È difficile voler male a Katana ZERO. Immerso in una overdose di luci al neon, abbagli notturni ed estetica neo-noir, è il classico prodotto che s’adatta al meglio allo spirito del tempo e del decennio. Il gioco è infatti un miscuglio di influenze e rimandi che sguazzano tra la crisi della memoria rivangata ad ogni pie’ sospinto (si pensi alla parabola mnemonica di Memento e Inception) e l’estetizzazione della violenza più pura (che va dalla ripresa citazionista del Kill Bill di Tarantino a diversi decenni di action movie occidentali e orientali, lungo entrambi gli assi temporali; nonché diverse tonnellate di produzioni a fumetti e d’animazione).
Il risultato, sotto il profilo strettamente videoludico, ha il passo maniacale e rapidissimo d’un Hotline Miami versato nell’impugnare la katana del titolo. E una progressione vicina all’abbozzo più semplice e lineare possibile d’un metroidvania all’acqua di rose. Il protagonista del gioco, un killer-samurai smemorato, traumatizzato e regolarmente dedito all’uso medicamentoso di sostanze, non fa altro che infestare i quadri a scorrimento orizzontale sventrando e lacerando ogni nemico sulla sua strada con l’ausilio dei nostri comandi. Il suo compito viene facilitato dagli ordini anonimi esercitati in busta chiusa, con la mano complice d’uno psichiatra a fare le veci del padre-padrone e un portato amnesico che facilita, e complica, il tutto.
L’utilizzo delle sostanze gli permette poi di ragionare e pensare alle proprie mosse in anticipo, e questo si traduce in termini di gameplay in un’accorta (benché un po’ sempliciotta) gestione dello spazio e dei tentativi di portare a termine ogni quadro o missione. A ogni fallimento e riuscita possiamo infatti rivedere l’iter che ci ha portati al nostro risultato in un rewind mnemonico tanto affascinante quanto ahinoi poco utile.
Permettendoci poi di riprovare qualora avessimo fallito: proprio come se il nostro protagonista stesse immaginandosi l’esito del combattimento nel suo particolare palazzo della memoria e dell’immaginazione. Di fatto, un puro trial & error. Tuttavia, questo, così come altri trucchetti narrativi ed estetici, consentono al giocatore di immergersi nel mondo del gioco con la giusta dose d’immedesimazione e piacere non banali. Inoltre, dà l’occasione di ragionare su questioni inerenti la gestione della violenza e del controllo del tutto avvicinabili ai territori tematici del già citato Hotline Miami.
A far la differenza qualitativa del titolo è comunque la gestione chirurgica dei movimenti del Nostro, unita a un’estetica tutt’altro che originale ma di sicuro impatto. È per questo, infatti, che nonostante alcune debolezze strutturali, una certa brevità dell’esperienza e un territorio di gioco già visto ed esperito innumerevoli volte, il titolo si lascia godere con un piacere a tratti persino sconcertante. Motivo per il quale vale la pena sottolineare quanto sia proprio la dimensione estetica a innestare la marcia in più necessaria a far fruttare la sostanza del gioco. E qui bisogna fare un passo indietro.
Siamo nel pieno del secolo scorso, e un pugno di registi stanno rilanciando con forza il thriller e l’action movie sui generis, innestando in pieno nella dimensione filmica la realtà quotidiana e forzando la critica sociale verso la dimensione antropologica urbana che s’evidenzia nel vivere contemporaneo. Di fatto, con la scusa del vecchio gioco tra crimine e legge si scava a fondo nell’animo umano e nella società moderna. Da questo fortunato scontro nasceranno pellicole facilmente riassumibili come capolavori del cinema d’ogni tempo e luogo, e registi che, a partire dall’ambito televisivo, ridefiniranno poi interi mondi con la forza delle loro visioni.
Pensiamo a Walter Hill e ai suoi The Driver, Streets of Fire e The Warriors, a Michael Mann e Manhunter, The Thief, Collateral, Miami Vice e miscellanea avanzata (persino Dario Argento, o Errol Morris) che porta fino ad oggi, tra un John Wick e l’estetismo di Nicolas Winding Refn, definendo così, di fatto, il cinema contemporaneo nelle sue principali coordinate fotografiche e visive.
È proprio in questa congiuntura visuale che si delinea al meglio la carica immaginifica di questi ed altri film. E proprio qui si delinea un’astrattezza di forme, colori e fotografia che finirà per accogliere al massimo grado lo spirito della contemporaneità tutta. Non è un caso che una pellicola dirimente per il cinema e per l’immaginario contemporanei, quale Blade Runner, e i libri maggiori del filone cyberpunk, vadano a innestarsi proprio tra questi neon e questa palette di colori fluo ma notturni. In questa soglia si muove il presente.
Tra questi orizzonti, anche storytelling, gameplay ed estetica di Katana ZERO diventano un tutt’uno e ci trovano del tutto complici. Abbiamo già percorso questi quadri, siamo già stati gli (anti)eroi di queste visioni. Ci muoviamo a quelle velocità, dentro quei mondi ideali e coloratissimi. L’immedesimazione è totale non perché abitiamo le vesta di un personaggio, ma perché incarniamo e siamo incarnati in queste forme estetizzate, stilizzate e sublimi. È il nostro principale paesaggio mentale. Una transitorietà permanente al sapore di neon e notti illuminate dall’altrove cinematografico.