stessimo assistendo a una partita di un videogioco. Sia nell’estetica, con ampio uso di inquadrature soggettive e grafiche in sovrimpressione che aumentano l’esperienza visiva dello spettatore/giocatore, sia nei contenuti: i due protagonisti sono chiamati a svolgere una gara suddivisa su più livelli, sviluppata entro percorsi dotati di checkpoint, con tanto di premi ottenuti in base al punteggio accumulato, quest segrete da scoprire, trappole da evitare, nemici da affrontare e boss di fine livello.
Il problema di Ride è che si risolve tutto in scene esteticamente lodevoli (Rondinelli è un regista di videoclip pubblicitari) ma incapaci di coinvolgere emotivamente lo spettatore, tra protagonisti anonimi, nemici caricaturali e una storia banale. Il citazionismo poi abbonda (dal monolite di 2001: Odissea nello spazio alla Dharma Initiative di Lost), e da metà film in poi anche la simulazione videoludica perde di interesse, arrivando stancamente alla soluzione finale.
Questo problema è presente anche in Guns Akimbo e titoli simili, dove attori più carismatici non bastano a reggere la stereotipata rappresentazione che viene fatta del mondo videoludico, spinta forzatamente sopra le righe, ai limiti del grottesco, con dosi eccessive di comicità, follia, caos e personaggi improbabili.
In attesa della (piena) maturità
Ciò che spesso manca ai film videoludici è, forse, la volontà di andare oltre gli stilemi estetici dei videogiochi utili a giustificare il puro intrattenimento, come già poteva fare Pong in un cabinato degli anni Settanta.
Si può osare di più. I grandi registi hanno avuto modo di confrontarsi con la letteratura, e più recentemente hanno iniziato a farlo con maturità anche coi fumetti (vedi i lavori di Burton, Nolan, Snyder, i fratelli Russo). I videogame invece sono un medium ancora giovanissimo, e forse come tali vengono trattati, nonostante dimostrino ritmi di crescita ed evoluzione impressionanti e alcune produzioni, non necessariamente tripla A, possano essere considerate, per profondità di scrittura e regia, al pari di un’esperienza cinematografica o letteraria. Ognuno ci metta le sue.
Manca, nel cinema videoludico, il tocco d’autore, la mano di un regista che abbia una visione personale non solo dell’opera da interpretare, ma anche del medium da cui è tratta, riuscendo a trovare una quadra che vada oltre lo stereotipo dell’immaginario comune, e proponendo qualcosa che non sia un semplice riadattamento della storia o un film action condito di grafiche che richiamano il videogame. Ad esempio film come Ralph Spaccatutto (Rich Moore, 2012) e Ready Player One (Steven Spielberg, 2018) funzionano bene, perché riescono a connettere lo spirito del gioco col cinema d’intrattenimento, senza prendersi troppo sul serio e senza scadere continuamente in cliché e stereotipi che indeboliscono la visione.
Allo stesso modo, anche la serie Black Mirror, oltre il citato “Bandersnatch”, ha esplorato l’universo videoludico con una certa maturità estetica e narrativa (“Giochi pericolosi”, “USS Callister”), dando poi il meglio di sé nel raccontare il processo di gamification della realtà (“Orso bianco”, “15 milioni di celebrità”, e “Caduta libera”). Nell’attesa dunque di vedere una più cospicua e matura convergenza tra questi due universi, e consapevoli del fatto che questa lista è incompleta, tanto per i giochi quanto per i film, possiamo goderci quanto di buono è stato fatto finora su entrambi i fronti. Le storie non mancano.