Sviluppando le fondamenta del gioco uscito nel 2016, Oxenfree II ci porta in un mondo al contempo familiare e molto diverso. C’è la stessa atmosfera—le stesse vibrazioni—e ci sono avvenimenti soprannaturali in abbondanza, c’è molto da chiacchierare (con tanti dialoghi ben scritti), e la storia stessa non si svolge a troppa distanza di tempo dagli eventi del primo gioco.
Questa volta i giocatori si troveranno nei panni di una nuova protagonista, Riley, una trentenne che è cresciuta nella nuova ambientazione del gioco, la città di Camena, ma poi se n’è andata per seguire la propria strada nella vita. È il lavoro a riportarla lì, alle proprie origini, dove sarà costretta ad affrontare non solo il gigantesco portale che si trova sopra la città, ma anche il proprio passato—la sua vita, i suoi problemi, l’ambiente di provincia che chiunque venga da una piccola città conosce bene.
È un filo sottile da tessere, che mescola una nostalgia praticamente universale con un racconto di formazione incentrato su un cast di personaggi ultratrentenni—con una minaccia soprannaturale ed esistenziale a completare il tutto. Ma c’è una certa fiducia intorno a Oxenfree II, in fondo inevitabile quando un team come Night School Studio dà un seguito a un incredibile successo come il primo gioco della serie.
Se praticamente chiunque altro avesse proposto l’idea di una donna che si riconnette con le sue radici, incontrando vecchi amici e parlando con estranei via walkie-talkie mentre interagisce con portali temporali… beh, ci sarebbe stata qualche domanda da fare. Non con Oxenfree II. Sembra fantastico. Ma qualche domanda l’abbiamo fatta ugualmente. Stregati dal senso di meraviglia e desiderosi di scoprire di più sui misteri di Oxenfree II, abbiamo chiesto a Sean Krankel, direttore di Night School Studio, e Adam Hines, lo sceneggiatore principale dello studio, di parlarci della loro nuova opera.
Il primo gioco è stata una punta di diamante dell’indie, lo conosce praticamente chiunque. Avete sentito una certa pressione nella creazione di un sequel?
SK: Sì, sicuramente. E non solo perché è stato accolto così bene. Ma anche perché adoriamo quella storia e non volevamo tornarci su senza avere una buona ragione per farlo. È per questo motivo che per noi era importante non fare un semplicemente una prosecuzione di quella storia. Credo che a rendere Oxenfree così speciale—ora che lo possiamo guardare dalla giusta distanza—fosse il fatto di prendere dei personaggi che attraversano una fase molto importante della loro vita, e metterli di fronte a una sorta di specchio parecchio strano, oscuro, costringendoli ad affrontare una lunga serie di eventi decisivi in un breve periodo di tempo e in un modo decisamente spaventoso e surreale. Fare un sequel con nuovi personaggi ci ha permesso di raccontare una storia nuova con molte delle regole del primo gioco, ma senza dare l’impressione di un’avventura in stile Scooby-Doo in cui un gruppo di personaggi fa di continuo le stesse cose. Per cui, in parole povere, sì, la pressione deriva dalla volontà di essere all’altezza di ciò che i fan del primo gioco si sarebbero aspettati da uno dei nostri titoli. Ma anche dal voler trovare una storia degna di essere raccontata. Non volevamo realizzare Oxenfree II per il solo gusto di farlo, e ci è voluto qualche anno per trovare questa storia. Siamo davvero felici della direzione in cui stiamo andando.
Hai fatto riferimento alla distanza dal primo gioco—quanto è stata importante nella realizzazione del sequel?
SK: Credo sia stata fondamentale, onestamente, perché abbiamo potuto vedere quel gioco quasi con gli stessi occhi di chi lo aveva appena comprato per la prima volta. Dopo aver pubblicato un gioco sei ancora troppo vicino ai suoi difetti, o a certe cose che sembrano un po’ fuori posto, o semplicemente alle sue varie parti. A volte è difficile vedere la foresta perché stai guardando i singoli alberi. A distanza di qualche anno possiamo guardare il gioco come un’unica esperienza, invece che come una somma di parti diverse. Tornare a un mondo avvolto in un mistero che il giocatore può svelare, e provare nuovamente a spaventarlo nel mentre, è stata una cosa davvero divertente da fare.
AH: È stato bello tornare a quel gioco semplicemente per giocarlo, e non per vederci ogni possibile difetto e ogni piccola cosa che avremmo voluto cambiare. Quando un’opera viene pubblicata, non riesci a vedere altro se non le cose per le quali avresti voluto avere più tempo, quello necessario a sistemarle. È fantastico vederlo ora con occhi diversi, e prenderlo così com’è.
Vi ho domandato della pressione prima, ma allo stesso tempo avrete avuto una maggiore fiducia nei vostri mezzi questa volta. È stato così?
SK: Non so se abbiamo avuto molta più fiducia… una via di mezzo. Tutti nello studio sono fieri dei colleghi, e ammirano le loro capacità e i loro contributi. In generale le basi su cui sviluppiamo i nostri giochi sono molto più solide rispetto a quando abbiamo iniziato; gli strumenti che avevamo allora non ci avrebbero permesso di fare un gioco di questo tipo. Ma penso che abbiamo avuto più fiducia perché questa volta le regole del gioco le avevamo già in mente; non abbiamo dovuto inventare nuove leggi soprannaturali e nuovi mondi. A parte questo, mi è sembrato spaventoso come al solito. Oxenfree è una miscela di temi seri, di escapismo fantascientifico e horror, con un po’ di momenti più leggeri lungo il percorso—quanto è importante trovare un equilibrio in una storia simile?
AH: Non credo che vorremo mai fare un gioco o raccontare una storia che sia solamente horror, o puramente commedia. Ci deve essere il dramma, e personaggi che vogliono sopravvivere e raggiungere i propri obiettivi nella vita, ci devono essere momenti in cui spaventi il pubblico oppure lo fai ridere o piangere, la completa gamma delle emozioni.
SK: In Oxenfree in particolare, che è un gioco molto realistico con una storia molto realistica; se non ci fossero fantasmi, si tratterebbe solamente di gente che passeggia nel Pacific Northwest parlando della vita e delle sfide che ti mette davanti.
Oxenfree II parla di una minaccia incombente e onnipresente che grava su persone comuni. Potrei andare fuori strada qui, ma pensate che la pandemia, la paranoia per la pandemia, abbia influenzato la scrittura e l’ambientazione?
AH: Credo di avere la risposta: sì. Anche in maniera inconscia, dato che abbiamo realizzato Oxenfree II senza mai essere nella stessa stanza. Lavorando da casa, un’esperienza completamente opposta rispetto allo stare in ufficio insieme, abbiamo dovuto ricordare spesso a noi stessi di trovare altre occasioni per un po’ di socialità al di là del lavoro. Ma è stato tutto molto più rigido. Ovviamente quel che accadeva nel mondo, il dibattito politico e ciò che ci arrivava mentre eravamo chiusi in casa, sono sicuro che tutto ciò sia finito in ogni singolo aspetto del gioco. Anche se il semplice fatto di avere personaggi più grandi significa avere una prospettiva più adulta sulle cose, al pari di noi stessi. Anche questo ha cambiato il tono del gioco. Ma di sicuro la paranoia, la paura dell’ignoto, il non poter prevedere come sarà il resto della giornata, senza neanche parlare del resto del weekend, del mese, dell’anno, son tutte cose che hanno avuto un impatto su ciò che troviamo ci sia di spaventoso in questa ambientazione. E lo stesso vale per i personaggi.
A proposito del passaggio a personaggi adulti, cosa ha cambiato? Cosa porta all’esperienza complessiva?
AH: Il primo gioco—in senso buono—si focalizzava unicamente su una certa fase della vita dei personaggi, con una serie di problemi individuali che si trovano ad affrontare. Allo stesso modo Riley, senza anticipare troppo, vivrà uno di quegli eventi che cambiano la vita. Abbiamo calibrato su questo la sua visione della vita, il modo in cui dà un senso alle cose, correggendo degli errori commessi in passato, e ponendo le fondamenta per un futuro migliore… Mantenere l’aria nostalgica di Oxenfree, ma con personaggi ultratrentenni con un passato alle spalle, ci ha permesso di affrontare più temi e più argomenti adulti in un contesto più maturo che in precedenza, e questo naturalmente ha un impatto su tutte le interazioni e le conversazioni.
SK: Ambientare il gioco a Camena—la città natale dei personaggi del primo gioco—e farlo attraverso Riley che è di ritorno, e Jacob, un suo vecchio amico di scuola, che invece quel luogo non lo ha mai abbandonato, ci ha dato l’opportunità di raccontare una storia intima e personale, che riflette quegli aspetti delle piccole città in cui la nostalgia sembra quasi incorporata. Non so se potrebbe esistere un buon Oxenfree ambientato, mettiamo, a Tokyo. Un’avventura coi fantasmi a Tokyo. Credo che questa ambientazione contribuisca molto alla riuscita del gioco—non solo per le sensazioni che trasmette o per lo stile visivo, ma anche per ciò che rappresenta. Cos’è una piccola città per un piccolo gruppo di persone? Abbiamo conservato molto dell’atmosfera generale e del calore del primo gioco, ma l’approccio ora non è più quello di un gruppo di sedicenni.
“Meraviglia” è una parola collegata al primo gioco, immagino che lo sarà anche al secondo. Ma come si crea la “meraviglia”?
SK: Questa è fantastica… credo sia forse la migliore domanda di sempre. “Qual è il significato della vita?”, “come si crea?”.
Era proprio la mia prossima domanda…
AH: Ci posso provare. Sicuramente è ogni componente che lavora insieme e in armonia. Sicuramente si parte dall’aspetto visivo in generale, e volendo che i personaggi si sentano molto piccoli. E di fronte a questi scenari, se ti siedi con noi quando li rivediamo, è tutto un “allarga l’inquadratura, allarga l’inquadratura”, perché questo è diventato un buon tratto distintivo di Oxenfree. È un pilastro di questo senso di meraviglia: “sono solamente un puntino in questo mondo, che prova a resistere alla forza della tempesta”. Calare i personaggi in questo genere di ambientazioni è un aspetto importante. La colonna sonora è un’altra componente indispensabile, le musiche e gli effetti sonori e il sound design e il modo in cui lavorano insieme… è davvero la combinazione tra le varie componenti a creare quella particolare sensazione che si prova giocando Oxenfree.
Com’è cambiato lo sviluppo giorno per giorno rispetto al primo gioco?
SK: Il lavoro a distanza fa schifo. Lo abbiamo sfruttato al massimo; credo che ci siamo illusi, pensando di esserci ormai abituati e che quindi andasse bene. Ma ultimamente abbiamo fatto un paio di riunioni dal vivo, e l’elettricità di un gruppo di persone è totalmente diversa dal parlare su Zoom. Perciò credo che il cambiamento più grande sia stato adattasi al lavoro a distanza e cercare una maniera per far somigliare quelle conversazioni e quelle comunicazioni a quelle fatte di persona. Questo vuol dire innanzitutto più documentazione—per il primo gioco ci siamo soprattutto ascoltati, e le decisioni venivano prese di persona. Ora tutto viene documentato di continuo. Ci sono molte più riunioni con un obiettivo ben preciso, e credo sia un bene. Sviluppando il primo gioco c’era la tendenza a divagare a volte. Con un obiettivo alla base di ogni riunione e il modo in cui interagiamo le cose che vengono fuori devono essere attuabili. Un’altra differenza è che il team è più grande. Il team principale che ha lavorato al primo gioco era composto da quattro persone, anche se siamo diventati circa 15 verso la fine del gioco. Mentre adesso non saprei nemmeno di preciso, probabilmente più di 20 persone si sono occupate del gioco in qualche maniera. Il vantaggio è che più persone lavorano al gioco, più sarà un’esperienza ricca e robusta. Lo svantaggio è che è difficile far capire qual è il punto di vista di ciascuno a tutti gli altri.
SK: Penso che una delle poche cose che abbiamo fatto davvero bene fin dall’inizio con il primo gioco, e che continuiamo a provare a fare, sia stato trovare qualcosa di speciale e concentrarci su quello, invece di cercare di avere 15 caratteristiche diverse e averle tutte di livello mediocre. Come studio sapevamo che i nostri punti di forza erano legati alla narrazione, al modo in cui potevamo dirigere il talento, e alla creazione di un forte stile grafico, e ci siamo detti “puntiamo su queste cose”. Non metteremo mai su i server per fare uno sparatutto multiplayer in prima persona, non aggiungeremo mai un sacco di caratteristiche perché ora vanno di moda. Vogliamo fare una cosa e farla bene, e restare irremovibili su questo punto. È già abbastanza lavoro restare concentrati su una cosa per farla bene. Bisogna concentrarsi su una cosa e assicurarsi che sia speciale. Inutile provare a competere con chiunque altro, perché il mercato è così saturo che devi avere almeno una cosa che sia unica e speciale.
Quali sono le vostre speranze per quando il gioco sarà completo e pubblicato? Vi aspettate che faccia meglio del primo?
SK: Non ci aspettiamo che nulla faccia meglio di nulla. Ci speriamo, di certo ci speriamo. Le nostre aspettative continuano a cambiare negli anni. Con il primo gioco, volevamo solo che uscisse e non portasse al collasso il nostro studio. Questa volta la nostra speranza e la nostra aspettativa è che questo gioco abbia la stessa forza del primo e si guadagni le stessa risposta emotiva da parte del pubblico. Vogliamo che chi gioca sia coinvolto e senta una certa connessione con il personaggio all’interno della storia, una versione propria della storia di Riley, non quella di chiunque altro. Il design del gioco va in questo senso, mira a far sentire ciascun finale e il percorso che ha portato fin lì come il risultato delle scelte compiute. Dal punto di vista creativo, volevamo evocare molte delle stesse emozioni, ma questa volta attraverso una lente diversa. Inoltre non abbiamo parlato molto dei misteri del gioco, e non lo faremo neanche adesso, ma ci sono tante cose di cui non abbiamo rivelato nulla—strani misteri che non vediamo l’ora di sapere se piaceranno al mondo quanto piacciono a noi. Questa sarà un’altra cosa da scoprire. Spero che i giocatori saranno coinvolti da questo gioco.