Su Ludica non abbiamo mai stilato le classifiche di fine anno, ma se lo avessimo fatto io mi sarei messo al timone dei rompicapo e, da quando esiste questa rivista, avrei premiato come migliori puzzle dell’anno: The Gardens Between nel 2018, Baba Is You e Manifold Garden ex aequo nel 2019, A Monster’s Expedition nel 2020, e Bonfire Peaks nel 2021. Quest’anno invece il titolo spetta senz’altro a Patrick’s Parabox, prima opera commerciale pubblicata dallo sviluppatore Patrick Traynor dopo essersi fatto le ossa, come si dice, in community di modding e game making, e in particolare in quella dedicata a I Wanna Be The Guy—un platform dalla difficoltà assurda che richiede tempismo e precisione bestiali; tra le altre cose, Traynor ha contribuito alla creazione del tributo I Wanna Maker, gratuito e incentrato soprattutto su un editor di livelli e sulla possibilità di giocare quelli creati dagli altri utenti. Da solo, nel frattempo, partecipava alle game jam e realizzava rompicapi come Clockwork Cat, arrivato secondo alla Ludum Dare 27.
Proprio in una jam nasce l’idea alla base di Patrick’s Parabox: mischiare la tipica formula di Sokoban, classico puzzle game dove si spostano casse, con i paradossi generati dalla possibilità di entrare all’interno dei blocchi da spostare, che diventano così anche blocchi navigabili dentro cui si trovano altri blocchi, oltre al giocatore stesso. A proporre questa formula per la prima volta è Sokosoko, piccolo esperimento nato come cartuccia per la console virtuale PICO-8 che però non viene portato avanti. Traynor allora ne raccoglie il testimone e ne sviluppa le premesse fino alle estreme conseguenze, esplorando ogni possibilità. Studia, si documenta, descrive alcune strategie da seguire per creare dei buoni livelli; si ispira liberamente ai migliori rompicapo che ha giocato negli ultimi anni, come spiega a Game Developer: «In Stephen’s Sausage Roll, praticamente ogni singolo puzzle introduce qualche nuovo concetto—non ci sono ripetizioni poco interessanti. In The Witness ci sono spesso dei pannelli con dei brevi puzzle in sequenza che si concentrano su un’idea, dando un grande ritmo all’insegnamento e all’apprendimento all’interno di piccoli gruppi. Ci sono poi moltissimi altri rompicapo a cui mi sono ispirato; il semplice fatto di aver visto tanti approcci diversi e di averli analizzati mi ha sicuramente dato materiale a cui attingere nel momento in cui ho creato i miei puzzle».
Da programmatore e game designer, Traynor si dedica poco alla grafica e alla presentazione: si preoccupa solamente di rendere tutto il più chiaro possibile, attraverso un uso intelligente delle forme e soprattutto dei colori. Raccoglie però i suggerimenti che gli arrivano durante le dirette, e aggiunge ad esempio delle animazioni per l’ingresso e l’uscita dai vari blocchi, come racconta sempre a Game Developer: «Tecnicamente, è un tipo di animazione che non ha bisogno di esistere: il giocatore e la telecamera potrebbero passare istantaneamente alle nuove posizioni. È ciò che accade quasi sempre nei rompicapi basati su griglie, e funziona abbastanza bene. È così che lo avevo programmato all’inizio: un semplice passaggio alla nuova posizione. Poi durante una diretta su Twitch qualcuno nella chat ha suggerito delle animazioni di rimpicciolimento e di crescita più fluide (a proposito, ho ricevuto molte idee fantastiche dai miei spettatori su Twitch—grazie! E agli sviluppatori, consiglio lo streaming!). In passato avevo scartato l’idea perché troppo difficile da programmare, ma alla fine ho deciso di provare. È stato un incubo. È un algoritmo complicato e con un mucchio di casi limite, come l’ordinamento in profondità dei blocchi in movimento, il concatenamento corretto delle trasformazioni, e le interazioni con varie meccaniche ricorsive. Ma alla fine ci sono riuscito e questo aggiunge molto al gioco. È uno spettacolo visivo in sé, ma rende anche più facile la comprensione della meccanica di base, e aiuta ad apprezzarla».
In realtà Patrick’s Parabox fa ben più che rendere “facile la comprensione della meccanica di base”: predispone per chi gioca situazioni complesse, i cui eventuali esiti possono essere addirittura privi di senso, e le trasforma in qualcosa di semplice e immediato da esperire, rendendo così onore a una lunga tradizione della logica e della filosofia, che è appunto quella del paradosso. Tale tradizione ha le sue origini, com’è noto, nell’antichità: restano famosi ancora oggi i paradossi ideati da Zenone di Elea—ad esempio quello su Achille e la tartaruga—e da Eubulide di Mileto, a cui si deve la più celebre formulazione di quello sul mentitore. Gli antichi ci si arrovellavano il cervello spesso e volentieri, talvolta esagerando—pare addirittura che sulla tomba del poeta Fileta di Coo si legga: “Viandante, io sono Fileta; l’argomento chiamato il mentitore e le profonde meditazioni notturne mi condussero alla morte”. Non so quanto sia attendibile l’argomento del mentitore come causa di morte, ma è fuor di dubbio che i paradossi siano sempre stati, per secoli, qualcosa di molto mentale, almeno fino all’arrivo di artisti come Escher, che li hanno fatti diventare anche qualcosa di visivo, e di estetico; eppure, per immaginare quale effetto farebbe trovarsi dentro gli spazi impossibili di quelle opere, è ancora al pensiero che occorre far ricorso.
Il medium videoludico introduce invece la componente dell’interattività, che in Patrick’s Parabox fa tutta la differenza del mondo: cosa accade se un blocco contiene al suo interno una copia di sé stesso? Se ne contiene ben due? Cosa succede se si esce fuori da un blocco che è una copia di sé stesso? Il puzzle game di Traynor permette non solo di pensare queste situazioni, non solo di visualizzarle, ma anche di esperirle. Mentre chi gioca prova a risolvere il rompicapo, il gioco risolve per così dire il paradosso, dandone una rappresentazione visiva e mostrando le conseguenze delle azioni che si possono compiere nell’ambito delle particolari circostanze da esso delineate. Far ciò offrendo comunque un’esperienza divertente e significativa non è banale; e Patrick’s Parabox, così come già Manifold Garden, ci riesce in pieno, risultando al contempo un normale rompicapo, un videogioco filosofico e qualcosa d’altro, che per comodità chiameremo qui videogioco esperienziale.
Sarebbe interessante anche analizzare quali siano le condizioni di possibilità di cui queste opere fanno tesoro. È un argomento che porterebbe molto lontano, ma vale la pena, in conclusione, dire almeno questo: i paradossi spingono il pensiero verso i limiti della nostra facoltà di comprendere il mondo—limiti non solo tecnologici, ma anche e molto più semplicemente biologici, legati al fatto di possedere cinque sensi e di riuscire con essi a percepire solo una frazione di quanto accade attorno a noi. Per andare oltre questi limiti abbiamo avuto a disposizione, storicamente, soprattutto due strumenti: le parole e i numeri. Il medium videoludico, allora, appare particolarmente adatto a questo genere di esplorazioni proprio perché è il primo e l’unico a nascere dall’incontro tra linguaggio naturale e linguaggio formale: ogni videogioco sviluppa un discorso in quanto richiede un’interazione—deve cioè essere giocato—ed è inoltre il risultato dell’esecuzione di un codice su una macchina. C’è qualcosa di molto profondo, e di molto meno scontato rispetto a quanto sembri a prima vista, nel fatto che un’esperienza come quella di Patrick’s Parabox sia possibile soltanto come esperienza videoludica.