Se c’è una cosa che gli sviluppatori indipendenti hanno imparato negli ultimi anni, è che la nostalgia è uno strumento molto potente. Mentre molti studi che sviluppano triple-A si sentono obbligati (spesso anche per contratto) a fare giochi che siano all’avanguardia dal punto di vista della tecnica, una comunità di sviluppatori più piccoli sta rivisitando le meccaniche dei vecchi generi alla ricerca di nuove idee.
«Credo che la cosa più importante per noi fosse restituire il calore dei giochi d’avventura classici», dice Heikki Repo, direttore creativo di Cornfox & Bros., lo studio di sviluppo finlandese che ha realizzato Oceanhorn: Monster of Uncharted Seas. Pubblicato nel 2013, il gioco mette il giocatore nei panni di un ragazzo senza nome la cui missione è salvare il mondo dal male. Il solo modo per farlo? Viaggiando da un dungeon all’altro, ovviamente, collezionando armi e abilità, e sconfiggendo il pericoloso nemico che si trova alla fine del percorso. Per caso suona familiare? Certo che suona familiare.
Nonostante giochi come Oceanhorn possano sembrare in apparenza molto in debito con la formula di Zelda, Repo è un fermo sostenitore dell’iterazione dei tratti distintivi più familiari del franchise. «È più lineare di Zelda» dice, «perché abbiamo voluto togliere dall’esperienza di gioco le fasi che fanno da tutorial, e rendere i dungeon più organici». Piuttosto che restare fedeli al passato, gli autori dei migliori Zelda-like mostrano una certa predisposizione all’inserimento nella formula di idee prese in prestito da altri generi.
Questo è vero in particolare per Oceanhorn, come spiega Repo. «Abbiamo alleggerito le meccaniche da RPG, tipo i punti esperienza e il salire di livello come avventuriero. Abbiamo un sistema di magie in cui gli incantesimi vengono usati sia manipolare gli scenari che per combattere. Queste non sono caratteristiche uniche per un videogioco, ma per essere uno Zelda-like lo abbiamo portato nella nostra direzione».
Oceanhorn può essere considerato un gioco originale sotto molti aspetti, ma è comunque possibile dire che non sarebbe mai esistito se Nintendo non avesse posto le fondamenta con il primo Zelda nel 1986—cementando ulteriormente la formula cinque anni dopo con A Link to the Past.
Per Patrick Blank, direttore creativo di Hob di Runic Games, il legittimo desiderio di un designer di reinventare il passato non dovrebbe mai andare a compromettere le caratteristiche che hanno fatto innamorare per la prima volta i giocatori di una certa formula. La domanda a questo punto è inevitabile: ma qual è la formula di Zelda, esattamente? «Un senso di esplorazione, di scoperta, di crescita del personaggio rispetto all’inizio del gioco», suggerisce Blank. «Ci sono così tante cose in ballo, sono sicuro che sia un po’ diverso per ciascuno. Per quanto mi riguarda sono di certo queste cose, combinate con un mondo di gioco interessante all’interno del quale farne esperienza».
Con un avventuriero avvolto in un mantello come protagonista, a cui è affidato il compito di riportare alla vita un mondo distrutto, Hob è stato l’ultimo gioco di Runic Games prima che il suo staff fosse costretto ad aprire un nuovo studio a Seattle chiamato Monster Squad Games, nel 2018. Nonostante questi eventi, Blank ricorda con affetto come il classico Nintendo uscito per NES abbia ispirato lo Zelda-like del suo studio. «Il principale elemento preso in prestito da Zelda è trovare un problema o un percorso che bloccano il giocatore e doverci tornare in seguito dopo aver ottenuto l’oggetto necessario a proseguire», dice. «Abbiamo costruito molto il mondo di Hob intorno a questa idea».
Per quanto sia influenzato da Zelda, Hob è molto meno verboso rispetto alla serie di Nintendo. Al pari di altri apprezzati classici indie come Journey e Limbo, Hob racconta la sua storia senza nessun elemento testuale—una scelta stilistica che ha rappresentato una sfida per gli sviluppatori. «È stato molto difficile da realizzare», afferma Blank, aggiungendo che, se non altro, la mancanza di testo ha costretto il team a fare affidamento ancora di più su idee di design in stile Zelda puramente visive. «Ci siamo basati molto sull’esplorazione, permettendo al giocatore di scoprire nuove aree, con uno storytelling ambientale che in quelle zone suggerisse un evento, o ponesse delle domande», dice. «È intenzionalmente vago».
Hob è uno Zelda-like che conta molto più sull’ambientazione e sull’esplorazione che sul combattimento, perciò gli oggetti tradizionali della serie Nintendo—il rampino, le bombe, il boomerang—sono sostituiti dai semplici movimenti del guanto meccanico del protagonista. Al contrario la hit dello studio indie Heart Machine, Hyper Light Drifter, offre un sistema di combattimento più ricco e più libero. Descritto dal lead developer Alex Preston come una combinazione tra A Link to the Past e Diablo, Hyper Light Drifter ripropone l’aspetto e le caratteristiche di vecchi giochi per SNES con pixel art, ambientazioni e prospettiva dall’alto a 16 bit.
«L’intenzione è di dare al giocatore abbastanza strumenti per renderlo interessato e conservare la sua attenzione», dice Preston, «ma bisogna sapersi fermare prima che questo diventi noioso». Il sistema di combattimento di Hyper Light Drifter è progettato per fare in modo che ciò non accada, con un protagonista equipaggiato con una notevole varietà di armi con cui sconfiggere nemici e boss di ogni dungeon. Il primo Zelda proponeva come attacchi poco più che lanci di frecce e colpi di spada. Hyper Light Drifter si allontana invece da questa impostazione, e di conseguenza ha ritmi molto più elevati rispetto ad altri giochi simili.
Nonostante siano molti i modi in cui i giochi moderni provano a rivisitare i principali elementi di Zelda, si può sostenere che uno Zelda-like sia riuscito solo nella misura in cui lo sono i suoi dungeon. Di certo i sacrari di Breath of the Wild hanno rappresentato una variazione sul tema di base; gli sviluppatori indipendenti, intanto, stanno ancora facendo da portabandiera per i puzzle dei primi titoli di Zelda, e la serie Ittle Dew dello studio svedese Ludosity è un ottimo esempio a questo proposito.
Con uno stile grafico marcatamente in cel-shading, il sequel del 2016, Ittle Dew 2, si fa notare per il suo tono spensierato, facendo apertamente (e con affetto) una parodia della serie da cui trae ispirazione. Dal tutorial chiamato molto appropriatamente Pillow Fort, all’ingannevole Slippery Slope, ogni dungeon di Ittle Dew 2 si focalizza su un tema specifico, in maniera simile a Zelda. Mentre però alcuni dungeon di Zelda erano ben capaci di creare frustrazione (il complicato Water Temple di Ocarina of Time, ad esempio), Joel Nyström, CEO di Ludosity, ha trovato il modo per evitare questo problema in Ittle Dew 2. «Un certo livello di sfida è divertente» dice Nyström, «ma deve anche essere giusto. Perciò abbiamo reso opzionali le sfide più difficili del gioco, riservandole ai giocatori che vogliono mettersi alla prova».
Creare dungeon stratificati e ben bilanciati è cruciale, ma sono sempre di più i giochi Zelda-like che permettono ai giocatori di scegliere l’ordine in cui vogliono completarli—un approccio vicino al design open-world che si trova in molti recenti blockbuster tripla-A. «Per il primo Ittle Dew abbiamo capovolto la struttura secondo la quale in ogni dungeon si trova l’oggetto necessario per accedere al successivo fornendo un negozio in cui comprare gli oggetti, così i giocatori possono affrontare i dungeon in qualsiasi ordine», dice Nyström prima di aggiungere, scherzando, «questa idea ci è stata rubata da un gioco della serie Zelda, A Link Between Worlds, e sicuramente faremo causa a Nintendo».
Per quanto possa essere importante una maggiore libertà di scelta per il giocatore, Patrick Black, autore di Hob, suggerisce che, per quanto riguarda il design dei dungeon, non c’è alternativa al vecchio caro modello di prototipizzazione e iterazione. «Realizzare puzzle divertenti è davvero difficile», ci dice Blank. «Abbiamo prodotto moltissimi prototipi all’inizio e li abbiamo fatti circolare nello studio per ottenere dei feedback. Come ogni altra cosa, la si prova, la si testa, e si vede se c’è qualcosa da aggiungere o da modificare». Questo è stato sicuramente il caso di Hob, spiega Blank. «Molte cose sono state spostate qua e là man mano che nuovi elementi di gameplay venivano aggiunti al gioco, perché tornavamo indietro e provavamo a trovargli spazio nei vari puzzle. È un lungo processo».
In fondo, essendo Zelda una serie che si sa reinventare così bene, ha perfettamente senso che i giochi che provano a riportare i giocatori ai tempi del mix di esplorazione, azione e soluzione di puzzle tipico dei primi titoli si adeguino anche loro ai tempi che corrono. Qualsiasi siano le modifiche o le complicazioni apportate dai giochi indipendenti moderni alla formula originale di Shigeru Miyamoto, tuttavia, c’è una cosa che ogni valido Zelda-like deve saper ricreare: la sensazione di essere un avventuriero solitario e ambizioso che si fa strada in un mondo pericoloso ma affascinante.