La sonda aliena si manifesta come un puntino rosso e incandescente nel cielo. La vediamo abbassarsi a velocità ultrasonica, planare e rotolare su dune di sabbia per spiccare ancora il volo e riprendere la sua corsa silenziosa. Nessuno sa dove sia diretta né che intenzioni abbia, se si tratti di un velivolo o di una creatura aliena, se sia insomma tecnologia o materia organica—figuriamoci se minacciosa o portatrice di speranza.
“We have to stop thinking in human terms and trust their design” sostiene una voce umana, gracchiante nel brusio di frequenze disturbate, in arrivo da chissà dove tra le vibrazioni e le abrasioni pulviscolari dello spaziotempo.
Finché poi Exo One non inizia davvero e siamo noi a interpretare la sonda aliena, finalmente avvolti dalla stessa idea di essere quest’oggetto misterioso, coinvolti nella sua natura profonda. Che ha due forme: sferica e lenticolare—il classico disco volante—con un sistema di alimentazione legato alla forza di gravità. Sfruttando quest’ultima mentre è nella modalità globulare, la sonda rotola, prende velocità sulla superficie e solo così, una volta riassorbito il necessario quantitativo d’energia, può tornare a volare in forma di disco, disegnando nel cielo evoluzioni rapide e violente, oppure morbide e aggraziate come se stesse tuffandosi e nuotando nell’aria.
Non sappiamo perché viaggiamo, né dove siamo diretti. Alla fine di ogni pianeta/livello c’è un lungo ponte che fa da porta dimensionale. Una volta raggiunto e percorso un sottile fascio di luce astrale, un wormhole si apre per disaggregare e riaggregare la materia sconosciuta della sonda in un altro punto altrettanto sconosciuto dello spaziotempo—cioè sul pianeta/livello successivo. Non c’è altro. A poco o niente servono le voci e gli scampoli di ricordi umani che appaiono come visioni tra un pianeta e l’altro, con le foto in posa di astronauti partiti a loro volta per una missione dall’esito oscuro. E non è dato neppure sapere a chi appartengano queste visioni, questi ricordi—sempre che un ricordo, come una visione, possa davvero appartenere a qualcuno.
Exo One si offre dunque come un denso viaggio basato sul classico immaginario visivo da profondità spaziali, attingendo tanto all’immancabile 2001: Odissea nello Spazio quanto a Interstellar (senza dimenticare Solaris o Star Wars con i suoi viaggi nell’iperspazio). Nella chiara impossibilità di rinnovare questo immaginario ormai cristallizzato, evidentemente funzionale così com’è, Exo One rappresenta un’opportunità abbastanza unica di bucare quelle visioni, di viverci e viaggiarci dentro, andando ben oltre la definizione di walking simulator spaziale che troviamo in alcune recensioni (comunque poche, quantomeno in Italia, rispetto ai meriti del gioco) in cui è stato paragonato a titoli come Journey, Flower o addirittura Death Stranding. Come se l’assenza della possibilità di combattere, risolvere enigmi, morire o perdere una partita equivalesse automaticamente all’idea di una semplice passeggiata—e come se passeggiare, tanto più nello spaziotempo, non fosse di per sé una cosa particolarmente avvincente.
Ad ogni modo il punto con Exo One, lo accennavo prima, è lasciarsi avvolgere dall’idea di essere la sonda, dalla sua natura proteiforme, abbracciarne la composizione chimica e fisica per porla in relazione con quella dei pianeti da esplorare; imparare, run dopo run (ne consiglio almeno due o tre) a manipolare la corporeità della sonda per rimbalzare, rotolare, evitare il surriscaldamento del sistema di alimentazione e navigare sfruttando al meglio la possibilità, ad esempio, di rompere la barriera del suono per tuffarsi in un soffice nembo di nuvole rosa e riemergerne disegnando una lunga parabola ascendente verso il ponte interstellare, mentre sullo sfondo il firmamento alieno è attraversato da un infinito anello di detriti e polvere cosmica.
Bisogna lasciarsi andare completamente alla natura biotecnologica della sonda e al suo ritmo, al suo chiudersi e schiudersi, al suo inspirare (forma sferica) ed espirare (lenticolare), come del resto fa anche l’universo che si dilata e si contrae dando vita, se questo può essere il termine corretto, a nuove stelle, nuove nebulose e nuove galassie.
A quel punto Exo One è un’esperienza in grado di restituire pienamente le sensazioni psichiche e fisiche al limite del lisergico che, sempre da immaginario di riferimento, supponiamo si provino nello spaziotempo profondo. Sensazioni che sono certamente frutto di costruzioni culturali (mettiamoci anche le tavole d’ispirazione cosmica del fumettista Jack Kirby), ma l’esperienza di gioco è così forte che presto ce ne dimentichiamo per goderci semplicemente l’incedere psichedelico dell’avventura. Giocando Exo One, per la prima volta ho compreso quanto siano da prendere sul serio le avvertenze sull’epilessia fotosensibile che appaiono all’avvio di un videogioco.
Stringhe multicolori si addensano e stratificano per poi scompaginarsi e rivelare galassie di satelliti di lava, pianeti-oceani di vaste superfici d’acqua gelatinosa, misteriosi monumenti gettati nel pieno del deserto e ancora distese di conche e calanchi in cui lo sfruttamento della sola forza di gravità, in tutta la sua angosciante spietatezza, rappresenta l’unica speranza di raggiungere il prossimo ponte interstellare sotto un’incessante pioggia acida, mentre in cielo brucia un’ultima gigantesca stella poco prima del collasso che spazzerà via tutto.
“It’s all theoretical at this point” sostiene un’altra voce umana, anche questa arrivata da chissà dove. Mi sono interrogato a lungo sul senso delle vicende umane trattate in Exo One, arrivando alla conclusione che siano state messe lì, solo accennate e un po’ criptiche, come semplice cornice, quasi un corollario per il viaggio interstellare; ma è pur vero che l’intraducibilità di queste trame, che stanno forse prima o forse molto dopo l’inizio dell’avventura, o forse addirittura la innescano in un’ibridazione circolare tra civiltà interplanetarie, non fa che rimandare ulteriormente all’idea di alienità che si prova nel corso dell’esperienza di gioco. La marginalità della parte umana nella storia di Exo One ne rappresenta e conferma i probabili intenti: far sperimentare il viaggio per il puro piacere del viaggio, la dimensione del sublime che si schiude a chiunque voglia misurarsi con altezze e profondità che non conoscono alcuna scala intellegibile secondo i parametri umani.
Certo, una volta arrivati ai titoli di coda la domanda resta: chi pilota davvero la sonda? Perché se possiamo osservarla nell’inquadratura da dietro mentre la manipoliamo nello spazio di gioco, e se possiamo addirittura percepire fisicamente la granulosità delle atmosfere che attraversiamo grazie al loro impatto sullo schermo (che coincide con la telecamera, dunque col nostro punto di vista esterno alla pura esperienza di gioco), allora forse restiamo un po’ spettatori di questo viaggio; la risposta, banalmente, potrebbe essere che la sonda è pilotata dal videogiocatore. Tutto qua?
Questo è un punto critico che vale per tutti i videogiochi in terza persona, in particolare quelli che tradiscono il gusto per un racconto che, attraverso la gestione cinematografica degli effetti sullo schermo/camera (il violento ticchettio della pioggia, la rifrazione della luce solare, l’addensarsi di pungenti strati di ghiaccio), certifica, insieme all’eventuale presenza dell’HUD, l’estraneità dell’origine del nostro punto di vista rispetto al mondo di gioco, col rischio quindi di minare la sospensione dell’incredulità.
A meno di non postulare, a maggior ragione nel caso di Exo One, la natura quantistica e non locale dell’esperienza videoludica: per cui, agendo in un ipospazio contratto in cui cosmo e microcosmo coincidono, siamo spettatori che sono anche pieni protagonisti di un’avventura, tracce della compresenza di un’entità che è insieme soggetto e oggetto di ciò che si anima sullo schermo—particelle elementari che esistono, agiscono e interagiscono simultaneamente in almeno due punti diversi e distanti nello spaziotempo, ossia fuori e dentro lo schermo, nella realtà del giocatore come in quella del gioco giocato.
Potrebbe tuttavia non essere un caso che, dopo i titoli di coda, Exo One lasci la possibilità di restare ancora in volo tra i vapori del cielo di Giove, questa volta davvero senza alcun intento—nessun ponte da raggiungere, nessun nuovo pianeta da esplorare—e soprattutto adottando una visuale in prima persona. Forse solo a quel punto siamo davvero la sonda, saldati al suo incomprensibile destino senza meta? Poco prima abbiamo visto altre sonde inseguirsi e congiungersi nel cielo, intercettando la voce di una bambino che supplicava: “I wanna go! I wanna go!”. Come in Kubrick, l’apparizione di un bambino cosmico potrebbe spiegare molte cose, oppure no: le voci umane in Exo One sono brusio, rumore indistinto, il disgregarsi di una materia instabile, destinata a perdersi nel fluire dello spaziotempo come il nome Clara che ritorna più volte nel corso dell’avventura.
In fondo è l’intero comparto audio di Exo One a ribadire proprio quest’idea di estraneità, di umanità residuale che permea il titolo, che a differenza di quanto accadeva in Interstellar non ha bisogno dell’intreccio umano come misura per definire l’immensità di ciò che si agita là fuori nello spazio: la colonna sonora alterna suoni alieni, da paesaggio cosmico, con plettrate e arpeggi di chitarra di chiara origine umana che hanno, questi sì, una funzione drammatica palpabile rispetto alle meraviglie incommensurabili cui assistiamo nel corso del viaggio. Tuttavia, se qualcuno mi confidasse di essersi commosso ascoltando i toni caldi e malinconici di chitarra soffusa che accompagnano ad esempio la tempesta di comete in caduta libera sul mare infinito del pianeta Nautica, gli farei notare che ciò che deve averlo colpito non è il pur riuscito accostamento tra musica e immagini, quanto l’aver percepito l’ipotesi che una tale, vertiginosa meraviglia come Nautica possa esistere anche a prescindere dall’osservazione umana. Una commozione che non si innesca grazie alla presenza dell’elemento umano, insomma, ma anche qui nonostante la sua presenza.
In questo lampo di intuizione di uno spaziotempo completamente indifferente alle nostre sorti risiede la vera forza di Exo One, la sua unicità, un motivo più che valido per giocarlo—se “giocarlo” è la parola giusta.