Mi ha sempre impressionato, ma anche divertito, pensare a quante persone nell’antica Grecia si siano dedicate alla creazione di problemi per il prossimo, inventando grattacapi di ogni genere capaci di impegnare per secoli le generazioni a venire. Potremmo suddividerli in generi: indovinelli, paradossi, dilemmi. Questi ultimi sono forse i più insidiosi, perché, riguardando spesso questioni filosofiche, restano sempre aperti a risposte diverse, a ripensamenti e a ribaltamenti perenni e ulteriori. In effetti un indovinello si esaurisce una volta che se ne conosce la soluzione—prendiamo il caso del famoso enigma della Sfinge: possiamo restare ammirati dall’eleganza della sua formulazione, ma non continuiamo ad arrovellarci sul suo contenuto. Allo stesso modo un paradosso, come il celebre problema di Achille e la tartaruga proposto da Zenone, spesso smette di essere tale non appena abbiamo a nostra disposizione gli strumenti matematici necessari a identificare il passaggio in cui si trova l’errore. Un dilemma filosofico invece non smette mai di interrogarci; qui ne prenderemo in considerazione uno che si trova nel Cratilo di Platone, esprimibile nella forma di una semplice domanda: chi conosce meglio un oggetto, chi lo ha creato o chi lo utilizza?
Vale subito la pena notare che l’argomento principale del Cratilo è tutt’altro—in estrema sintesi: il rapporto tra conoscenza e linguaggio, e la correttezza dei nomi usati per designare le cose—e perciò al suo interno la questione che stiamo prendendo in esame, posta quasi di sfuggita, rischia di passare inosservata e di sembrare persino innocente. In realtà ha conseguenze estremamente gravi: credo che la primissima tentazione, dovuta al nostro rapporto ai limiti del magico con strumenti tecnologici dei quali sapremmo spiegare il funzionamento solo in termini molto vaghi, sia quella di accordare la conoscenza migliore a chi crea e non a chi utilizza; ma, considerando il dilemma al più alto livello di astrazione possibile, scegliere il creatore anziché l’utente ci costringerebbe allo scetticismo. Dovremmo cioè accettare l’idea che solo le produzioni umane siano pienamente conoscibili, mentre il mondo, la natura o l’universo, non creati da noi, ci saranno per sempre inaccessibili. In ogni caso qui ci atterremo all’impostazione originale del Cratilo, in cui ci si limita, per così dire, a prendere in considerazione un oggetto qualsiasi.
Platone, avendo forse già meditato sugli esiti estremi a cui abbiamo appena accennato, nel suo dialogo, per voce di Socrate, si schiera a favore dell’utente: per ottenere un buon timone, argomenta, occorre che il timoniere indirizzi e supervisioni l’operato del falegname [Cratilo, 290b]. Le nostre esperienze quotidiane, tuttavia, non di rado suggeriscono il contrario: quando si rompe una console o uno smartphone quasi sempre sceglieremo di rivolgerci all’assistenza clienti della casa produttrice e di rispedire l’oggetto—letteralmente—al creatore, di fatto riconoscendo a quest’ultimo una superiore conoscenza circa il modo in cui la cosa in questione è fatta e può essere riparata; ma che succede quando l’oggetto preso in esame è un videogioco?
Un videogioco è inevitabilmente un gioco comandato, e in quanto tale si distingue tanto dal gioco più generalmente inteso quanto da altre forme di gioco ben formalizzate. Basta dare una palla a un gruppo di bambini per veder nascere innumerevoli giochi, e altrettante varianti degli stessi, con regole modificate di giorno in giorno o nel corso di una stessa partita; anche coloro che partecipano a un gioco da tavolo potrebbero mettersi d’accordo e decidere di modificare o di ignorare alcune regole; e persino durante una partita di calcio qualsiasi giocatore resta libero in qualunque momento, incorrendo nella relativa sanzione, di violare il regolamento e ad esempio raccogliere il pallone con le mani. In un videogioco calcistico come FIFA, invece, non c’è alcun pulsante assegnato all’azione ‘raccogliere il pallone con le mani’: non si può fare non perché sia contro le regole, ma perché non esiste la parte di codice che renderebbe possibile l’infrazione. La scrittura del codice conferisce allo sviluppatore un controllo assoluto su ciò che è possibile o non è possibile fare, e questo è un solidissimo argomento in favore dell’ipotesi che sia il creatore ad avere la migliore conoscenza, diremmo pure una conoscenza impareggiabile, di un videogioco.
Iniziamo subito a vedere come scardinare l’impostazione appena presentata sfruttando la sua stessa premessa, vale a dire che il videogioco sia un software, e il codice ne delimiti lo spazio di possibilità. Se l’alfabeto ci ha permesso di conservare le informazioni, e Gutenberg ci ha consentito di trasmetterle, l’informatica per la prima volta ci invita a manipolarle. Abbiamo fatto presto a digitalizzare libri, film e dischi, ma nessuno dei relativi media era stato concepito per essere manipolato: al contrario, ci troviamo puntualmente di fronte a opere che restano uguali tanto nel tempo quanto nel corso della loro fruizione, o di fruizioni ripetute. 2001: Odissea nello spazio oggi non è diverso rispetto al 1968, e se lo guardo dieci volte di seguito non lo troverò cambiato.
I videogiochi invece nascono digitali, sono progettati per hardware che invecchiano e vengono dismessi, sostituiti o aggiornati, e sono pensati per essere manipolati attraverso l’interazione. Tutto ciò ha conseguenze decisive. I videogiochi degli anni Ottanta e Novanta oggi spesso si giocano su piattaforme diverse da quelle originali, in versioni remake o remastered, oppure attraverso l’emulazione; le uscite più recenti invece condividono con gli altri software il versioning, per cui ricevono regolarmente aggiornamenti che aggiungono o modificano contenuti, opzioni e modalità di gioco. Oltre a cambiare nel tempo, i videogiochi non offrono mai la stessa identica esperienza, e hanno a disposizione vari strumenti per farlo: tra gli innumerevoli esempi possibili, basti pensare alla selezione del livello di difficoltà, presente in quasi tutti i titoli, oppure l’ordine in cui si svolgono le missioni negli open world, o ancora i mondi e i livelli sempre diversi nei giochi a generazione procedurale. In quest’ultimo caso gli esiti sono del tutto imprevedibili per gli stessi creatori, che delegano al codice e al caso il compito di rendere unica ogni singola partita. Di fronte a questo universo di esperienze la tentazione è come minimo quella di riformulare la domanda: un gioco lo conosce meglio chi lo ha creato o chi lo utilizza di più? Il dubbio insomma, è che l’opera videoludica si renda disponibile a una conoscenza incrementale, per cui una partita ennesima ci può dire molto di più rispetto a una visione ennesima di un film o alla lettura ennesima di un romanzo.
Sembra che le nostre certezze iniziali stiano cominciando a sgretolarsi, e proprio a partire dal codice, cioè da quelle stesse fondamenta del linguaggio videoludico che in teoria avrebbero dovuto provare l’imbattibilità della conoscenza degli sviluppatori; al contrario, ci sono tante occasioni in cui il codice si rivolta contro i suoi creatori, offrendo possibilità inaspettate agli utenti—e i nomi che diamo a tali occasioni sono glitch e bug, come quelli che gli speedrunner sfruttano per completare un gioco nel più breve tempo possibile. In questi casi ci troviamo di fronte a situazioni di gioco—e a porzioni di codice—che sono evidentemente sfuggite all’attenzione degli sviluppatori; il giocatore infatti non si limita a prendersi la libertà di darsi obiettivi diversi da quelli originariamente intesi—come può essere il caso di una run pacifista di Super Mario Bros.—ma punta a ottenere risultati che vanno contro le intenzioni dei creatori. Lo stesso primo capitolo di Mario ne è una lampante dimostrazione: gli speedrunner ormai riescono a completarlo in meno di cinque minuti non solamente grazie a tanto allenamento e a ottimi riflessi, ma anche per merito di un lungo lavoro di ricerca che ha portato a scoprire le falle presenti nel codice e i modi in cui possono essere sfruttate per guadagnare nuovi preziosi decimi di secondo. Non credo ci siano dubbi sul fatto che uno speedrunner capace di competere per il record del mondo abbia maturato una conoscenza davvero profonda del gioco.
Ci sono altri casi di codice in rivolta che potremmo ugualmente trovare interessanti: uno dei miei preferiti l’ho scoperto di recente guardando su Youtube il documentario che Noclip ha dedicato alla storia di Arkane Studios: nella fase introduttiva di Dishonored è possibile raggiungere la zona di spawn di Daud, uno dei villain del gioco, e ucciderlo prima che possa assassinare l’imperatrice, ovvero compiere l’evento su cui si fonda la trama. In questo modo pochi minuti di gameplay si rivelano sufficienti a privare di senso e di scopo l’intero gioco e il suo sequel; e il codice, da parte sua, reagisce misteriosamente a questa azione del giocatore sfumando la schermata verso il nero. Gli sviluppatori di Arkane Studios, che quando hanno scoperto questo exploit erano già al lavoro su Prey e sul secondo capitolo di Dishonored, non hanno avuto il tempo di indagare sulla reazione drastica ma a suo modo sportiva del codice—una vera e propria resa di fronte a un avvenimento del tutto inatteso; ma c’è una bella serie di video, inaugurata quest’anno da IGN, che ci permette di vedere invece le reazioni degli sviluppatori di fronte a simili imprevisti. I creatori di Shadow of the Tomb Raider ad esempio si divertono molto ma restano anche stupiti e ammirati dalla velocità con cui uno speedrunner riesce ad attraversare texture e scenari avvalendosi di bug e glitch, sfruttando inoltre il caricamento dei checkpoint a suo vantaggio, per evitare le cutscene e avanzare più velocemente nel gioco; e lo stesso stupore lo ritroviamo nelle esclamazioni dei creatori di Half-Life 2 quando vedono un altro speedrunner attraversare in pochi secondi intere sezioni di gioco che magari hanno richiesto diverse settimane di lavoro per essere realizzate. Non è forse questo lo stupore di chi pensava di avere il codice dalla propria parte, e si rende conto di averlo invece contro? Di chi insomma deve ammettere che qualcuno conosce ormai meglio di lui la sua stessa creazione?
Si potrebbe a questo punto iniziare a demolire nuovamente il ragionamento appena fatto, ad esempio notando come, avendo accesso al codice, lo sviluppatore possa dire di—o se non altro arrivare a—conoscere la causa di questi exploit, piuttosto che la loro mera esistenza; e mi viene già in mente come questo punto di vista possa essere a sua volta ancora ribaltato. Sarà ormai chiaro il punto, che del resto abbiamo anticipato fin dall’inizio: una vera domanda filosofica resta infinitamente aperta, e non trova mai una risposta definitiva. In una società come la nostra, molto orientata verso il risultato, il dilemma posto da Platone potrebbe allora risultare un po’ ozioso: perché dovremmo perdere tempo a rifletterci sopra, sapendo già che non troveremo alcuna soluzione? È presto detto: applicarlo alla materia videoludica ci ha portato a conclusioni contraddittorie, ma ci ha pure consentito di fare alcune considerazioni sui videogiochi e sui ruoli di sviluppatori e giocatori, adottando punti di vista diversi per poter scorgere da lì applicazioni, implicazioni e conseguenze, e spesso questo è il modo più proficuo di procedere di fronte a un dubbio o a una questione irrisolta. Penso allora a temi che da settimane continuano a essere di grande attualità: fa bene un manifestante ad abbattere una statua? Sapere che domande del genere non hanno una sola risposta non ci impedisce di prendere una posizione, ma ci aiuta a disimparare a ragionare in termini di vero o falso, di giusto o sbagliato: le domande più importanti quasi mai ammettono risposte così semplici.