Uscito nelle sale nel 2019, Avengers Endgame è velocemente diventato il film che ha incassato di più nella storia del cinema. Era ovunque, tuttavia non è stato accompagnato da alcun videogioco, nonostante per decenni sia stata questa la prassi per i blockbuster. In realtà c’è stata una breve apparizione in Fortnite, ma persino la serie dei videogiochi LEGO, storica roccaforte dei tie-in videoludici, non ha avuto un capitolo dedicato a Endgame. Da qualche tempo il trend è questo, ma ci troviamo arricchiti o impoveriti dalla sparizione degli adattamenti dal cinema? Per capirlo abbiamo parlato con molti sviluppatori che hanno realizzato tie-in videoludici memorabili e tuttora apprezzati. Ecco cosa abbiamo scoperto.
Lo sviluppatore Howard Scott Warshaw è stato uno dei protagonisti del momento storico in cui per la prima volta le strade dei film e dei videogiochi si sono incrociate. Lavorando come programmatore in Atari all’inizio degli anni Ottanta, Warshaw ha creato un terzetto di giochi formato da Yar’s Revenge, Raiders of the Lost Ark e E.T. the Extra-Terrestrial, coinvolto sia nell’effimero successo che nell’improvviso crollo dell’azienda e della sua console 2600. In quanto pioniere, Warshaw con Raiders si è potuto godere un processo di sviluppo privo di ostacoli, e ricorda che il regista del film, Steven Spielberg, fu di grande aiuto. «Il fatto che Raiders fosse un gioco su licenza non ha avuto alcun impatto sullo sviluppo», dice. «L’unica eccezione era che, ogni tanto, arrivava Spielberg e gli mostravo alcune parti del gioco». Raiders fu un successo sia di pubblico che di critica, e presentava alcune idee innovative, come l’uso di un controller per i movimenti e di un altro per l’inventario.
Spielberg, che era un grande appassionato di videogiochi, apprezzava molto l’adattamento. «Gli piaceva davvero, e così lavorai anche a E.T.», ricorda Warshaw. Lo sviluppo di E.T., al contrario, fu fin troppo frettoloso. Warshaw aveva appena finito la lavorazione di Raiders, che aveva richiesto dieci mesi, quando gli fu assegnato il compito di programmare E.T. nel giro di un solo mese, in modo da avere il gioco sugli scaffali a Natale—a mettere pressione c’erano soprattutto i 22 milioni di dollari spesi da Atari per assicurarsi la licenza. Ciò nonostante, la pressione dovuta al prezzo della licenza non era niente in confronto a quella che Warshaw aveva imposto a se stesso. «E.T. non fu una cosa da ridere, questo è certo», ricorda. «La pressione era tremenda, ma non c’entrava la licenza—quella non aveva davvero alcuna importanza. Ciò che mi preoccupava era che volevo creare un prodotto di qualità, e volevo farlo in un tempo da record. Questo ha fatto sparire tutto il resto».
L’adattamento di E.T. per l’Atari 2600, com’è noto, viene spesso citato come una della cause della crisi dei videogiochi del 1983. Secondo Warshaw, il gioco ha dimostrato la miopia di coloro che gestivano quella proprietà intellettuale. «Era uno dei primi casi di licenza cinematografica», dice. «Credo che pensassero “ecco un modo in cui possiamo fare qualche milione di dollari in più”. Non penso che fossero preoccupati di difendere l’integrità di quel prodotto».
Il grande oceano blu
In Gran Bretagna, nel frattempo, il mercato degli home computer era in ascesa, e i videogiochi basati sui film erano una componente importante di quel successo. Ocean Software, con sede a Manchester, si era ritagliata uno spazio nel settore anche grazie a oculati accordi di licenza—in particolare, licenze cinematografiche. L’anno della svolta fu il 1987 con il tie-in basato su Platoon, il celebre film di Oliver Stone sulla guerra in Vietnam. Nessun altro publisher, a parte Ocean, aveva visto del potenziale nella conversione di un simile contenuto per adulti in un videogioco rivolto ai ragazzi—ma dopo che l’operazione riuscì, Ocean si ritrovò tutto d’un tratto a ricevere regolarmente sceneggiature da Hollywood.
La possibilità di siglare accordi di licenza durante la fase di preproduzione di un’opera cinematografica dava a Ocean il tempo necessario a pubblicare il tie-in in contemporanea con l’uscita del film nelle sale o nei circuiti di noleggio—un’opportunità di marketing che poteva rivelarsi redditizia. Questo accadde con RoboCop, uno shooter a scorrimento orizzontale pubblicato nel periodo natalizio del 1988, quando il film arrivò in home video. Ocean fu anche astuta nel gestire i diritti di RoboCop: dopo averli acquisiti da Orion Pictures, li girò allo studio di sviluppo giapponese Data East, che produsse la versione arcade del gioco. Ocean allora esercitò la sua opzione per realizzarne una versione home computer in occidente. Le vendite registrarono numeri da record, e la versione per ZX Spectrum restò in cima alle classifiche per un anno.
Il programmatore Peter Johnson ha lavorato alle versioni Atari ST e Amiga del gioco. Collaborando al progetto da casa, gli venne mandato del prezioso materiale di riferimento. Il gioco arcade realizzato da Data East, fornito da Ocean, era racchiuso in una pratica valigetta portatile, insieme a una copia completa della versione Spectrum. Ciò a cui Johnson invece non aveva accesso era il film stesso, dato che non era ancora disponibile in home video. «Il film era introvabile», racconta Johnson. «Non lo avevo visto al cinema, e il gioco doveva essere pubblicato proprio per coincidere con la sua uscita in videocassetta…». Per anni Ocean ha replicato simili astute strategie con i giochi su licenza: tie-in basati su film come Batman: The Movie e The Untouchables furono successi, mentre l’adattamento di RoboCop 3 uscì in anticipo rispetto alla pellicola, che era stata rimandata, e in questo modo evitò di essere associato alle critiche che travolsero il film.
Il successo di Ocean con i giochi su licenza, e la prospettiva di notevoli entrate, portarono il resto del settore a interessarsi a questa pratica. Nel corso del decennio successivo i tie-in diventarono parte del merchandising cinematografico. A causa però della necessità da parte dei publisher di contenere i costi di sviluppo dopo aver sborsato una fortuna per acquisire le costose licenze, e anche di ridurre i tempi di sviluppo per uscire in contemporanea con i film, verso la metà degli anni Novanta la qualità dei videogiochi peggiorò. Titoli come Batman Forever di Probe Software e Street Fighter: The Movie di Capcom (praticamente un gioco basato su un film a sua volta basato su una hit da sala giochi) abbassarono l’asticella in maniera significativa.
Lo sviluppatore Austin Ivansmith di WayForward Technologies—che ne sa qualcosa di realizzazione di videogiochi tie-in—è sensibile all’argomento. «Tornando al passato e guardando una speedrun di Batman Forever su Super Nintendo, è facile notare elementi del film che non hanno alcun senso», dice. «Avendo però lavorato a diversi giochi su licenza posso guardare e pensare “ok, capisco cosa hanno provato a fare gli sviluppatori qui; non hanno idea di come sia fatto il costume di Robin, perché probabilmente non gli sono state date immagini a riguardo, perciò sono andati avanti usando come riferimento lo show televisivo”». Howard Scott Warshaw, che alla fine degli anni Novanta aveva ormai lasciato Atari da un pezzo, giudica il settore con disillusione: «Non ero felice della situazione. Però la capivo. Con una laurea in economia, comprendevo le necessità del settore. Ogni medium matura col tempo. Tutto è determinato dai conti. Gli investimenti richiesti per produrre un’opera crescono, e di conseguenza diminuisce la propensione al rischio di chi mette i soldi: così l’innovazione si blocca».
Licenza di appassionare
Negli anni Novanta ad ogni modo c’erano ancora sviluppatori intenzionati a realizzare giochi su licenza innovativi. Basti pensare a Goldeneye 007 per Nintendo 64: lo shooter di Rare ridefinì il genere ed ebbe un successo tale da permettergli di rivaleggiare con il film originale in termini di pura e semplice rimuneratività. Il successo di Goldeneye 007 va attribuito, secondo il game director Martin Hollis, a un team di sviluppatori instancabili e di talento, ma anche al loro publisher, Nintendo, e ai detentori dei diritti, EON Productions, che si dimostrarono generosi sia con la licenza sia riguardo l’accesso ai materiali del film. «Nintendo ci ha lasciato un’ampia libertà—ci hanno dato un documento in cui era spiegato nel dettaglio tutto ciò che potevamo usare, e si trattava praticamente di qualsiasi cosa nell’universo di Bond», racconta Hollis. «Qualche tempo dopo credo che si siano accorti di essersi spinti troppo in là». EON dimostrò altrettanta generosità: «Abbiamo guardato una parte del girato, siamo andati sui set, abbiamo visto la realizzazione dei modelli e i gadget, e avendo questo tipo di accesso era difficile restare sorpresi», dice Hollis. «Aver visto il film ha un impatto minimo sul gioco. Si tratta più che altro di trovare conferme».
Il film arrivò nei cinema nel novembre del 1995, mentre il gioco venne rimandato più volte, e alla fine venne pubblicato nell’agosto del 1997. «C’era pressione», ricorda Hollis di quel periodo. «Non era inflessibile. Era una pressione ragionevole, studiata. Avevamo bucato un Natale, e Howard Lincoln [allora a capo di Nintendo of America] mi spedì un fax spiegandomi quanto fosse importante catturare l’interesse dei consumatori e rispettare le scadenze. Il mio punto di vista era semplicemente che il gioco non era pronto». Hollis inoltre riconosce a Rare di aver fatto loro da scudo di fronte al potere di Nintendo. «Nessuno della Rare mi disse mai che il gioco era a un passo dall’essere cancellato, ma avevo il sospetto che Nintendo avesse smesso di pagare Rare. C’è stato un qualche tipo di accordo, ma erano così preoccupati che smisero di finanziare il progetto. Ma questo non mi venne mai comunicato».
Il team, non dovendo più rispettare la data di uscita nelle sale del film Goldeneye, ebbe la possibilità di iterare. Uno dei risultati fu la popolare modalità multiplayer del gioco, che emerse molto tardi nel corso dello sviluppo. Nonostante il successo di Goldeneye 007 Hollis non è interessato a lavorare a un altro adattamento dal cinema: «Adoro i film, perciò potrebbe sembrare ovvio che io abbia una carriera videoludica basata sui loro adattamenti», dice Hollis. «Nell’universo creato da qualcun altro però hai meno libertà. Se devi restare fedele all’opera originale, e io credo che occorra dimostrare rispetto, non puoi stravolgere il materiale di partenza. Ma così resti inevitabilmente vincolato in mille modi diversi, e la tua creatività non riesce a mettersi in moto».
Un successo per K.O.
Al pari di RoboCop, Goldeneye ha ricordato all’intero settore quanto potessero essere lucrativi gli accordi di licenza. Peter Johnson, che a questo punto è a capo dello studio Rage Games di Newcastle, decise di indirizzare le risorse in quella direzione. «Rage avrebbe presto avuto modo di capire quanto valore ha una licenza, e quale enorme vantaggio ti dà quando si tratta di promuovere un gioco», spiega Johnson, in cui studio acquisì i diritti per realizzare videogiochi basati sui film di Rocky. «È una cosa che il mio game designer, Mark Sample, voleva fare da anni. Aveva in mente il gioco ancora prima che ottenessimo la licenza».
Nel corso degli anni 2000 i tie-in videoludici diventarono sempre più popolari, arrivando a rappresentare una fetta di mercato molto più ampia rispetto ai tempi di Ocean Software. Alla fine, però, è stato un nuovo trend hollywoodiano a causare inavvertitamente il loro declino. L’industria cinematografica si fece infatti ingolosire sempre di più dalle opportunità di incassi multimiliardari offerte da produzioni seriali come Harry Potter o Transformers, e le case di produzione non solo iniziarono a essere più protettive nei confronti delle proprietà intellettuali, ma il ciclo continuo di nuove uscite nelle sale determinò tempi di sviluppo sempre più ridotti per i game designer.
Più di quello che sembra
Andrew Burrows, sviluppatore dello studio inglese Warthog Games, lavorando al tie-in di Harry Potter e la pietra filosofale ha avuto un primo assaggio delle complicazioni legate all’adattamento di un universo creato da qualcun altro. «Quella fu la prima volta in cui ho avuto a che fare con un tie-in e con una casa di produzione cinematografica che si impuntava e opponeva resistenze», racconta Burrows. «So che alcune persone si sarebbero sentite frustrate, ma per me quelle restrizioni hanno rappresentato solo un’altra opportunità per tornare indietro e capire in che modo le cose avrebbero potuto funzionare».
A causa della crescente riservatezza delle case di produzione cinematografiche Burrows incontrò delle difficoltà già nel fare proposte per acquisire licenze—i progetti erano avvolti nella massima segretezza per evitare che qualche sceneggiatura finisse su internet. Per Burrows si dimostrò particolarmente complicato iniziare a lavorare su un gioco basato sul film d’azione xXx con Vin Diesel. «Avevamo un concept pronto per xXx», ricorda Burrows. «Avevamo una bozza di sceneggiatura e avevamo letto i libri provando a capire meglio chi fosse questo personaggio. Avevamo sentito dire che nel film c’era un aeroplano, perciò il nostro concept era interamente basato sull’idea di evitare che un aereo venisse dirottato. Il gioco non venne preso». Non c’era nessuna scena con un aereo nel film—una lampante dimostrazione di quanto fosse difficile per gli sviluppatori fare proposte a case di produzione dalle bocche cucite.
Era tutto l’opposto rispetto agli anni Ottanta, quando Ocean Software riceveva intere sceneggiature da prendere in considerazione. È lavorando per la Traveller’s Tales, tuttavia, che Burrows si immerge davvero nei tie-in cinematografici. Lì ha avuto modo di occuparsi di LEGO Star Wars, del tie-in di Il leone, la strega e l’armadio nel 2005, fino a ricoprire il ruolo led designer di Transformers: The Game nel 2007. Molte cose erano cambiate dai tempi dell’Atari però, e gente come Steven Spielberg—produttore esecutivo del film Transformers—non era più interessata allo sviluppo dei videogiochi. Anzi, tutto il contrario. Ricorda Burrows: «Michael Bay [il regista del film] era abbastanza sospettoso con le aziende videoludiche, e non condivideva il design dei robot. Non sapevamo nemmeno quale fosse la trama. Eravamo già avanti con lo sviluppo prima di iniziare a ricevere gli asset».
A complicare ulteriormente le cose, lo studio stava lavorando contro il tempo. “Abbiamo ottenuto la licenza di Transformers solo un anno prima che uscisse il film”, ricorda Burrows. In ogni caso Traveller’s Tales era uno studio rinomato per la capacità di realizzare giochi con deadline molto ravvicinate, e questo ne faceva la prima scelta per gli adattamenti dal cinema. Transformers venne pubblicato in tempo, e inoltre uscì anche per l’allora nuova generazione di console che nel frattempo era stata annunciata—un risultato non da poco, considerato il poco tempo a disposizione per lo sviluppo. «Siamo riusciti ad arrivare sugli scaffali prima che il film uscisse nelle sale, così abbiamo evitato di perdere un sacco di marketing e di slancio», dice Burrows. «Ha davvero aiutato le vendite, ed è una testimonianza di quanto si siano date da fare tutte le persone coinvolte, perché abbiamo lavorato duro a questi giochi».
Le cose ad ogni modo sono cambiate. Produzioni segretissime, case di produzione cinematografiche riservate, cicli di sviluppo brevissimi e la nascita di fandom estremamente critici su internet («La community può essere davvero spietata nel dare feedback», afferma Burrows) hanno reso insostenibile la realizzazione di tie-in videoludici con le stesse modalità un tempo. La qualità alla fine ne ha sofferto—i giochi di Harry Potter sono stati stroncati dalla critica—e così case di produzione, publisher e sviluppatori hanno dovuto trovare un modo per fare le cose diversamente.
Un passo in avanti
Questo ci porta a parlare di WayForward Technologies, uno studio che nell’ultimo decennio è stato un pioniere di successo nel seguire una nuova strada. Austin Ivansmith, director di alcuni giochi ben accolti di WayForward come Thor: God of Thunder e The Mummy Demastered, ha perfezionato un approccio meno diretto ai tie-in videoludici. Si basano sempre sulla proprietà intellettuale, ma senza più dipendere dai capricci delle case di produzione che ne detengono i diritti. Dice Ivansmith: «Lavorare con Marvel [su Thor] è stato fantastico—ci hanno dato gli asset grafici da subito. Non potevamo contraddire il film, ma abbiamo inserito altri mondi dai fumetti, e creato alcuni personaggi per arricchirne l’universo».
Andare oltre al mondo del film è stato un passo liberatorio, e ha restituito agli sviluppatori un po’ di libertà creativa. Allo stesso modo, i publisher hanno iniziato a valutare nuovi modi per facilitare il ciclo di sviluppo. «Sega—che ha pubblicato il gioco usando sei differenti studi per sei piattaforme diverse—ha organizzato una serie di eventi, portando qualcuno da ogni studio di sviluppo», ricorda Ivansmith. «Inoltre ha condiviso gli asset già approvati, e molti dei concept per i troll e per il boss del livello ambientato ad Asgard provenivano dallo studio che si è occupato della versione Xbox del gioco. Ci ha aiutato molto nel definire l’aspetto visivo fin dall’inizio».
Lavorando all’adattamento di La mummia, che doveva essere il primo film di una nuova serie di Universal chiamata Dark Universe, WayForward ha usato il medesimo approccio indiretto, scegliendo come protagonista del gioco un soldato senza volto arruolato nei ranghi di Prodigium, un’organizzazione di cacciatori di mostri, anziché Tom Cruise. Secondo Ivansmith: «Dato che a quel tempo era in programma una serie di film, aveva il suo senso. Ci dava la possibilità, nell’eventualità di un sequel, come La moglie di Frankenstein o L’uomo invisibile, di usare quello squadrone e lo stesso tipo di gameplay per unire i giochi tra loro. Tom Cruise è la grande star di quasi tutte le scene d’azione di La mummia, ma in La moglie di Frankenstein magari il personaggio di Angelina Jolie non farà tutte quelle corse e quei salti».
Case di produzione come Universal e Marvel sono state veloci ad adottare questo approccio. Ivansmith nota come il supporto da parte loro sia stato in generale positivo in questa nuova era dei giochi su licenza, anche se questo vuol dire perdere le lucrative opportunità offerte dall’uscita simultanea di film e relativo videogioco. «Alla Universal i nostri giochi piacciono così tanto che hanno voluto non abbinarli più alle uscite cinematografiche, dandoci il tempo di cui abbiamo bisogno per lo sviluppo, in modo da far uscire un gioco all’altezza delle aspettative». I tie-in videoludici, allora, non sono spariti—si sono semplicemente evoluti, perché i detentori dei diritti si sono resi conto di quanto fosse folle far uscire giochi di scarsa qualità realizzati in fretta solo per sfruttare la forza del titolo del film. Ciò potrebbe voler dire che tie-in di blockbuster delle dimensioni di Avengers: Endgame non saranno più frequenti come in passato, ma forse è questo il prezzo da pagare per avere giochi su licenza migliori.