La domanda “cosa vuoi fare da grande?” è sicuramente una delle più inflazionate, quando si parla con un bambino abbastanza cresciuto da riuscire almeno a ipotizzare un suo possibile mestiere, una volta diventato adulto. Alla fine degli anni ‘80, su Disney Channel andava in onda un programma che si chiamava proprio così: What I Want to Be. In una delle puntate, il piccolo James Wong venne mandato in ricognizione a Redmond per vedere da vicino quello che era il lavoro dei suoi sogni: il Game Counselor.
Sognare di diventare un Game Counselor era abbastanza comune, per un bambino alla fine del 1989: all’epoca, quello era semplicemente il lavoro più bello del mondo, per chiunque fosse un appassionato di videogame. Dietro questa figura professionale così affascinante e particolare c’era una sola, grande azienda, che in quel tempo aveva praticamente tutti i riflettori puntati addosso, nel campo dei videogiochi: la Nintendo. Non sappiamo se alla fine James Jong sia diventato o meno un Game Counselor, ma possiamo capire benissimo per quale motivo quello fosse il suo sogno.
Il lavoro del Game Counselor
Il lavoro in sé è nato solamente nel 1987: per rispondere alle esigenze dei giocatori, la Nintendo diede agli stessi la possibilità di interfacciarsi con dei professionisti del settore per risolvere i propri dubbi in merito a un videogioco. La figura del Nintendo Game Counselor quindi esisteva proprio per dare ai giocatori tutte le risposte che cercavano: dai modi per superare un determinato livello fino alla strada da percorrere per uscire dal castello, passando dal metodo per “sconfiggere” (segnatevi questo termine) un avversario all’apparenza imbattibile.
Nel video postato su YouTube da James Wong (sì, è stato lui stesso a metterlo online), si possono ammirare dei Game Counselor all’opera e capire più o meno in cosa consisteva il loro lavoro. I Game Play Counselor (da ora in poi GPC) alzavano la cornetta del telefono e aiutavano le persone passo dopo passo, console accesa e joystick alla mano, parlando e giocando allo stesso tempo. Spesso erano circondati di quadernoni scritti a mano e pieni zeppi di soluzioni: in un video dello youtuber MetalJesusRocks, uno di questi maxi-raccoglitori di soluzioni viene aperto e svelato al pubblico. Al suo interno, tanti appunti e indicazioni che evidenziano come i GPC fossero un team vero e strutturato: si aiutavano a vicenda, condividendo pagine e pagine di soluzioni, spesso scritte a mano. In sostanza, era un po’ come passarsi gli appunti all’università.
Inizialmente, le chiamate erano gratis; poi, visto il successo di queste figure, per ogni telefonata sono stati previsti dei costi, che comunque erano solo poco più alti dei normali prezzi di chiamata. Inoltre, dal 1989 in poi, per i giochi più famosi, è stata inserita una voce registrata: immaginatela come quella che parte oggi quando chiamiamo l’operatore telefonico di turno; solo che, invece di dirci di premere il tasto 1 per scoprire le nuove offerte, dava consigli su come superare quel particolare livello di Super Mario. Questo aiutava a velocizzare le operazioni, oltre a ridurre i costi per i giocatori. I GPC avevano anche una sezione apposita sulla rivista Nintendo Power: si chiamava “Counselors’ Corner” ed era dedicato ovviamente alle soluzioni dei giochi. Nella stessa rivista erano presenti i profili di vari GPC, con i loro hobby e le loro passioni: tutto ciò aiutava i giocatori a familiarizzare con queste figure.
Tornando al lavoro in sé, una volta che la chiamata arrivava effettivamente al Game Counselor, quest’ultimo non dava subito la risposta alla domanda. E non era una strategia di marketing (del tipo: più ti tengo al telefono, più paghi), o comunque non solo. Ai GPC veniva chiesto di non offrire immediatamente la soluzione, ma di guidare il giocatore a trovarla da solo. In quel modo aumentava la soddisfazione dell’utente: la volontà era quella di far divertire i giocatori con i videogame Nintendo anche durante la chiamata. Infine, se il GPC non aveva abbastanza esperienza in quel gioco, girava la chiamata a un altro che ne sapeva di più: in dotazione avevano una lista con tutti i nomi dei colleghi, insieme ai giochi in cui se la cavavano meglio.
Il lavoro dei Game Counselor, in sostanza, consisteva nel giocare per ore ed ore, cercando di diventare sempre più competenti: avevano accesso a tutti i titoli Nintendo, e la stessa azienda li incoraggiava a provare i videogiochi. Era comprensibile: più giocavano, più diventavano bravi nel loro lavoro.
Come si diventava Game Counselor
Diventare Game Counselor alla Nintendo non era per niente facile: in un processo di selezione che vedeva coinvolte 800 persone, solo 33 alla fine venivano assunte. Immaginando per un attimo che una posizione simile venga aperta oggi su LinkedIn, nella descrizione dell’offerta di lavoro probabilmente trovereste questi requisiti:
- diploma liceale
- rapidità di scrittura
- capacità di dialogo
- residenza nella zona di Seattle
- grande, gigantesca, immensa familiarità con i videogiochi
Un esempio di colloquio lo ha fornito Erich Waas, ex Game Counselor che qualche anno fa si è raccontato alla rivista Nintendo Life. Per testare la sua bravura, gli sono state poste domande su tre tra i giochi più popolari (Metroid, Zelda e Dragon Warrior), dandogli prima una settimana per studiarli, ossia per giocarci. Dopo essere stato assunto, Erich Waas ha passato un mese intero ad allenarsi, ed ha ricevuto anche insegnamenti su come interfacciarsi con i clienti: il Game Counselor era il filo diretto tra il giocatore e la Nintendo, quindi rappresentava l’azienda e per questo motivo doveva essere impeccabile. Ad esempio, non si doveva pronunciare la parola “uccidere” in relazione a un nemico, ma andava utilizzata la sua versione più soft, ossia lo “sconfiggere” che abbiamo citato in precedenza. Il motivo è semplice da capire: la Nintendo voleva un’atmosfera di divertimento inserita in un contesto familiare, e non c’era dunque spazio per una terminologia cruenta.
Sempre in tema di assunzioni come Game Counselor, c’è il curioso aneddoto di un altro ex GPC, Shaun Bloom. Assunto nell’estate del 1989, ha confessato di aver barato nei test con una delle tecniche più esilaranti: dopo aver ricevuto in anticipo le domande da un suo amico, si è segnato tutte le risposte (in quel caso, le soluzioni al gioco The Legend of Zelda) su dei foglietti che poi ha attaccato dietro le lenti dei suoi occhiali da sole. Alla fine è stato assunto ed è rimasto alla Nintendo per otto anni. In questo articolo su The A.V. Club trovate la storia di Shaun Bloom e di altri suoi colleghi, in un racconto un po’ diverso e fuori dagli schemi di questo mestiere comunque stressante. I ritmi infatti erano forsennati: si passavano diverse ore al telefono e a giocare, a giocare, e ancora a giocare. In definitiva, anche il lavoro più bello del mondo era pur sempre un lavoro, con i suoi lati positivi e negativi.
La fine del Game Counselor
Come tutte le cose belle, il ruolo del Game Counselor dopo tanti anni è finito. Con l’avvento di Internet e delle nuove forme di ricerca veloce, i giocatori non avevano più bisogno di chiamare qualcuno per trovare le soluzioni ai loro problemi: potevano semplicemente googlare le domande e conoscere subito le risposte. Il servizio è stato definitivamente smantellato nel 2005: a tutte le persone che all’epoca lavoravano ancora come Game Counselor vennero assegnate altre posizioni, sempre alla Nintendo.
Oggi, quindi, nessun James Wong potrebbe sognare di diventare un Game Counselor da grande, perché questo lavoro non esiste più. A qualcuno comunque questa figura mancherà di sicuro: in base ai racconti dell’ex GPC Erich Waas, a Natale capitava che alcune persone chiamassero perché si sentivano sole, e non avevano altri con cui parlare. Volevano soltanto restare al telefono il più possibile, e il Game Counselor era lì anche per loro.