Dai 20 ai 25 anni ho cominciato a interessarmi un po’ meno ai videogiochi e un po’ più al cinema. Credo che cambiare dieta culturale negli anni successivi alla scuola superiore sia un’esperienza abbastanza comune. Nel mio caso dipendeva da ragioni di ordine pratico (nella mia stanzetta da fuorisede non avevo un televisore da collegare alla consolle) e dal tipo di studi che stavo portando avanti, che richiedevano una maggiore attenzione a film e a libri. Quando ho ripreso il pad tra le mani mi sono sentito una specie di Robinson Crusoe che tornava alla civiltà videoludica dopo anni passati altrove. I corsi di cinema all’università mi avevano reso più consapevole della ricchezza espressiva dei film e di quanto fosse diversificata l’offerta nelle sale. Il paragone potrebbe essere azzardato, ma spero renda il concetto: quel che mi deluse del modo in cui erano cambiati i videogiochi era che le grosse produzioni fossero sempre lo stesso brodo, cioè quel mix di elementi RPG, action e sparatutto che io ricordavo ben distinti in generi separati. Notai anche che le trame erano cresciute a dismisura, ma, per lo stesso parallelo di sopra, identificavo le storie dei videogiochi con il segmento più dozzinale e facilone dell’offerta cinematografica.
Sia chiaro che i giochi di oggi, tripla A compresi, non mi fanno schifo. Ma all’epoca avevo un problema di messa a fuoco: avendo saltato una generazione, mi ero perso alcuni capolavori e non ero riuscito a capire i punti forti del modo in cui era cambiato il mercato. Ora so che mi serviva qualcosa che potesse riportarmi nel presente dopo aver rigiocato Tomb Raider III per l’ennesima volta. Questo wormhole alla fine arrivò sotto forma di un prodotto per alcuni versi retrò, per altri un capolavoro nel senso letterale del termine. Dark Souls è infatti il “capo” di un filone di altri “lavori” che prendono il nome, assai onesto, di soulslike. Inoltre ha un elemento che all’epoca esercitò su di me un innegabile fascino: è cinematografico, cioè contiene una serie di scelte stilistiche che per qualità possono essere associate alle esperienze più interessanti della settima arte. Una di queste è il sonoro. Musiche e rumori in Dark Souls sono una delizia, ma ciò che è davvero eccezionale è il silenzio. Non credo fosse una scelta scontata. Sicuramente è quello che avrebbe fatto un grande regista per plasmare la personalità del suo film.
La musica
Dark Souls ha nel DNA una colonna sonora che spacca. È il seguito spirituale di Demon’s Souls, che i fan ricordano per il contributo musicale di Shunsuke Kida. Demon’s Souls è a sua volta il figlio putativo di King’s Field. Pubblicato nel 1994 su PlayStation, ma solo in Giappone, King’s Field è cupo, frustrante e cadenzato nei combattimenti come Dark Souls, ma a differenza di quest’ultimo è in prima persona. Un tamburo, una nota di sintetizzatore molto molto bassa, un clavicembalo e altre sonorità minimali si sposano perfettamente agli ambienti spogli e ai colori sbiaditi. Credo che all’epoca un level design così rarefatto fosse dettato da necessità, ma King’s Field è migliorato invecchiando. Oggi, che siamo abituati a giochi pieni di dettagli e dinamismo, il primo gioco di From Software sembra più angosciante e mortuario che mai, come se l’ondata pestilenziale che ha fatto rinsecchire i giardini e oscurare il cielo abbia divorato i pixel e la ricchezza delle ambientazioni. Date un’occhiata a questo walkthrough per capire di cosa parlo. E fate caso anche a un’altra caratteristica: la musica non si ferma mai.
Per le musiche di Motoi Sakuraba, il compositore di Dark Souls, viene stabilito un principio diverso. La colonna sonora conta ventitré tracce che hanno esaltato i fan della saga, inizialmente delusi dall’abbandono di Shunsuke Kida. La loro collocazione all’interno del gioco è molto rigida. Con un paio di significative eccezioni, le ascoltiamo quando ci troviamo ad affrontare uno dei tostissimi boss. Questa scelta regala agli scontri una notevole intensità, isolandoli dalle fasi di esplorazione o di combattimento più routinario. Inoltre non tutti i combattimenti meritano un tappeto sonoro personalizzato: a volte le tracce si ripetono, facendo distinzione tra nemici meno importanti, che possiamo assimilare ad altri già affrontati, e più importanti. In un film viene seguito lo stesso principio: la musica sottolinea i momenti fondamentali e regala personalità alla scena. Ma lo scopo di un compositore è più ampio: con il suo lavoro dà un’interpretazione alla sceneggiatura e alle immagini, contribuendo attivamente a plasmare il prodotto finale. Anche in Dark Souls è così.
Su un piano più generale, la contrapposizione tra assenza e presenza di sottofondo musicale ci riporta alla struttura del gioco. Ecco quel che David Canela, game designer di Rime, ha scritto in proposito:
Il dualismo è una delle tematiche del racconto: in una precedente età, non esistevano contrasti (il prologo parla di “nebbia” e “grigio”) e i draghi immortali erano destinati a dominare per sempre il mondo. Quindi la prima fiamma portò disparità: caldo e freddo, vita e morte, luce e buio. L’intero gioco racconta della fine della seconda età. La contrapposizione tra la musica e la sua assenza si adatta bene a quest’epoca di contrasti.
Il rumore
Un bel video di Marshall McGee ci regala alcune annotazioni interessanti sul sound design delle creature di Dark Souls. Secondo lo youtuber, i versi di King Kong, di Godzilla e del T-rex di Jurassic Park escono sconfitti da un confronto con i mostri del titolo di From Software, che riescono a sorprendere per i timbri inusuali. McGee osserva un’altra invenzione sorprendente: l’eco nella voce dei personaggi umani. Il nostro avatar riesce a interagire con loro nonostante siano in preda a indicibili sofferenze o stiano scivolando in un’irrimediabile follia. L’assenza di riverbero aggiunge a questi incontri un tocco ancora più deprimente, amplificando il senso di solitudine in un mondo che sta morendo. Alcune voci sono decisamente sofisticate. Possiamo chiudere gli occhi e indovinare la forma dell’armatura di Siegward di Catarina dal modo in cui rimbombano le sue parole all’interno del casco a forma di cipolla. Aggiungo che altri rumori non sono spaventosi di per sé, ma per il tipo di conseguenze che lasciano presagire. L’armatura scura è una componente fondamentale della personalità dei Cavalieri Neri, che viene messa in risalto dal clangore delle placche di metallo. Il comparto sonoro di un film lavora allo stesso modo: da una parte rende le immagini più reali, dall’altra contribuisce alla descrizione dei personaggi, facendoci ascoltare gli aspetti che non possiamo vedere. Il rumore dell’armatura dei Cavalieri Neri è molto particolare, probabilmente molti di voi lo ricordano. Inoltre ci mette sull’attenti, soprattutto nelle prime fasi del gioco, suggerendo quanto sia difficile penetrare le loro difese.
Il silenzio
Il silenzio è la cornice perfetta per far risaltare la musica e i rumori. Ma se il timbro di quest’ultimi sorprende per il modo in cui arricchisce il carattere dei personaggi e degli ambienti, la scelta di un accompagnamento musicale per le boss fight è più canonica. Invece considero molto interessante la decisione di immergere nel silenzio la maggior parte del gioco, tanto che potremmo rovesciare la prospettiva di prima: non è grazie al silenzio che la musica e i rumori risaltano, ma il contrario. Pensate al modo in cui le grida dei non morti o il suono dei colpi di spada esplodono per un momento prima di spegnersi. Ne viene fuori l’idea di luoghi completamente morti, in cui anche l’unico sentimento percepibile, un senso di infinita disperazione, viene soffocato. Ancora una volta Dark Souls mi sembra governato da una buona regia, quella di chi sa che non è solo la musica a dare valore a un film, ma anche la sua assenza dove tutti si aspettano che ci sia.
Nell’articolo precedente, David Canela sostiene che il silenzio aiuti l’immedesimazione perché rende il mondo di Dark Souls “meno innaturale”. Non sono d’accordo. Realismo e immedesimazione non sono collegati: altrimenti, estremizzando, un video girato da nostra nonna con il telefonino dovrebbe essere più coinvolgente di un episodio di Game of Thrones. Anzi credo che il silenzio degli ambienti (a volte amplificato da una nota di sottofondo, come un boato o un ruggito lontano) ci collochi in uno stato di contemplazione rispetto al gioco, dal quale possiamo osservare il lungo funerale del mondo con malinconia e distacco.
Un’ultima considerazione: il silenzio agisce in modi inaspettati anche sui combattimenti, che richiedono più concentrazione che istinto. Chi ha giocato a Dark Souls sa bene che improvvisare non paga quanto la pazienza di sostenere per decine di minuti una precisa alternanza di para e colpisci, scansa e colpisci. Con il tempo impariamo a percepire il rumore di colpi e contraccolpi come un ritmo sul quale dobbiamo sintonizzarci per non agire troppo presto o troppo tardi. La musica soffocherebbe questa cadenza. Il silenzio, invece, la esalta. E ci conferma che la colonna sonora migliore possibile per Dark Souls è muta.