Una parafrasi di The Good Life potrebbe essere “l’ultimo-gioco-di-Swery” e una parafrasi di Swery potrebbe essere “quello-di-Deadly-Premonition”. Unendo i due giri di parole si ottiene una frase molto esplicativa (“The Good Life è l’opera più recente dell’autore di Deadly Premonition”) che contiene una domanda implicita: Swery ha fatto un altro Deadly Premonition? Per molti quello era il più bel gioco brutto uscito sulla generazione di PS3 e Xbox 360: lo ha fatto di nuovo?
Da una parte, c’è un indizio di un possibile collegamento tra Deadly Premonition e The Good Life: si tratta di due paroline, Rainy Woods. Nelle prime fasi di produzione, il survival horror di Access Games era noto con il titolo di Rainy Woods, che è a sua volta il nome della fittizia “città più felice del mondo”, in Inghilterra, che ci troveremo a esplorare, nei panni di Naomi, una reporter newyorkese, nel gioco del 2021. Dall’altra parte, per toni, Deadly Premonition e The Good Life non potrebbero essere più distanti: survival horror il primo, simulazione di vita contadina il secondo, ci passa di mezzo un anno sabbatico in cui Swery si è tenuto lontano dalle scene per curarsi da una ipoglicemia post-prandiale.
Grazie a IGN sappiamo che durante questo lungo stop dal lavoro Swery, è proprio lui a raccontarlo, ha avuto modo di «avventurarsi nelle cittadine fuori mano, entrare in sintonia con la natura, ACCAREZZARE GLI ANIMALI (maiuscolo mio), annusare gli odori, leggere libri e anche scriverne uno». Sull’opera prima dello scrittore Hidetaka Suehiro aka Swery le informazioni sono scarsissime ma sappiamo che: 1) si chiama “Dear Ambivalence”; 2) è stato pubblicato (almeno) in Giappone; 3) tra le altre cose, racconta di un gatto, la campagna inglese, un omicidio.
L’assassinio c’è anche in The Good Life e c’è pure il gatto, dato che a Rainy Woods tutti possono trasformarsi in cani o in gatti, compresa la reporter protagonista. Non è chiaro se il videogioco sia una trasposizione fedele del libro, ma gli elementi in comune tra l’opera di carta e quella elettronica interattiva non mancano, così come c’è un evidente parallelismo tra tutto quello che Swery ha avuto il tempo di fare mentre era lontano dall’industria dei videogiochi e The Good Life, dove appunto abbiamo a che fare con animali, libri, cittadine fuori mano e natura. Più che vagamente animal-crossesco dal punto di vista estetico, il simulatore di esistenza campestre si presenta, sul lato dei contenuti, come una trasposizione virtuale di alcune francescane esperienze di vita di Swery nel suo anno sabbatico (ma c’è molto altro e ha a che fare con l’Inghilterra).
Ancora due interessanti note biografiche: oltre a scrivere un libro, durante i mesi di convalescenza, Swery ha ottenuto l’abilitazione a diventare “capo prete buddista”. Suehiro era già un prete buddista, grazie anche un corso di tre anni per corrispondenza, come lo erano i suoi genitori, che infatti lo hanno cresciuto in un tempio, ma nell’ultimo periodo il game designer ha deciso di riconnettersi alle sue radici spirituali scalando un ulteriore grado nella gerarchia della religione di Buddha. La seconda nota biografica riguarda la fuoriuscita di Suehiro da Access Games nell’ottobre del 2016 e la fondazione, nel 2017, di White Owls, lo studio di sviluppo dietro The Good Life, dove lavora anche un babbuino che si occupa delle pubbliche relazioni.
Se volete protestare per gli aspetti tecnici di The Good Life sarà la scimmia a rispondervi. Potrebbe rivelarsi irritante, perché le ragioni di malcontento, gamepad alla mano, non mancano. Nulla che precluda la possibilità di arrivare alla fine della storia, ma il tipo di difettucci che alimentano la sensazione che tutto potesse essere levigato un po’ meglio. Chi ha seguito il lavoro di Swery (che include anche Spy Fiction ed Extermination per PS2) potrebbe aver messo in conto la possibilità che The Good Life fosse un prodotto tecnicamente grezzo. D’altra parte quasi tutti i giochi di Swery, Deadly Premonition compreso, sono mezzi scassati.
Il punto però (e gli estimatori dell’autore giapponese sanno anche questo) è se The Good Life sia un bel gioco brutto, e cioè se, nonostante il gameplay azzoppato, abbia anima. Non è questa indecifrabile qualità la ragione del successo di Deadly Premonition, che pure aveva un open world spoglio, dal quale curiosamente Swery ha ammesso di essere partito? Scrivo “curiosamente” perché il lettore medio di Ludica, che probabilmente conosce a menadito Twin Peaks, non può non cogliere evidenti riferimenti all’opera di David Lynch, che appare un punto di partenza sicuramente più plausibile per Deadly Premonition.
Eppure Swery non ha mai ammesso apertamente quello che è sotto gli occhi di tutti e una simile reticenza mi ha fatto venire in mente il modo in cui Shinji Mikami ha sempre separato le sorti del suo capolavoro, Resident Evil (1996), dai francesi di Infogrames, che il genere survival horror lo hanno, se non inventato, portato a un livello superiore con Alone in The Dark del 1992. Un’ipotesi è che questi tentativi di fare gli gnorri dipendano da meccanismi creativi che in Oriente sono considerati scontati e quindi non abbisognano di essere sottolineati: “Si fa così, lo fanno tutti, è ovvio che le cose vadano in questo modo”, sembra dire Swery quando fa orecchie da mercante alle domande dell’intervistatore riguardanti quella serie lì degli anni Novanta.
Cito da Replay, la magnifica storia dei videogiochi di Tristan Donovan che qualcuno dovrebbe pubblicare al più presto anche in Italia:
La questione dell’unicità giapponese era particolarmente presente nell’agenda politica giapponese […]. Nella lista dei bestseller nazionali comparivano regolarmente libri sulle ‘teorie della giapponesità’ (Nihonjinron) che sostenevano la fondatezza dell’unicità e in alcuni casi la superiorità culturale giapponese. Questi libri spesso promuovevano l’idea che uno dei tratti dell’unicità giapponese risiedesse nell’abilità di assorbire le culture degli altri paesi rendendole parte di quella giapponese.
Donovan aggiunge ancora questa nota:
A riprova delle proprie teorie, gli scrittori di Nihonjinron avrebbero potuto citare il modo in cui i game designer giapponesi hanno assorbito e riconfigurato i GDR.
Ma anche il modo, dico io, in cui Swery assorbito e riconfigurato Twin Peaks o, nel caso di The Good Life, gli aspetti più smaccatamente turistici ed elementari della cultura inglese: i pub, i punk, la regina d’Inghilterra, Stonehenge, il ciclo arturiano ecc ecc.
The Good Life è una compilation degli stereotipi sull’Inghilterra che sembra distillata dagli argomenti correlati alla keyword “Inghilterra” nel carosello della barra delle ricerche di Google (inghilterra + regina, inghilterra + stonehenge, inghilterra + pub). Questo è perfettamente esemplificato da un personaggio identico a Sherlock Holmes e accompagnato da un pappagallo che ripete “fish&chips”, una collisione atomica tra due giganteschi totem della cultura british. Si tratta di un atteggiamento creativo in tutto simile a quanto fatto con Deadly Premonition, che ricalcava pesantemente sull’immaginario lynchiano, solo che in questo caso il materiale di partenza è la guida di National Geographic e la scrittura un flusso che sembra non aver mai conosciuto una fase di riscrittura.
È come se Swery avesse voluto infilare una dietro l’altra una serie di immagini, senza preoccuparsi di disporle ordinatamente in un quadro generale dotato di requisiti minimi di organicità e logica ma come lanciandole in un cestone dove giacciono alla rinfusa. Se in Deadly Premonition un criterio ordinativo molto debole funzionava anche perché quel gigantesco riferimento culturale di nome Twin Peaks irrorava il videogioco della sua potenza evocativa, lo stesso non si può dire di The Good Life, la cui estetica in stile Animal Crossing non esercita l’ascendente del surreale stile di David Lynch. E allora tutto sembra fin troppo gratuito e raffazzonato, nel senso di fatto in fretta, come un corso di prete buddista per corrispondenza e un libro scritto nell’arco di qualche mese.
Perché giocare The Good Life? Beh io ho una teoria, secondo cui i film brutti sono migliori di quelli medi fatti con il manualetto, che hanno tutte le carte in regola ma ci lasciano indifferenti perché sono montati tipo l’IKEA dei generi cinematografici e degli attori (come vedete non ho mai scritto Netflix). Lo stesso vale per i videogiochi. The Good Life è tante cose, molte delle quali non tornano, ma non è fatto con il bilancino e quando sbaglia lo fa per ambizione e visione trovando una personalissima strada in direzione del fallimento. Derivativo nell’estetica e nei contenuti, tecnicamente un macello ma tuttavia in grado di stagliarsi al di sopra del videogioco medio, The Good Life presenta le caratteristiche dell’approccio di Swery al game design e potrebbe essere il miglior gioco brutto che vi capiterà di giocare dai tempi di Deadly Premonition.