I primi passi in un videogioco sono sempre un’esperienza mistagogica, una vera e propria iniziazione ai misteri di un mondo scaturito dalla visione e dagli sforzi di un’unica forza creatrice, vale a dire il team di sviluppatori. Il giocatore allora, in una fase che spesso va ben oltre il tutorial, deve iniziare a familiarizzare con le regole e le convenzioni di un mondo costruito da zero, ogni volta partendo dalle basi. In quante direzioni si può muovere? Quali sono i limiti imposti dalla fisica di quell’universo (quanto in alto si può saltare, quanto velocemente ci si può spostare, quali movimenti sono consentiti)? Cosa succede quando si muore (si hanno nuove vite per continuare da dove si è lasciato, o si ricomincia da capo, e in tal caso, cosa ci si porta dietro dalle esperienze precedenti)? Insomma, c’è materiale per intendere il videogioco come esperienza religiosa, anche più del tennis di Roger Federer.
In alcuni giochi questo genere di esperienza può prolungarsi fino a coincidere con il gameplay nella sua interezza. È il caso di Anodyne 2: Return to Dust, in cui il giocatore viene messo nei panni di Nova, un essere non solamente creato—da una struttura chiamata The Center, presieduta da due entità di natura divina e corrispondenti, in maniera nemmeno troppo velata, a Sean Han Tani e Marina Kittaka dello studio Analgesic Productions—ma creato con una missione specifica: essere una Nano Cleaner, ossia occuparsi della rimozione dal mondo della polvere che affligge i suoi abitanti, o meglio, andare all’interno degli abitanti stessi per aspirare quella polvere; e se vi sembra strano, aspettate di sentire il resto.
Come si intuisce dal titolo, il gioco è il seguito del primo Anodyne, rispetto al quale costituisce un notevole passo avanti in termini di ambizione, guadagnando così un’autonomia che gli consente di essere giocato anche senza conoscere il capitolo precedente. Il modo più immediato per descrivere Anodyne è chiamare in causa la definizione di Zelda-like, che sembra piuttosto accurata soprattutto se pensiamo a un gioco in 2D con visuale dall’alto e pieno di puzzle ambientali. Se andiamo ad aggiungere, seppure, per così dire, a un minor livello di intensità, un certo gusto per soluzioni stravaganti e fuori dagli schemi, in stile Undertale, e una latente dimensione perturbante che va a caratterizzare alcuni livelli, come in Yuppie Psycho o in Lisa, avremo un’idea abbastanza precisa della proposta di Anodyne. «Credo che il primo Anodyne fosse un gioco che, nonostante i suoi difetti, aveva un’atmosfera unica, che pochissimi giochi si sono avvicinati a replicare», mi dice Sean Han Tani. «Di quel gioco abbiamo conservato il simbolismo della polvere, e un’atmosfera tra toni fantastici e momenti di tensione, e l’accostamento surreale tra i vari livelli. In Anodyne 2, questo surrealismo si lega alla storia: le aree sono così diverse tra loro perché si trovano all’interno dei personaggi. Lo scopo era conservare gli elementi fantasiosi e stravaganti, ma rendere il gioco più comunicativo nei confronti del giocatore sul piano narrativo».
L’idea forte di Anodyne 2 è sicuramente quella di avere un mondo 3D di partenza da esplorare (con la possibilità di trasformarsi in una piccola automobile!), incontrando poi vari personaggi da “pulire”, operazione che si effettua restringendosi ed entrando nei mondi 2D presenti al loro interno, e spingendosi in certi casi fino a dimensioni 2D ulteriori e a più bassa risoluzione. Tale struttura provoca diversi effetti: genera innanzitutto sensazioni viscerali, connesse a queste cronenberghiane compenetrazioni di corpi, abbastanza rare da trovare in un videogioco (Pig Eat Ball restituiva forse qualcosa di simile); stimola riflessioni speculative sulla natura della realtà in cui viviamo (siamo soli nell’universo, o siamo soli in questa dimensione?), già affrontate tanto dalla letteratura—si pensi a Flatlandia di Edwin A. Abbott—quanto dalla scienza che, con la teoria delle stringhe bosonica, è arrivata a concepire ben 26 dimensioni; infine, consente un viaggio nella storia dei videogiochi, perché il mondo 3D usa texture tipiche della quinta generazione di console, quella a cui appartengono la prima PlayStation e il Nintendo 64, mentre nei mondi 2D si torna indietro ai 16 bit e alle palette di colori di Super Nintendo e Game Boy Advance.
La progettazione di questa struttura è avvenuta una fase alla volta. «La polvere viene da Anodyne, mentre l’aspirapolvere è una “evoluzione” della scopa che si usava in quel gioco», mi racconta Sean Han Tani. «In linea generale ci piace trovare una meccanica di gioco “tradizionale” che renda il gioco abbastanza interessante, a livello materico, per far avanzare il giocatore nella storia, e l’aspirazione funzionava (ci siamo un po’ ispirati a Kirby). Dopodiché il brainstorming ci ha portato ad alcune idee che volevamo esplorare nei paesaggi surreali della serie, e alla fine siamo arrivati alla decisione di inserire l’azione nel 2D e l’esplorazione nel 3D, sfruttando i vantaggi di entrambi i formati. Con il 3D è più facile creare velocemente un mondo che sembri enorme, con il 2D è più facile creare piccole sequenze di azioni puntuali, o semplici dungeon. Allo stesso tempo, abbiamo trovato i temi che ci interessava inserire nella storia—le trappole delle strutture familiari o religiose, l’importanza di vivere in una comunità, e li abbiamo usati per progettare il cuore della narrazione, The Center e Nova, l’esplorazione dell’isola, e così via. L’idea del restringimento è stato un buon modo non solo per inserire le operazioni di pulizia all’interno della storia, ma anche per creare sottotrame indipendenti, che fossero interessanti di per sé».
Proprio incontrando i vari personaggi le narrazioni esplodono, perché ognuno ha il suo problema da risolvere, ma anche uno spirito incline alla meditazione. Capiterà di frequente di parlare con PNG che si interrogano sul destino o sul loro posto nel mondo, o che cercano di ricordare le proprie vite precedenti. «Per i PNG da pulire abbiamo seguito uno schema preciso», mi spiega Sean Han Tani. «I primi personaggi possono essere puliti in modo molto lineare, anche se i loro problemi non vengono mai risolti del tutto. I personaggi che si incontrano più avanti nel gioco sono più complicati, la pulizia non riesce a cambiare pressoché nulla. Con il prosieguo del gioco volevamo problematizzare l’idea che “riparare” una persona possa essere un’operazione tanto lineare. Gli elementi più legati alla religione vengono principalmente da Marina, in parte per via della sua educazione cristiana, e per i libri che ha letto crescendo. Ma più in generale ciò con cui ha a che vedere Anodyne 2 è una riflessione su cosa fare della propria vita all’interno di certe strutture sociali, e la religione è una di quelle a cui è più comune pensare».
Così non solo il compito del giocatore rimane tanto semplice quanto oscuro, ma diventano sempre più incerte la natura e le conseguenze delle indicazioni ricevute, così come gli scopi verso cui tendono. Gli ambienti poligonali in cui tutto ciò si svolge, che appaiono col tempo sempre più irreali, non solo rispondono a esigenze estetiche (qualcuno ha finalmente pensato ai poligoni!) ma, sul piano diegetico, contribuiscono a fare di Anodyne 2 un’esperienza prettamente videoludica, la cui riproduzione è inimmaginabile con qualsiasi altro medium—tratto sempre più inusuale e persino impopolare, in un’epoca di narrazioni transmediali in cui Stranger Things può diventare un videogioco, e Resident Evil collezionare ormai ben sei adattamenti cinematografici.
Riguardo alla scelta dello stile grafico, realizzato utilizzando Unity e Blender, Sean Han Tani mi dice: «pensiamo che sia bello da vedere, ed è anche più veloce da creare. Funziona anche bene con l’ambientazione surreale del gioco—è più semplice convincere il giocatore di trovarsi in un luogo fantastico quando il suo cervello è al lavoro per colmare i dettagli. È in questo modo che la schermata di una visual novel può essere davvero intensa e coinvolgente, e solo con le parole e un’unica immagine! Altre ragioni: il workflow sul level design, usando una grafica HD, diventa rapidamente ostico per un piccolo team, e inoltre con uno stile ‘lo-fi‘ è molto più facile creare un gioco dall’aspetto visivo originale».
«Ci hanno ispirato molti giochi per piccoli aspetti (ad esempio alcune idee visive le abbiamo prese in prestito da Panzer Dragoon Saga e Shadow of the Colossus, alcune idee di gameplay dagli Zelda in 2D e da Kirby, alcuni toni della storia da NieR e Lucah), ma di certo per le idee più innovative (come il funzionamento del rapporto tra le due dimensioni) abbiamo dovuto trovare le nostre soluzioni da soli. La lista delle influenze è abbastanza lunga e copre non solamente film, libri e giochi, ma anche esperienze di vita vissuta, di gruppi di amici, e così via. Perciò, non direi che c’è stata una fonte di ispirazione più importante delle altre. Tendiamo a usare le influenze più come moodboard che come ideale platonico verso cui tendere. Il mondo è stato progettato in base alle necessità della storia», continua Sean Han Tani. «Man mano che Nova diventa un personaggio più complesso, il mondo e i livelli sembrano quasi cadere a pezzi e perdere ogni logica. La pulizia diventa un’operazione sempre più dubbia sul piano morale. All’inizio della storia, quando Nova ha una missione molto semplice, i livelli sono quasi fin troppo lineari».
Mentre Nova cresce come personaggio e aumenta in consapevolezza, il giocatore non può però accomodarsi a far quasi da spettatore a questo racconto di formazione molto sui generis, perché ad allungare ulteriormente il suo processo di iniziazione al mondo del gioco a cui sta giocando, e a minarlo nelle poche certezze che a quel punto avrà maturato, arriva relativamente presto l’introduzione del Metaclean Framework. Da quel momento in poi, sarà possibile portare Nova a leggere dei cartelli in cui gli sviluppatori commentano i luoghi in cui si trova, e persino ad attraversare prototipi incompleti di livelli esistenti o mai realizzati, anch’essi ricchi di indicazioni sul processo di sviluppo. «È una buona pratica da parte degli sviluppatori essere trasparenti sul modo in cui i giochi vengono fatti, perciò cerco sempre qualche modo simpatico per inserire in un gioco i contenuti inutilizzati. Il modo in cui alcuni sviluppatori mirano a creare queste esperienze di gioco perfette, condensate in un’ora, senza debolezze, è un po’ assurdo per me—i giochi sono imperfetti, in un certo senso è un medium tenuto insieme con il nastro adesivo».
«Nel nostro caso», spiega Sean Han Tani, «il Metaclean Framwork ci ha dato la possibilità di approfondire la storia di un personaggio e le sue motivazioni. Volevo anche esplorare l’idea dell’esistenza di un canone in opere come i videogiochi, e suggerire la presenza di un “canone grigio”, dove alcune parti di un gioco sono allo stesso tempo vere e false. Alcune delle aree extra vanno proprio in questa direzione, mostrando come sia possibile considerarle parte del “canone”, oppure no. Anche se ovviamente io voglio includere una storia “canonica”, credo che si possano fare cose interessanti inserendovi elementi che non vi rientrano in pieno, lasciando qualche spazio all’interpretazione. Non mi piace fare sempre questa cosa nei videogiochi, ma in alcuni casi funziona, come in Anodyne 2. Un videogioco è una cosa molto, molto bizzarra. Ci sono tantissimi aspetti nei videogiochi che non vengono mai spiegati o che non hanno alcun senso. Perché Nova può fare un salto doppio? Dove vanno a finire tutte quelle monete? Così risulta naturale estendere queste domande, farle diventare parte della storia».
In uno di questi meta-contenuti si trova un riferimento a decisioni determinate dal budget a disposizione, e nonostante trovi Anodyne 2 un gioco incredibile così com’è e, a questo punto dell’intervista, Sean Han Tani sia già diventato uno dei miei sviluppatori preferiti al mondo, non posso fare a meno di domandare quanto questo titolo sarebbe stato diverso se lui e Marina avessero avuto a disposizione un budget illimitato. La risposta è del tutto imprevedibile. «Una cosa a cui mi capita di pensare spesso è la mia filosofia nella pubblicazione dei giochi. È meglio pubblicare due giochi in un decennio, oppure dieci? Secondo me dieci. O venti».
«Credo che un’opera che ci mette una vita a uscire sia intrinsecamente viziata, partirebbe dal presupposto che ci siano al mondo verità immutabili che possono essere comunicate in qualsiasi momento e avere comunque la loro forza, solamente a patto che lo sviluppatore ci investa abbastanza tempo e denaro. Un gioco che ci mette cinque anni a uscire può certamente essere buono, ma ci sarà un’inevitabile mismatch tra la situazione sociale del periodo in cui è uscito e quella del periodo in cui è stato sviluppato. Le cose stanno così, ammesso che lo sviluppatore se ne preoccupi, e spesso non lo fa».
«Dunque, per dire: se assumessimo altre persone, loro potrebbero o aiutarci a fare un gioco più grande nello stesso lasso di tempo, oppure aiutarci a fare un gioco delle stesse dimensioni più rapidamente. Non credo che la prima possibilità abbia senso. Anodyne 2 si sarebbe protratto più del dovuto. Se il gioco avesse avuto una struttura o un ritmo diversi, forse la prima possibilità avrebbe avuto senso. Ma a me piacciono i giochi da 8-10 ore. La seconda possibilità è valida. Se avessimo fondi illimitati, sicuramente potremmo fare giochi come Anodyne 2 più velocemente. Sarebbero giochi fondamentalmente diversi, modificati dal team più largo. Di certo io e Marina potremmo dirigere il lavoro di queste nuove persone, ma sembra meglio permettere a ognuno di contribuire equamente».
«C’è anche un pericolo nel maggior lavoro, e sta nel non dover più fare compromessi o semplificazioni interessanti a livello di design. Buona parte dell’identità dei nostri giochi proviene dal nostro lavoro fatto in due, e dal bisogno di semplificare e sottrarre cose, anziché dare il via libera a tutto giusto perché abbiamo la forza lavoro per farlo. Dunque, penso che potenzialmente potrei divertirmi a lavorare con un gruppo più numeroso, ma non nel breve termine. Non abbiamo i soldi necessari, e raccogliere fondi rende la vita un po’ più complicata di come mi piace. Si verrebbero anche a creare aspettative di vendita più alte, e questo influirebbe sulle decisioni che potremmo prendere riguardo al gioco».
La dimensione autarchica, insomma, per molte buone ragioni non dispiace a Sean Han Tani, che è anche l’autore della colonna sonora di Anodyne 2. «L’ho fatta con Ableton Live. Di solito utilizzo i sintetizzatori già inclusi per creare i miei strumenti, o per manipolare i campionamenti, ed è in questo modo che ottengo un suono unico. Ci sono molti fattori che prendo in considerazione quando scrivo un brano, ma in genere penso a quali aspetti visivi, o relativi alla storia, o al gameplay, voglio evidenziare con la musica. Allora pesco dalle mie conoscenze musicali provando a trovare canzoni di riferimento contenenti elementi che siano adatti ai miei scopi, e prendo qualcosa in prestito da loro, le mescolo e aggiungo qualche nuova idea. A volte è qualcosa di piccolo quanto quattro secondi di percussione in un pezzo, a volte è grande quanto una sequenza di accordi; ciò che può risultare utile è spesso inatteso, perciò è importante ascoltare un sacco di musica. Provo a lasciarmi ispirare da tante influenze diverse. Credo che gli appassionati lo capiscano, ma la mia musica raramente viene elogiata con premi o con post sui blog, o con qualsiasi altra cosa, anche se è migliore di un sacco di musica che i premi li vince!». Non ti amareggiare, Sean: se a fine anno rifacciamo il listone con le migliori colonne sonore, come nel 2018, quella di Anodyne 2 ci sarà sicuramente.