Io sono John Marston, è il 1907 e il mondo sta finendo. Qualche giorno fa sono partito di buon mattino da Beecher’s Hope, il ranch di famiglia nel West Elizabeth, per raggiungere la regione dell’Ambarino. L’idea era quella di arrivare a nord ovest del lago Isabella per beccare l’arabo bianco, che gironzola in libertà da quelle parti. Ho sentito dire che è il miglior cavallo in circolazione.
Certo, se dovessi davvero localizzare la mia posizione, dovrei dire che mi trovo nell’epilogo di Red Dead Redemption 2. Dovrei cioè specificare che sono già stato John Marston nel primo Red Dead (dunque lo sarò ancora) e soprattutto che sono già stato Arthur Morgan—del quale conservo, oltre che la bisaccia e il cappello, anche la memoria.
Tutto questo per non dover essere quel me stesso fuori dal gioco che nell’ultima settimana di aprile 2020, cioè nell’ultima della Fase 1 di lockdown in Italia, ha scelto di tornare dentro RDR2 per poter uscire a cavallo, fare un giro nella natura, inseguire l’alba sul mare e scattare qualche foto.
L’alba sul mare la becco a Blackwater, dove mi dirigo per vendere a un conciatore le penne di un’aquila calva cui ho dato la caccia per strada. Nei pressi del molo mi fermo vicino a un palo, lego Rachel, il mio cavallo, mi avvio verso la banchina.
Ho azzerato il volume della musica, sento solo i passi dei miei stivali sul legno che scricchiola, lo sciabordio delle onde timide. Il mare è calmo, il sole è un tuorlo acceso tra le nuvole chiare. Per il resto il cielo è sgombro, più vicino a riva un paio di silhouette nere, imbarcazioni dei pescatori del luogo, si muovono lente sul pelo dell’acqua.
Da quanto tempo non vedo l’alba sul mare? Quando potrò rivederla? Ma questo sono io che parlo, o al massimo Arthur. Nella mia versione della storia Arthur è morto in solitudine, di tubercolosi, tutto sommato sereno per aver fatto la scelta giusta.
La scelta giusta è stata dare la vita per me, cioè per John. So per certo che non ci sarà redenzione per John, e neppure per suo figlio Jack. Qui non c’è alcuna redenzione, per nessuno. Quando Sadie Adler ha ipotizzato un futuro da cacciatore di taglie anche per Jack, mia moglie Abigail è insorta. No, ha detto, Jack non farà quella vita.
Quante volte dovrò seppellirti, John Marston?, le ho sentito chiedere un’altra volta. Per certi versi, in tutta questa storia Abigal è stata l’unica forza morale—se “morale” significa ridurre la sofferenza altrui—in grado di opporsi al caos luciferino di Dutch Van Der Linde; il sogno di una vita tranquilla, non più da fuorilegge.
Quello che Abigail non può sapere è che andrà male per tutti, alla fine; Jack si troverà a spargere altro sangue per vendicarmi, e comunque—vendette a parte—questa vita da ranchero non sarà meno ipocrita o violenta di quella della banda. Neppure di quella che ci aspetta: l’America urbana delle nuove città sporche e affumicate come Blackwater e Saint Denis non fa meno schifo della nazione che inseguiva una frontiera ancora libera e selvaggia.
A Saint Denis ci sono finito per caso, la prima volta. Ero Arthur, ho preso un treno al volo di notte e sono approdato in questa città elettrica e piena di vita (che strano, di questi tempi). C’erano i pali della luce, i lampioni, le insegne, un tram, un tizio suonava la tromba vicino a un monumento, e poi gli immigrati, i quartieri poveri, un clangore continuo—una fabbrica in lontananza, al lavoro anche di notte. Una frenesia sconosciuta e diabolica, da far rimpiangere l’utopia naturalistica di Dutch.
Per ristabilire l’equilibrio ho pensato che fosse il caso di rapinare un tizio che fumava in solitudine in un vicolo. Mi sono avvicinato, gli ho chiesto qualcosa, poi l’ho minacciato e pestato. Una volta a terra gli ho preso gli spiccioli.
Ma ricordare fa male, anche se inabissarsi nei ricordi dei bei tempi andati della banda fa dimenticare con più facilità quello che sta fuori dal gioco in questi giorni. Ora è di nuovo notte, di quelle notti di luna piena che negli spazi naturali di RDR2 fanno quasi giorno, per quanta luce c’è.
Sto attraversando i boschi a nord di Strawberry, sento il verso di un giovane orso in lontananza. La caccia è la più grande metafora di tutta la violenza contenuta in RDR2: non andrei mai a caccia fuori da qui, ma qui è irrinunciabile.
Mi faccio strada tra gli alberi, che frazionano e rimandano la pura luce lunare. Vedo l’orso sfrecciare verso nord, lo inseguo ma quello è più veloce, sparisce dietro un muro di pini e di rocce. Eccone un altro: sta dando la caccia a un gruppo di cinghiali. Rachel si allarma, l’accarezzo, andiamo, dico, ma deve aver fiutato qualcos’altro.
Puntini rossi sulla mappa. Ululati. Un branco di lupi sta correndo verso di me. Sono troppi, Rachel scalpita, non ricordo bene come si affrontano queste situazioni controller alla mano, così rinuncio alla lotta e alla caccia e proseguo verso nord.
L’interfaccia di Red Dead Redemption 2, come pure l’elenco di comandi da memorizzare ogni volta che si ha a che fare con qualcuno o qualcosa, è il fallimento del sogno di replicare la realtà messo in scena da Rockstar (da qui in poi: il Creatore). Me lo ricordo qualche ora dopo, quando sulla strada per l’Ambarino subisco un’imboscata da parte della banda dei Laramie.
Ai tizi non è andata giù la lezione che gli ho dato quando lavoravo nel ranch del signor Geddes. Vogliono farmela pagare, è chiaro. Si sono nascosti dietro una roccia, in quattro, mi hanno puntato i fucili addosso e adesso mi obbligano a scendere da cavallo. Uno di loro prende possesso di Rachel, dice che la prossima volta mi fanno fuori.
Premo il triangolo per sollevare le mani e fingere la resa, R2 per tenere i nemici agganciati, poi L1 per tirare fuori il Lancaster e contro-minacciarli, ma evidentemente sbaglio qualcosa perché parte un colpo a vuoto. La banda comincia a spararmi addosso, se non fosse per il Dead Eye mi avrebbero freddato all’istante.
Ho combinato un casino, ma comunque è andata. I Laramie sono a terra, ho recuperato Rachel e posso continuare il mio giro nella natura. La bellezza del paesaggio mi ripaga in parte della legnosità dello scontro a fuoco. Stasera c’è un tramonto umido, da inizio autunno, tra gli alberi e i grandi campi di lavanda si sollevano degli sbuffi di vapore. Cavalli selvaggi si rincorrono costeggiando un fiume, che più in là finisce in una piccola cascata tra le rocce. All’orizzonte vedo le montagne innevate dell’Ambarino.
Quando qualche settimana fa sono uscito—uscito dalla PS4 e da casa—per andare in campagna, ho seriamente pensato che il rapporto tra le realtà fosse ormai invertito. Osservavo un prato di un verde quasi acido e il cavallo che brucava poco distante, e concludevo che la mia realtà primaria, quella a cui appartengo, era quella rappresentata nello schermo. Quella fuori non è che un richiamo, sporadico e ben simulato, neppure tanto meglio rispetto alla realtà elaborata dalla console.
Appena arrivato nell’Ambarino mi sento chiamare. È un cacciatore, si fa strada verso di me nel paesaggio innevato. Chiede una mano, ha perso il suo compagno nella tormenta. Va bene, dico, mi metterò a cercare. Do una strigliata a Rachel, salgo su un pianoro e procedo verso una zona in cui il vento è meno forte e la visibilità decisamente migliore.
Non ci metto molto a trovare il cadavere del cacciatore. Giace abbandonato vicino a un tronco caduto nella neve. Ha volto e ventre squartati. Opera di un grizzly, senza dubbio. Torno dal tizio per dargli la notizia. Sai, gli dico, il tuo amico è lassù, ma forse non è il caso che tu vada a vedere, per niente. Il tizio si dispera, monta a cavallo, si dirige proprio dove non dovrebbe andare. Lo seguo.
Mentre lo vedo chino sul cadavere a maledire l’idea della battuta di caccia, ecco il ruggito dell’orso. Tiro fuori il fucile, provo a puntarlo sulla bestia che corre verso il cacciatore. Il fucile resta fermo nelle mie mani. Riprovo, ma niente. Assisto allo scena impotente, senza poter intervenire. Solo quando l’orso ha finito posso puntargli contro l’arma e ucciderlo con cinque colpi in rapida successione.
Di eventi cui puoi solo assistere RDR2 è pieno. Così com’è pieno di abitazioni in cui non puoi entrare, di persone con cui non puoi parlare davvero, di macchie di sangue o di fango che non ti restano addosso a inzaccherarti i vestiti tanto a lungo quanto dovrebbero.
Quanto più realistico renderai un gioco, tanto più realismo mi aspetterò. Quanta più possibilità di scelta mi darai, tanto più io vorrò scegliere.
L’immersione continua nella natura di RDR2 si traduce in un confronto, non meno profondo e serrato, con la natura tecnica del gioco, dunque con la sua impressionante e spesso tradita tensione verso la perfezione. L’ambizione di creare un nuovo paradigma videoludico è ciò che esalta e abbatte l’entusiasmo di ogni sessione di gioco, specie quelle più open in cui ti limiti a vagabondare in cerca di selvaggina e eventi casuali come sto facendo in queste ore. Va meglio nelle missioni, perché sono scriptate, votate al patto più classico tra Creatore e giocatore: ho scritto questa parte per te, devi fare questo e quello premendo i tasti giusti: divertiti, non c’è altro.
E così, mentre mi avventuro nell’Ambarino alla ricerca dell’arabo bianco, di tanto in tanto apro il menu, vado nella sezione con le missioni e ne rigioco una o due. Scelgo il capitolo quattro, le missioni su Guarma, le più scriptate del gioco. È come dar vita a un flashback, di fatto accedendo alla memoria di Arthur Morgan, perché a Guarma io—in quanto John Marston—non c’ero.
La distanza dai giorni di Guarma è enorme, ora. Non solo per l’ambientazione – un’isola caraibica, mentre adesso io e Rachel siamo al riparo in un accampamento abbandonato e imbiancato dalla tormenta—quanto per il gameplay. Guarma è tutta azione, c’è poco o nulla da esplorare, devi solo andare avanti nella storia. Aiutare i ribelli delle piantagioni di zucchero, abbattere l’esercito dei proprietari terrieri e cercare di tornare in America con il resto della banda.
Quando si dice che il film 1917 di Sam Mendes è un videogioco—be’, probabilmente Mendes dev’essersi ispirato proprio all’ultima missione su Guarma, quando con Arthur inquadrato da dietro devi farti strada, fucile in mano, tra le mura diroccate della cittadella in fiamme, in piena notte.
Il sistema di combattimento di RDR2 non è il massimo, combattere è una delle tante cose che il Creatore ti permette di fare abbastanza bene come cavalcare, cercare tesori, parlare, fare a cazzotti, giocare a poker, andare a pesca, ecc., puntando sulla quantità più che sulla qualità delle singole attività—eppure su Guarma hai davvero l’impressione di vivere un’avventura mozzafiato. Per questo adesso quelli su Guarma sembrano bei giorni, tutto sommato.
Sì, su Guarma ci siamo divertiti, e poi tutto poteva ancora accadere. Potevamo salvarci, anche se eravamo già condannati. Ci penso ora come si ripensa a un racconto ascoltato dalla viva voce di un vecchio amico, mentre nell’accampamento esamino i cadaveri di due esploratori morti assiderati. Shieeet, direbbe Arthur Morgan, perquisendoli. Ma è il 1907, il mondo sta finendo e io sono John Marston, tutto solo in un paesaggio freddo e inospitale. Monto su Rachel e mi rimetto in marcia, il lago Isabella non è molto distante.
Adesso è sereno, le montagne sono ben visibili in alto, il sole scalda l’aria. Mi avventuro su un piccolo rialzo, scendo da cavallo, tiro fuori il binocolo. Se l’arabo c’è, lo vedrò. Ma più giù, a valle, scorgo solo un paio di wapiti, un cervo, qualche coniglio che corre tra gli alberi. Rimonto in sella, scendo verso il lago.
Gli zoccoli di Rachel affondano in almeno mezzo metro di neve. Osservo il solco che ci lasciamo alle spalle, avanzando nel bianco. La superficie del lago è ghiacciata. Ci giro attorno, per diversi minuti, finché non sono dall’altra parte e lo vedo: l’arabo è lì, sta brucando dell’erba sopravvissuta al freddo, come se niente fosse.
Scendo da cavallo. Mi avvicino piano, passo dopo passo, riepilogando mentalmente l’elenco e la giusta sequenza di comandi, tutto quello che devo fare per non spaventare l’animale. Sento i miei passi nella neve, vedo i fiocchi che riprendono a scendere copiosi. L’arabo si è accorto della mia presenza, mi guarda, lancia un piccolo nitrito curioso. Premo quadrato per calmarlo. Mi avvicino ancora, mentre i fiocchi aumentano, agitati dal vento. Altro nitrito, stavolta più lungo, quasi risentito: il cavallo mi dà le spalle, pronto a fuggire.
Quadrato per calmarlo, di nuovo, ma l’arabo si scuote e nitrisce ancora: poi lo vedo imbizzarrirsi e mettersi a correre nella direzione opposta, tra gli alberi. Fischio, Rachel si avvicina, rimonto in sella, parto alla ricerca delle tracce nella neve, le seguo finché non si mischiano alle mie e infine scompaiono, finché tutto non scompare nel bianco della bufera.
Qualche ora dopo sono in una baita abbandonata più a sud, in cerca di provviste. Stavolta ripesco dalla memoria una cosa che è successa a me, quindi a John Marston. Verso la fine, mentre la banda preparava l’ennesimo ultimo colpo prima della fuga definitiva dalla civiltà, ho chiesto a Dutch di provare a essere realista: non c’era alcuna possibilità di sfuggire alla legge, eravamo circondati, con i Pinkerton alle calcagna, dappertutto ovunque andassimo. Realista?, ha risposto Dutch, davanti alla banda al completo. Detesto quella parola, manca totalmente d’immaginazione, ha concluso il vecchio, per zittirmi. Per umiliarmi.
E così adesso eccomi qui, a frugare nel cassetto di un vecchio mobile di legno in cerca di qualcosa da mangiare o da bere. Forse il Creatore di questo mondo alla fine dei suoi giorni non è stato meno ambizioso di Dutch, nell’immaginare Red Dead Redemtpion. Forse, proprio come Dutch, il Creatore ha sognato una nuova frontiera in cui giochi e giocatori potessero pascolare liberi, al di là dei limiti tecnici, delle interfacce, dei controller, delle convenzioni videoludiche; peccato che a furia di immaginare, il Creatore si è semplicemente messo in testa di rifare daccapo la natura, e così ha finito con l’imboccare il vicolo cieco del realismo. Di ogni realismo.
Dov’è l’immaginazione?, mi chiedo mentre un glitch fa sparire il vecchio mobile di legno, la baita, la neve, l’intero Ambarino, e vedo John Marston cadere nel vuoto, all’infinito, mentre intorno a lui sfilano pezzi di montagne rocciose, dune di sabbia, centri abitati, pezzi di mappa che non ho mai visto, che non vedrò mai.