Perché si parla così poco di Kingdom Hearts? È una domanda che mi sono posto qualche mese fa, discutendo con un amico game designer. Non fraintendiamo, però: Kingdom Hearts è uno dei franchise di più alto profilo di Square Enix, una serie da milioni di copie curata dal designer superstar Tetsuya Nomura—non è una piccola gemma conosciuta solo da esperti e appassionati. Il successo c’è stato, eccome. Eppure è una serie che non sembra aver sollevato lo stesso tipo di analisi e retrospettive che altri franchise anche recenti, da Titanfall a The Evil Within, hanno portato con sé—nonostante il curriculum delle persone coinvolte e i suoi gameplay sperimentali.
Non che queste analisi non esistano proprio, intendiamoci: per ogni titolo mai pubblicato esiste un video da 45 minuti su Youtube che ne analizza ogni singolo aspetto, e la community del gioco ha sviscerato ogni episodio di Kingdom Hearts nei minimi dettagli. È impossibile però non notare che c’è un qualche tipo di divario tra i fan della serie e il resto degli appassionati, che spesso sembrano considerare Kingdom Hearts come una specie di progetto di marketing sfuggito di mano, qualcosa da guardare da una certa distanza, confinato a un pubblico più vicino ad anime e manga che a Doom e Skyrim—una sensazione diffusa, sorprendentemente, anche tra gli addetti ai lavori.
È questo il motivo per cui ho deciso di giocare all’intera serie durante la pandemia, immergendomi in 19 anni di progetti estremamente diversi e complicati: per farmi un’idea di persona. Non per valutarla o dargli un voto, ma per cercare di capire da dove nasca questo divario e quali siano le idee artistiche, narrative e di design che, e questo è innegabile, hanno comunque stregato milioni di giocatori. Cosa rende Kingdom Hearts così speciale eppure così ignorato? È impossibile dare una risposta precisa a questa domanda—o avere la sicurezza che la domanda stessa sia corretta, viste le dimensioni e l’arco temporale della serie.
La mia prospettiva resta limitata da molti fattori, dalla geografia al non aver fatto parte della community nel suo periodo d’oro, fino alla non conoscenza della lingua giapponese, e ogni conclusione raggiunta deve ammettere questa premessa. Ma ci sono comunque conclusioni da trarre. La prima è che è molto difficile avvicinarsi a Kingdom Hearts se non si sa niente di Kingdom Hearts.
Partiamo dalle origini. La prima cosa da tenere a mente con questo franchise è allo stesso tempo la più importante e quella a cui è più difficile credere: Kingdom Hearts non è un’operazione di marketing, bensì un progetto personale nato dalla passione dei suoi creatori a Square Enix. Narrano le cronache che i producer Shinji Hashimoto e Hironobu Sakaguchi fossero da anni in cerca di un’idea che potesse rivaleggiare con Super Mario 64 (si, sul serio) nel campo dei giochi d’azione, ma che non riuscissero a trovare un personaggio in grado di sostenere il confronto con la fama del paffuto idraulico di casa Nintendo.
La loro frustrazione trovava spesso sfogo in discussioni ad alta voce, in cui i due si lamentavano che solo la Disney aveva personaggi così famosi da essere tanto conosciuti quanto Mario; volle il caso che, all’epoca, Disney e Square Enix avessero uffici nello stesso palazzo, e Hashimoto si trovò un giorno a salire in ascensore con uno degli altissimi dirigenti dell’azienda americana. Non sappiamo cosa sia successo durante la salita, non sappiamo se glie l’abbia messa lì per scherzo o l’abbia pregato in ginocchio, ma una volta arrivati al piano Square Enix e Disney avevano un accordo.
E Tetsuya Nomura, considerato il papà della serie? Li aveva sentiti lamentarsi e aveva offerto il suo aiuto—finendo poi per lanciarsi in una scrittura febbrile che l’avrebbe portato addirittura a scontrarsi con Disney, che insisteva per avere un protagonista tratto dalle sue proprietà e non creato da Square. Nomura da membro adottivo del team avrebbe di lì a poco trasformato il progetto nella sua più grande passione, qualcosa di molto più personale di Final Fantasy e di molto, molto più intricato.
La trama
È molto difficile descrivere Kingdom Hearts a grandi linee senza farlo sembrare una mera operazione di marketing. Un giovane eroe deve salvare mondi Disney con l’aiuto di personaggi di Final Fantasy—il concetto di base spinge una grande fetta del pubblico a ritenerlo una versione giappo-americana di Ready Player One, un lavoro basato sulla nostalgia non troppo dissimile dai vari giochi su licenza che periodicamente appaiono su ogni piattaforma. Il fatto che la trama presenti un gruppo di personaggi usciti da un anime che parlano di cuori, oscurità e potere dell’amicizia non aiuta chi non è già un fan a prenderla sul serio.
Ma cosa vuol dire prendere una storia sul serio? La prima cosa che ti insegnano quando inizi a studiare narrativa è che ogni storia va affrontata sul suo livello: ogni racconto ha scopi diversi e, per parafrasare Goethe, non è possibile valutare un’opera d’arte senza prima aver capito il suo scopo. E lo scopo di Kingdom Hearts non è di indagare l’animo umano e di produrre un lavoro artistico di altissimo livello, con dialoghi realistici e una lente d’ingrandimento puntata sulla società che ci circonda. Kingdom Hearts è uno shonen, un lavoro che narrativamente si avvicina a nomi come Naruto e Dragon Ball, quest’ultimo palese ispirazione della serie in molti aspetti; questo tipo di storie hanno uno scopo diverso.
Ciò, ovviamente, non significa che la trama di Kingdom Hearts sia superflua. Semplice non vuol dire stupido; Goku e Gohan non discuteranno dei massimi sistemi, ma dal loro rapporto si può comunque trarre una riflessione sulle responsabilità dei figli nei confronti dei padri e sull’orgoglio (e i problemi) nel vedere un erede seguire i propri passi. Tutto questo si accosta però alla prima difficoltà da affrontare quando ci si approccia alla serie: la trama di Kingdom Hearts è, per usare una licenza poetica, intricata come un gomitolo in un frullatore.
Per riassumere diciannove anni di Kingdom Hearts servirebbe un intero libro. La premessa da cui parte la serie è però molto semplice: Sora, il nostro giovane eroe, è chiamato all’avventura da eventi misteriosi. Il suo desiderio di visitare il mondo al di là dell’Isola del destino in cui abita si realizza nel peggiore dei modi, con la sua casa distrutta e i suoi amici spariti senza lasciare traccia, ricevendo in cambio un’arma mistica che lo accompagnerà nel suo viaggio. È una struttura narrativa immortale, che abbiamo visto ripetersi da Guerre Stellari a Eragon—ma è immortale perché funziona.
Sora “atterra” nella Città di mezzo (Traverse Town), uno strano mondo coperto da una notte perenne, e qui arriva una prima spiegazione: Sora è un naufrago, la Città di mezzo è un mondo costituito da pezzi di mondi distrutti dagli Heartless, le creature che hanno spazzato via la sua isola, ma l’arma che porta con sé—la Keyblade, una lama dalla forma di chiave—potrebbe essere la chiave (pardon) per fermarli. Da qui comincia un viaggio attraverso universi diversi, visitando i film della Disney più famosi, chiudendo i lucchetti dei vari mondi e sconfiggendo boss giganteschi per la gioia di grandi e piccini.
Fin qui niente di particolarmente strano—struttura classica, ottima esecuzione, mistero, fantasia e mondi pieni di nostalgia. In contemporanea a questa trama, però, si svolge un’altra serie di eventi: la sparizione di Re Topolino, che più passa il tempo più sembra coinvolto nelle vicende che hanno portato alla distruzione del mondo di Sora. Pippo e Paperino, nelle vesti di capitano della guardia reale e di mago di corte, sono sulle tracce del re—e uniranno le loro forze col nostro protagonista per scoprire cosa stia succedendo. A questo si aggiunge una scena introduttiva che sembra suggerire che qualcosa si nasconda dietro le quinte dell’opera stessa—Ho degli strani pensieri ultimamente, pensa Sora sospeso nel vuoto. Tutto questo è reale… O no?
Da questa premessa parte una storia che si ramifica come una siepe. Organizzazioni segrete, piani di conquista del cosmo millenari, memorie ripulite e ricostruite, doppiogiochisti, triplogiochisti, rottura della quarta parete, viaggi nel tempo e una scatola dal contenuto completamente sconosciuto desiderata da personaggi poco raccomandabili. Il tutto all’ombra di Kingdom Hearts, il Cuore dei Mondi, in grado di garantire un potere incalcolabile a chiunque sia in grado di controllarlo. Tutto questo me l’aspettavo; la serie è famosa per la sua trama impenetrabile. Quello che mi ha sorpreso è un gioco con una lore dalla profondità enorme e dall’impostazione sorprendentemente filosofica.
I cuori non sono solo una metafora: nel mondo di Kingdom Hearts ogni essere vivente ha un Corpo, un’Anima e un Cuore, diviso tra Luce e Oscurità, bilanciate tra loro e in grado di creare l’insieme di emozioni positive e negative che caratterizzano un essere senziente. Ognuno di questi elementi ha un ruolo preciso e—soprattutto—non metaforico. Come nel caso delle anime di Dark Souls, la serie effettua una ri-semantizzazione di termini già in uso, assegnandogli un significato specifico (sebbene intenzionalmente mai definito in maniera esatta) che separa un essere in emozioni/memorie, forza vitale e capacità di interagire col mondo fisico. Questi tre elementi possono essere separati, “sdoppiando” persone e rimuovendo le caratteristiche legate a ognuno di essi. Una persona con solo Corpo e Anima senza Cuore è un Nessuno senza emozioni (o Nobody nella versione inglese), rimuovere il Cuore di una persona genera un Heartless, e così via.
È necessario parlare di questa struttura perché sono le fondamenta su cui è costruita la storia; è anche uno degli elementi più fraintesi dal pubblico mainstream, che spesso deride particolari come le Principesse del Cuore basandosi solo sul nome stucchevole e sul marchio Disney. Quando i personaggi parlano di “amici dai cuori connessi” il significato va oltre il linguaggio; capirlo è un passo importante per intuire il valore intrinseco della serie e approcciarsi a un tipo di storytelling fantasy più ispirato al fiabesco che al tipico stile diretto dei videogiochi. Purtroppo le traduzioni dal giapponese, dalla qualità altalenante, non sono sempre in grado di renderlo come dovrebbero e prendono spesso per metaforico quello che in realtà dovrebbe tendere al letterale.
Ma torniamo a fatti e dramatis personae. Con l’eccezione di Pippo, Paperino, Cip, Ciop e pochi altri, i personaggi Disney tendono ad avere una rilevanza narrativa limitata ai mondi in cui si trovano, fornendo a Sora una lunghissima lista di situazioni che rispecchiano la sua. La scelta non è basata solamente su popolarità e possibilità di gameplay, ma anche su come si inseriscono nelle tematiche della serie—per citare un mondo a caso, Pinocchio è un “corpo” che è stato in grado di sviluppare un “cuore”, fatto che interessa particolarmente ai cattivi della serie, e Geppetto ne sa qualcosa del naufragare lontano da casa, disperato e isolato da amici e famiglia.
Siamo ben lontani dal cinico tie-in che l’idea di fondo suggerisce; la storia si spinge verso territori decisamente postmoderni, pescando a piene mani tanto dalla cultura pop quanto dalla filosofia e utilizzando queste trame e questi personaggi come elementi per raccontare qualcosa di unico. Non centra sempre il bersaglio—è impossibile negare che certi mondi siano molto meglio strutturati di altri, il livello della Sirenetta in Kingdom Hearts 2 in particolare fa lo stesso effetto di un martello pneumatico sulla nuca—ma quando funziona è difficile non lasciarsi coinvolgere dalla sua energia e dalla follia che sfoggia senza paura.
C’è anche da segnalare il livello assurdo di impegno che questo approccio richiede: ognuno delle centinaia di personaggi Disney va modellato, rigato e animato precisamente nello stile del film da cui viene, con una cura per i dettagli che rasenta l’ossessione—è quasi impossibile distinguere Rapunzel il film da Rapunzel il livello, e una volta che si considerano i modelli quadrupedi (il Re Leone) o comunque diversi dall’umano (i mobili di La Bella e la Bestia), più il fatto che Sora, viaggiando in incognito, cambia magicamente aspetto in certi mondi, le dimensioni del progetto da un punto di vista di produzione diventano quasi incomprensibili. La presentazione visuale della serie è a un livello che molti sviluppatori sognano di poter raggiungere (e spiega stranezze come l’assenza, per la maggior parte della serie, di qualunque personaggio non legato agli eventi della trama—vedi la mancanza totale di pubblico durante i tornei al Colosseo: ciò che non è necessario va tagliato).
Se i personaggi Disney tendono a rimanere isolati nei loro mondi, il cast di personaggi originali si interseca a livelli di complessità assurdi. Ogni gioco introduce nuovi elementi, nuove facce da ricordare, vecchie facce che cambiano fazione, nuove facce che sono vecchie facce divise in due personaggi diversi, vecchie facce che in realtà sono cloni di nuove facce e chi più ne ha più ne metta. Kingdom Hearts 3 si apre con un gruppo di nemici di cui fanno parte cinque versioni diverse del principale cattivo della serie, ognuna con un’origine a sé stante—tra sdoppiamenti, possessioni e viaggi nel tempo, tenere a mente tutti i dettagli richiede parecchia dedizione.
Qui si tocca il secondo problema, e di gran lunga il più grosso. “Quali sono i titoli principali della serie?” è una domanda trappola: ogni singolo gioco fa parte della trama principale, indifferentemente dalla piattaforma. Chain of Memories, il gioco misto di carte e combattimento per il Gameboy Advance uscito tra Kingdom Hearts 1 e 2? Chi lo salta pensando sia solo uno spin-off non avrà idea di come mai il protagonista sia in coma. Birth by Sleep per PSP? Prequel essenziale che rivela il passato del cattivo principale e introduce tre dei più importanti personaggi del franchise. L’RPG per cellulari Union X, pronunciato Union Cross, in cui la X è la lettera greca Chi, evoluzione del browser game Unchained X e poi trasformato in Dark Road? Offre un antefatto sul perché, alla fine di Kingdom Hearts 3, uno dei cattivi più di lungo termine ci ringrazi per averlo ucciso—apparentemente senza motivo.
(Una breve parentesi: i titoli strampalati della serie, che a malapena hanno senso in inglese e a volte sembrano formule matematiche, in realtà hanno un significato legato alla trama del gioco. Per fare qualche esempio 358/2 Days riflette il numero di giorni in cui si svolgono gli eventi, mentre Union X si riferisce alla X-Blade, o Chi-Blade, pronunciato esattamente come Keyblade. No, non è una cosa che mette i neofiti a proprio agio.)
È possibile godersi la trama anche senza sapere esattamente chi sia ogni personaggio coinvolto, ma ecco il mio consiglio spassionato: usate Wikipedia. Questo è il principale suggerimento che darei a chi si avvicina alla serie: recuperate su internet l’ordine ideale in cui giocare i giochi, date una possibilità a ognuno di loro (sfruttando le raccolte antologiche disponibili su console e PC, se giocare remake invece di originali non vi crea problemi), ma se vedete che qualcuno non vi prende saltatelo pure e cercate un riassunto nelle decine di siti di fan. O fate come ho fatto io e recuperate un amico fan della serie in grado di accompagnarvi nel viaggio: il lato comunitario, che per anni ha riempito forum, fiere e pagine di DeviantArt, resta una parte importante dell’attrattiva di questi giochi. Tutto questo può risultare sfiancante per il giocatore medio—e questo probabilmente spiega perché, nonostante gli enormi risultati di vendite e di fama, la serie sembra raramente discussa al di fuori del suo (enorme) circolo di fan. È una serie che richiede quel tipo di dedizione per cui o la si ama o la si odia. I vari sistemi di combattimento, dalla profondità enorme e al primo impatto molto ostici, non aiutano.
Il gameplay
È difficile spiegare come funziona il concetto alla base della maggioranza dei giochi senza farlo sembrare una follia a chi non sia abituato a questo tipo di gameplay. Siamo davanti a un action RPG, e il modo in cui lo interpreta Kingdom Hearts è letterale. Immaginate se, durante una battaglia di Pokémon, bisognasse non solo selezionare le mosse col D-pad ma in contemporanea spostare il Pokémon con la levetta, schivare nemici, bloccare eccetera eccetera. Prendendo Kingdom Hearts 2 Final Mix come esempio, si controlla un menu con le freccine, e il tasto X seleziona l’opzione; se l’opzione selezionata è Attacco, il personaggio attacca. Le altre opzioni offrono sotto-menu da cui selezionare magie, trasformazioni, attacchi speciali, membri del party, oggetti eccetera. Il tutto in tempo reale, con un ritmo che si avvicina ai picchiaduro—e una memorizzazione dei movimenti delle frecce che li richiama quasi esplicitamente.
Finire il gioco richiede di saper sfruttare parti del sistema; completarlo alla difficoltà più alta significa memorizzare la posizione di tutti gli elementi per selezionarli senza guardare, un lavoro più da speedrunner che da giocatore medio. A questo si aggiunge un sistema di magie e trasformazioni che è uno degli esempi di game design più eleganti che abbia visto nella mia vita. La barra della magia consente di sparare incantesimi con effetti precisi—dal folgorare a qualunque portata al congelare o attrarre nemici, ogni elemento ha usi specifici che aprono diverse possibilità. Ma le magie curative hanno una regola speciale: usarle costa tutto quello che ci resta della barra, lasciandoci senza opzioni magiche finché non si è ricaricata. È meglio curarsi subito e restare senza magia per sessanta interminabili secondi o continuare a combattere a un colpo dal game over, sfruttando tutto il potenziale offensivo e usando solo l’ultimo pixel per curarsi? La scelta sta al giocatore.
A ciò si aggiunge il Turbo (Drive), una barra extra usata per evocare personaggi Disney ed effettuare Fusioni. La prima opzione è un classico summon—ogni personaggio ha stili di combattimento particolari ed effetti speciali diversi—ma le Fusioni, le Drive Form, sono quello che portano il combattimento da ottimo a grandioso. Si tratta di cinque trasformazioni diverse (più una segreta) che non solo offrono mosse e stili di combattimento completamente diversi, ma ricaricano vita e magia quando attivate. È possibile concatenare combo magiche, trasformarsi e recuperare tutta la magia per estendere la combo; oppure, a un passo dalla morte, si possono ribaltare le sorti di uno scontro come Rocky Balboa.
Ed è questa la cosa che mi ha affascinato di più: il prendere idee narrative da shonen e trasformarle in un sistema di combattimento. Come Goku contro Freezer, sfruttare il sistema al massimo significa combattere fino allo stremo, fino all’esaurimento di ogni forza, per poi trasformarsi nell’equivalente di un Super Sayan e ritrovare le energie con una spinta di potenza finale. Ci sono due abilità, ormai pietre miliari della serie, che fanno da ciliegina sulla torta per questo sistema: Ultima Chance e Di Nuovo, che permettono a Sora di rimanere con 1 HP se colpito da attacchi che svuotano la vita rimanente, dandogli un’ultima opportunità di recuperare le forze prima di mettere la parola fine allo scontro.
Un tipico incontro può vedere il giocatore attaccare a distanza con fulmini, scaricare un Magnete che raggruppa i nemici e usare il fuoco per incendiare l’intera zona, per poi combattere corpo a corpo con le combo scelte dal menu delle abilità; le cose si mettono male, e allora freccina su, X, freccina giù, X e la Fusione Giudizio pompa vita e magia nelle vene, potenziando gli incantesimi e offrendo la possibilità di lanciarli anche mentre ci si muove—ma perdendo ogni abilità corpo a corpo. Il combattimento è dinamico, variegato e incredibilmente strategico, così legato alla tua abilità che non solo è possibile finire il gioco senza mai salire di livello, ma è fornita addirittura la possibilità di disattivare l’esperienza per farlo.
È tutto incredibilmente soddisfacente e dallo skill ceiling assurdamente alto—ma difficilissimo da far digerire al giocatore medio. È un approccio massimalista, con decine di ingranaggi che si incastrano a seconda delle nostre scelte, che prende la massima del lead designer di Ultima Online Raph Koster (“Un gioco d’azione è solo un gioco a turni con sessanta turni al secondo”) e la applica in maniera quasi letterale a una fantasia shonen esplicitamente dichiarata, con richiami visuali che quasi toccano l’omaggio. Mi sono concentrato su Kingdom Hearts 2 invece di parlare della serie nella sua interezza perché la filosofia del franchise, dal punto di vista del design, segue il filone tipico di Nomura: innovazione al posto di iterazione. L’idea di raffinare ulteriormente meccaniche già presenti non è l’obiettivo degli sviluppatori; lo scopo è esplorare un certo tipo di gameplay, usarlo per creare un lavoro interessante e passare a qualcosa di diverso nel prossimo episodio.
Gli elementi action di base ci sono sempre—focus sul movimento, sulle combo, sui riflessi in spazi tridimensionali—ma ogni gioco aggiunge e rimuove parti che vanno ben oltre semplici aggiustamenti. Il passaggio da Kingdom Hearts 2 a Kingdom Hearts 3 rivede completamente le priorità di design della serie, passando dalla gestione di risorse precedenti allo scontro al concatenare combo per accumulare risorse temporanee da scatenare durante una battaglia. Invece di avere delle barre che si scaricano, il giocatore accumula carica attaccando i nemici; superato un certo livello è possibile trasformare la propria arma, cambiando la tipologia di attacchi e aumentando enormemente i danni. Il focus passa dal rischiare di rimanere senza energie al saper accumulare risorse durante gli scontri stessi—un passaggio che continuava a ricordarmi le esecuzioni ricarica-proiettili e vita del reboot di Doom del 2016, eseguito sulla stessa logica.
C’è un grosso dibattito nella comunità sui meriti e demeriti dei vari approcci, sulle diverse scelte fatte dal team di Tokyo e dal team di Osaka, ma ogni gioco presenta la stessa base: un caos creativo molto rischioso che permea l’intera serie, nel bene e nel male, e che per il giocatore tipico dei titoli AAA di punta risulta spesso indigeribile. Sebbene sia stato abbastanza difficile seguire lo sviluppo degli eventi e abituarmi ai continui cambi di gameplay, non ho potuto fare a meno di provare un enorme rispetto per l’intenzione degli sviluppatori di non scendere mai a compromessi per rendere il loro lavoro più facile da approcciare.
Tra arte e mercato
Eppure i compromessi ci sono stati, quantomeno in altri aspetti; Kingdom Hearts non è una mera operazione di marketing ma il legame con Disney ne ha influenzato le scelte artistiche sin dalla nascita. Uno dei più grandi meta-misteri della serie è perché, nel primo episodio, Topolino appaia solo nel finale e vestito unicamente con i classici pantaloncini rossi. La risposta, rivelata da Nomura in Kingdom Hearts Ultimania, è che Disney aveva imposto che Topolino potesse essere usato solo in una scena, solo nel suo costume originale e solo inquadrato di spalle—e questo è il motivo per cui l’intera trama ruota attorno alla sua scomparsa: fare di necessità virtù, lavorare non partendo da una pagina bianca ma in base alla libertà concessa nell’uso di certi personaggi.
Se re Topolino può essere usato solo in una inquadratura deve essere un’inquadratura che lasci il segno, il climax dell’intera opera; la scelta migliore diventa far sì che la storia ruoti attorno a un re scomparso e a un regno in pericolo. Abbiamo una sola scena a disposizione? Allora che sia la scena clou, il momento cardine del gioco che abbiamo atteso sin dal menu iniziale. Con la libertà di mostrare Topolino quanto volessero, non sarebbe stata così potente. Queste situazioni hanno portato però anche a risultati che rasentano il ridicolo: in Kingdom Hearts 3, in cui il successo permise molti meno limiti, c’è un flashback dedicato a mostrare i vestiti di Topolino che vengono distrutti; Tarzan appare solamente nel primo episodio perché gli eredi di E. R. Burroughs non hanno più concesso l’uso del personaggio; Disney ha imposto al mondo di Frozen così tante limitazioni che la trama a malapena ha senso, ed Elsa appare praticamente sullo sfondo.
Quanto vale l’ispirazione artistica se per scrivere una trama bisogna giostrarsi tra decine di dipartimenti di marketing diversi? È un fattore che può essere la goccia che fa traboccare il vaso per molti, ed è impossibile separare il lato commerciale dal lato artistico della serie. Ma resta qualcosa di unico. Resta qualcosa le cui dimensioni e il cui impegno fa impallidire ogni Space Jam, ogni Ready Player One, ogni Marvel VS Capcom e ogni altro tentativo di sinergia commerciale messo in campo nella storia. Le scelte di design, di narrativa e di tematiche sono qualcosa che pochi, pochissimi altri giochi di alta caratura oserebbero fare; alla base della serie, diciannove anni e innumerevoli giochi dopo, c’è una dose di coraggio e di fiducia in sé stessi che lascia quasi scioccati.
Parlare di Kingdom Hearts vuol dire parlare tanto di narrativa e di design quanto di leggi sul copyright; è una serie strana, commerciale, disconnessa, ma allo stesso tempo sperimentale, fertile, con un’energia quasi giovanile e un’incapacità totale di provare vergogna. Per quanto possa sembrare assurdo, Kingdom Hearts resta una serie con una fortissima identità artistica. È uno sfogo creativo per Nomura e una vera e propria palestra per designer e artisti coinvolti. Nonostante i paletti, nonostante gli alti e bassi, nonostante la sinergia aziendale che fa parte dell’idea stessa del progetto, è impossibile provare un qualsiasi Kingdom Hearts senza riconoscere che ha una sua impronta, una sua identità proclamata senza imbarazzo e senza mai fermarsi a far notare quanto sia assurda la sua premessa; giocarci vuol dire rapportarsi con un lavoro in grado di offrire moltissimo se si accetta di prenderlo come vuole essere preso. Kingdom Hearts è amore caotico per Final Fantasy, per i classici Disney e per l’intero mondo dei videogiochi.