Guardando il gameplay di Control, ho appurato quello che ritengo essere il più grande limite delle produzioni Remedy. Mi riferisco a una certa ostinazione, largamente condivisa dall’industria, nell’affidare a banali sparatorie la progressione dei propri racconti. La narrazione è così scandita dagli scontri a fuoco, Cerberi posti a oziosa guardia della prossima cutscene: Sam Lake vuole che tu la veda ma l’etichetta domanda un antico cerimoniale, l’esplicito superamento della prova. Per nulla obsoleto, il concetto di prova è archetipico: a essere rudimentale è invece la forma con la quale è espresso, risalente alle strutture più primitive del videogioco.
Naturalmente, non è lo shooting a essere una meccanica negativa a prescindere: rappresenta però abbastanza frequentemente un approccio rinunciatario al game design, una scelta di comodo. Lo scontro a fuoco, ma più in generale la rimozione diretta dell’ostacolo, è la soluzione più collaudata per assicurare a un videogioco la sua componente di interazione esplicita, solitamente la più basilare. Il videogioco, del resto, si valuta attraverso la facoltà d’intervento offerta dalla sua realtà, e per essere venduto al grande pubblico ha bisogno di una azione da compiere che sia facilmente riconoscibile. Il caso Death Stranding è esemplare, un gameplay deliberatamente misterioso causa sia attrazione che sospetto. Remedy ha da tempo scelto l’azione dello sparare, alla quale successivamente applica il suo ottimo storytelling. Nei titoli del team finlandese, lo shooting è abbastanza semplicistico, risultando ancora più banale a causa del contrasto con una narrazione generalmente superiore alla media.
La sparatoria è, allora, un metodo ozioso per portare in scena la logica più basilare del conflitto: obiettivo e ostacolo, piombo nel mezzo. La drammaturgia Remedy è molto poco videoludica, tant’è che l’elemento autoriale si ravvisa quasi esclusivamente nella scrittura di Sam Lake. All’aspetto ludico competono le meccaniche di genere, quelle di un modesto sparatutto in terza persona. Le sparatorie di Max Payne non erano solo narrativamente ben contestualizzate: grazie all’intuizione del bullet time erano anche dotate di una loro componente drammaturgica, per quanto derivativa di un certo immaginario action. Dal canto suo, il romanziere dalla pistola costantemente fumante non funzionava altrettanto bene. Prima di essere ampiamente ridimensionate, le ambizioni iniziali di Alan Wake erano quelle di una più sofisticata avventura investigativa.
Nonostante il panorama videoludico contemporaneo proponga numerose e valide alternative, il videogioco mainstream si dimostra ancora restio ad abbandonare queste dinamiche. Persegue, invece, un approccio primitivo al game design che non concepisce il contenuto di un videogioco come qualcosa che dovrebbe essere strettamente correlato, quando non coincidente, alla sua stessa forma. In altri termini, pensa al videogioco come giocattolo e non come gioco. In Silent Hill, il capolavoro di Keychiro Tojama, gli aspetti migliori del videogioco emergono ai margini di una operazione parassitaria rispetto alle forme di un genere ben codificato, il survival horror. Per questo, la componente ludica di Silent Hill appare profondamente meno interessante del contenuto e della forma del suo stesso racconto.
Nello sviluppo del gioco, prodotto da Konami, coesisteva sia l’ambizione di proporre un’alternativa commerciale a Resident Evil, alla quale consegue una certa aderenza al canone del genere, sia la componente autoriale di Keychiro Tojama. Quest’ultima, però, si manifesta nel gioco solo attraverso il suo immaginario e, più in generale, nella sua narrazione. Per progredire nel racconto, occorreva espletare il rituale della sparatoria, l’azione che permetteva di identificare agilmente la natura interattiva del prodotto.
Con Forbidden Siren, qualche anno più tardi, Keychiro Tojama si esprime anche, o forse soprattutto, attraverso meccaniche di gioco. In esse vi si trovano delle proprietà stilistiche ed estetiche che nel gameplay di Silent Hill sono del tutto assenti. Lo shooting è solo una delle scorciatoie usate per risolvere la componente ludica di un videogioco. Il medium ha bisogno di trovare il coraggio di non divertire, per poter creare interazioni significative. Per concludere, penso di poter sintetizzare questo retaggio primitivo del videogioco con una dichiarazione letta su qualche rivista specializzata, nel 2010: Dante, in Dante’s Inferno, divenne un emule di Kratos perché nella Divina Commedia accadeva troppo poco.