Dio è nel sistema nervoso, o nel welfare state? Il Calasso dell’Impuro folle sosterrebbe la prima ipotesi, il cristianesimo socialista di The Church in the Darkness la seconda. La salvezza, nel videogioco diretto da Richard Rouse III, è una questione evidentemente collettiva. Il capitalismo, l’anticristo: scrive Bataille, “il sacrificio è l’antitesi della produzione”. Se, non pregandoli, conservassimo gli dei dall’assurdo nel quale la storia li dismette, potremmo forse pensare di accumularli? In tal caso, il nostro capitale soteriologico sarebbe forse equivalente all’ápeiron. La redenzione, un vantaggioso bundle da Black Friday, quello santo della crocefissione. La profferta conterrebbe allora dai Misteri eleusini sino a qualche giovane culto da spingere, raeliani o giù di lì. Il culto protagonista di The Church in the Darkness, diversamente, ha fede nella sola Chiesa: una, santa, non specificamente cattolica ma apparentemente apostolica.
L’oscurità che avvolge questa chiesa, però, non è tanto la personalità specifica di un antagonista, come potrebbe essere il Joseph Seed di Far Cry 5, quanto l’essenza stessa del nichilismo. Ricorrendo a una citazione dell’attivista Huey Newton, presente nel videogioco, “la mia paura non era la morte in se stessa, ma una morte senza significato”. Per citare invece Cioran, “ogni istituzione riflette una missione”, e la Collective Justice Mission, già a partire dal suo nome, non fa nulla per nasconderlo. A Freedom Town, questo il nome della comune, quando si parla di Dio si intende dire libertà. Piuttosto che a una parusia, l’istituzione del Regno di Dio sulla terra, quella di Rebecca e Isacc assomiglia infatti più a una rivolta contro l’impostura della falsa libertà americana. L’eccezionalismo, non più americano, viene così rivendicato: è Freedom Town la vera City upon a Hill, l’esempio virtuoso per il mondo del quale si parla nel Vangelo secondo Matteo.
La strategia di lotta della Collective Justice Mission ha il carattere, citando il libro Inventare il futuro, di una politica prefigurativa, che predilige l’azione non mediata con la quale “cerca di dare forma a impulsi utopici nel tentativo di proiettare il futuro già nell’oggi”. In tal senso, anche la simbologia della croce può rimarcare questo hinc et nunc, indicando la convergenza tra asse verticale e orizzontale, fra trascendenza e immanenza. Liberamente ispirato agli eventi di Jonestown, il movimento religioso noto per il suo suicidio rivoluzionario, The Church in the Darkness presenta una struttura rogue-lite abbastanza trascurabile così come meccaniche stealth decisamente superficiali. L’aspetto più interessante della produzione risiede invece nella narrazione, non lineare, alla quale il giocatore partecipa attivamente attraverso il proprio approccio. A partire da alcuni aspetti generati proceduralmente, come la posizione dei personaggi, saranno le nostre azioni a condizionare l’esito della vicenda.
Se la società, citando ancora Cioran, è un inferno di redentori, il titolo di Paranoid Productions prova a rappresentarne perlomeno gli archetipi. Nonostante la presenza di due soli antagonisti, Rebecca e Isaac, la molteplicità del discorso è teoricamente garantita dal fatto che le loro personalità muteranno a ogni partita. Questo perlomeno nelle intenzioni, perché The Church in the Darkness si dimostra, già dopo solo qualche ora, un esperimento narrativo sì interessante, ma anche molto timido. La narrazione sembra coprire pressappoco tutti gli esiti immaginabili per un culto armato nella giungla, ma nella pratica non si emancipa, se non forse nella prima partita, dall’astrazione di un semplicistico what if. La qualità degli spunti di riflessione non è particolarmente alta, certamente non all’altezza di una riflessione davvero stimolante sulla fede e sul capitalismo. Per citare il Matteo del Vangelo di poc’anzi, Richard Rouse III non passa per la porta stretta, proponendo contenuti intriganti ma troppo dozzinali per poterla attraversare.
Ritengo tuttavia lodevole il tentativo nel suo complesso, così come il sistema di scelte e conseguenze che struttura l’esperienza. Facendo un balzo multimediale, mi diverte pensare che in un universo parallelo, in un’altra run del mondo, Richard Rouse III abbia diretto un film come Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti. L’opera, datata 1977, tratta di un gruppo di persone che, bloccate nell’ascensore del Vaticano, e dirette al cospetto del Santo Padre, finiscono per scontrarsi tra loro sino agli esiti più grotteschi, rivelando le loro più intime personalità. I sermoni lanciati dagli altoparlanti, che nel film saranno una sarcastica preghiera; la visuale dal più alto dei cieli, quasi fosse un god game; la contestazione e l’anticonsumismo dello stesso Agosti: sono questi gli aspetti che hanno permesso l’insolita quanto libera associazione. Non meno rilevante, la natura grezza di Nel più alto dei cieli, un film girato senza troupe e caratterizzato da una realizzazione tecnica certamente non memorabile, come d’altronde lo è anche quella di The Church in the Darkness.
Se lo stile grottesco del film di Silvano Agosti sembra lontano da quello, un po’ naïf, del videogioco di Paranoid Productions, basta volgere lo sguardo verso un altro videogioco diretto da Richard Rouse III, The Suffering, per rendere subito più credibile l’audace accostamento. Anche quella condotta da Agosti, almeno nella sua premessa, è un’operazione che aspira a porre in dialettica diverse personalità, con la differenza, oltre al diverso contesto, che nel film le possibilità si esauriscono nell’unica successione temporale permessa dalla linearità del mezzo cinematografico (perlomeno, nel suo uso tradizionale). Lo straniamento brechtiano che chiude Nel più alto dei cieli è condiviso con The Church in the Darkness, sebbene la natura interattiva del medium videoludico abbia il vantaggio di estenderlo a più svariati momenti di riflessione, non subordinati ai ritmi imposti dalla narrazione filmica. Purtroppo, se dal punto di vista politico non si va oltre a un generico antiamericanismo, dal punto di vista teologico gli spunti non si fanno più interessanti.
Un contemporaneo Mircea Eliade dedicherebbe al culto di Freedom Town una modesta paginetta di un suo Trattato di storia delle religioni di finzione, concentrandosi su altri, ben più interessanti, culti videoludici. Tratterebbe allora dei dustmen di Planescape Torment, ma anche di un’altra chiesa nell’oscurità, questa volta spaziale, quale è quella presente in Dead Space: una sorta di Scientology con espliciti risvolti body horror. A rappresentare l’incontro efficace di suggestioni mistiche e, potremmo dire, coscienza di classe, è certamente lo sciamanesimo della saga di Oddworld. La serie, con il suo pressoché esplicito messaggio anticapitalista, propone anche un significativo contributo visivo all’immaginario della lotta contro il leviatano del profitto. Stupisce, ma forse non ne sono al corrente io, che l’estetica letteralmente xeno di Oddworld non sia stata recuperata da una certa memetica.
Sia nel primo capitolo della saga, Abe’s Oddysee, sia nel suo seguito, Abe’s Exodus, il videogioco permette di salvare o meno i propri compagni operai. Il gioco, ciononostante, punisce il giocatore attraverso un bad ending per aver compiuto la scelta ritenuta sbagliata dai suoi autori, cioè quella egoistica, non messianica. Se è vero che ogni opera è implicitamente politica, Oddworld lo è in senso esplicito. Aiutare o meno i propri compagni Mudokon resta una scelta bidimensionale che, in termini di agency, appare molto più pregnante rispetto a qualsiasi snodo narrativo di The Church in the Darkness. Tuttavia, da questi esperimenti videoludici (anche quando non perfettamente riusciti) appare chiaro che qualcosa è cambiato nella percezione generale delle finalità del videogioco. Anche senza sconfinare nell’ambito dei serious games, il medium videoludico ha enormi potenzialità nello sviluppo di un dibattito culturale di qualità: “il seme è stato piantato” dice un utopista di questo medium, dal suo piccolo altoparlante.