Un’intera generazione di giocatori è stata introdotta in una terra di pirati, grog e scimmie a tre teste da queste quattro parole: “nel profondo dei Caraibi”. The Secret of Monkey Island, la creatura di Ron Gilbert, un dipendente di Lucasfilm che aveva in precedenza lavorato a una pietra miliare delle avventure grafiche come Maniac Mansion, e all’engine SCUMM (Script Creation Utility for Maniac Mansion), viene oggi considerato uno dei punta-e-clicca più influenti di sempre. In seguito sono arrivati diversi sequel, molti dei quali sviluppati dopo la fuoriuscita di Gilbert dall’azienda, avvenuta nel 1992 per fondare Humongous Entertainment.
Quando la gente parla delle origini di The Secret of Monkey Island, spesso si riferisce al romanzo On Stranger Tides di Tim Power, pubblicato nel 1987, o all’attrazione Pirates of the Caribbean nei parchi divertimento della Disney. Anche se è verosimile che la Lucasfilm abbia tratto da lì alcuni spunti per il gioco, Gilbert sostiene che sia stata una preoccupazione più urgente a fargli venire l’idea: «tutto è nato dalla frustrazione dovuta al fatto che Sierra vendeva più copie di noi», ricorda Gilbert. «Il motivo sembrava essere che il fantasy era di moda (e lo è ancora). A me il fantasy non è mai piaciuto, non volevo fare un gioco con i draghi. I pirati sembravano un buon compromesso».
Dopo aver messo insieme una squadra di prima qualità di artisti, designer e programmatori, Ron Gilbert iniziò a sviluppare un’avventura grafica sui pirati—sarebbe stato il quinto gioco ad avvalersi dell’interfaccia SCUMM. Tra le personalità riunite allo Skywalker Ranch c’erano Tim Schafer e David Grossman, che contribuivano alla programmazione, alla storia e al design, l’art director Gary Winnick e gli artisti Steve Purcell, Martin ‘Bucky’ Cameron, e Mark Ferrari, solo per nominarne alcuni.
«Avevamo creato un gruppo molto coeso, avevamo parecchio in comune», racconta Winnick. «Avevamo la stessa età e il medesimo senso dell’umorismo. Inoltre avevamo già lavorato insieme ad altre avventure come Maniac Mansion, Zak McKracken, Loom, e Indiana Jones and the Last Crusade». «Era un gruppo molto piccolo ma anche molto affiatato», dice Ferrari, che ha realizzato gli sfondi di The Secret of Monkey Island. «L’intera squadra spesso si riuniva nell’ufficio di Gary Winnick in un fienile dello Skywalker Ranch, e seduta in cerchio discuteva il gioco in termini generali. Si parlava delle storie dei personaggi, della grafica, dello storyboard, della trama, delle battute, degli enigmi».
The Secret of Monkey Island inizia con l’arrivo a Mêlée Island di un giovane e volenteroso Guybrush Threepwood, desideroso di diventare un temibile pirata. Poco dopo aver superato le tre prove preparate dai pirati locali, però, viene al corrente di un sinistro piano di rapimento e si mette all’opera per liberare la governatrice locale Elaine Marley dal malvagio pirata fantasma LeChuck—il cui nascondiglio si trova nelle incandescenti caverne di Monkey Island. Detta così sembra una tradizionale favola piratesca, ma The Secret of Monkey Island è tutto il contrario. Nel world building vengono inclusi infatti innumerevoli elementi anacronistici, tra cui meta-riferimenti allo sviluppo dei videogiochi, allusioni ai parchi divertimento, e una versione mai vista dei combattimenti all’arma bianca in cui la qualità degli insulti viene prima dell’abilità nel maneggiare una spada.
«Abbiamo guardato film sui pirati per entrare nel giusto spirito—pellicole come Captain Blood», racconta Dave Grossman. «Ma quando si è trattato di scrivere i dialoghi, è facile notare come molti personaggi parlino in maniera anacronistica e sicuramente non piratesca. Stan, il venditore di barche, ad esempio è in parte modellato su Cal Worthington, venditore californiano di auto usate e personalità televisiva. Essere divertente era più importante rispetto all’essere autentico o piratesco, e penso che siamo stati influenzati dai media popolari degli anni ‘70 almeno quanto dal resto di tutte le altre fonti di ispirazione».
Alla sua uscita The Secret of Monkey Island ha ricevuto recensioni positive, ma le vendite furono modeste secondo Ron Gilbert. Ad ogni modo furono sufficienti a convincere Lucasfilm a dare il via libera a un sequel. Così, dopo una pausa di due settimane, gli sviluppatori iniziarono a lavorare al seguito, Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge. Più o meno in quel periodo ci furono importanti cambiamenti in Lucasfilm. L’azienda diventò più grande e il suo ramo videoludico venne rinominato LucasArts e trasferito dallo Skywalker Ranch, i cui ambienti stimolavano la creatività, in un complesso di uffici della Allstate a San Rafael.
Per molti membri del team questo rappresentò un passaggio a una dimensione più impersonale e d’impresa—un’impressione che portò alcuni dipendenti della LucasArts, tra cui Ferrari, a dimettersi in segno di protesta. Nonostante questi cambiamenti il lavoro al sequel continuò, con una storia ambientata subito dopo il finale di The Secret of Monkey Island in cui Guybrush sconfiggeva LeChuck. Guybrush si trova questa volta sulle tracce del tesoro di Big Whoop, e deve vedersela con il perfido Largo LaGrande e con un LeChuck risorto in versione zombie.
Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge è stato un altro successo per LucasArts, in parte grazie ai molti miglioramenti apportati rispetto al primo gioco. Monkey Island 2, ad esempio, presenta i bei fondali disegnati a mano dagli artisti Steve Purcell e Peter Chan, che hanno dato uno stile più definito alla grafica del gioco. Il sequel si è inoltre giovato dell’arrivo di iMUSE, ossia l’Interactive Music Streaming Engine creato dai compositori Michael Land e Peter McConnell, grazie al quale fu possibile una fluida, ininterrotta transizione tra diverse tracce musicali mentre Guybrush si spostava da una schermata all’altra.
Il gioco in ogni caso non è stato esente da controversie; il suo ambiguo finale—che lo faceva sembrare il secondo capitolo di una trilogia concepita da Gilbert—è stato particolarmente divisivo. Il finale vede Guybrush e il pirata zombie LeChuck scontrarsi nei tunnel sotto Dinky Island, fino all’apparizione di un addetto di un parco giochi, e alla trasformazione dei due personaggi in una coppia di fratellini litigiosi. Il dibattito su quale sia il significato di questo finale infuria ancora oggi; alcuni sono convinti che tutto ciò voglia dire che gli eventi dei primi due giochi appartengono solo all’immaginazione dei due bambini, mentre altri sostengono si tratti di un’altra magia voodoo di LeChuck.
Gilbert ha lasciato la LucasArts tra Monkey Island 2 e il successivo sequel del 1997, The Curse of Monkey Island, realizzato da un nuovo team creativo con a capo Larry Ahern e Jonathan Ackley. Creare un seguito di Monkey Island 2 ha rappresentato una vera sfida per i nuovi responsabili della serie: a causa dell’abbandono di Ron Gilbert e dell’ambiguità del finale del secondo capitolo, c’erano confusione e incertezza su come la serie avrebbero dovuto continuare. Avrebbero dovuto creare un sequel diretto, partendo dagli eventi del gioco precedente? Oppure sarebbe stato meglio ignorare quel finale e ripartire da zero, rivolgendosi a una nuova platea di giocatori?
Alla fine optarono per una via di mezzo, e così l’inizio di The Curse of Monkey Island è ambiguo quasi quanto il finale del gioco precedente. In apertura troviamo Guybrush da solo alla deriva in mezzo al mare, su una macchina a scontro, dopo essere in qualche modo fuggito da quella strana situazione festosa con cui si chiudeva il secondo capitolo. Era una soluzione intelligente, che permetteva di dare un seguito alla storia liberandosi del lascito del finale di Monkey Island 2. Dopotutto erano passati alcuni anni tra The Curse of Monkey Island e il suo predecessore, e iniziare un’avventura piratesca all’interno di un parco giochi nel presente sarebbe stata un po’ una truffa per i nuovi giocatori.
Una delle novità più rilevanti fu lo stile grafico. La decisione venne presa fin da subito per dare al gioco un aspetto diverso rispetto ai primi due—un aspetto decisamente ispirato ai cartoni animati. Il team artistico ha lavorato dalle otto alle dieci settimane con i lead designer per mettere insieme un gran numero di punti di riferimento, prendendo spunto dai dipinti di MC Wyatt, dalle copertine per il New Yorker di Peter De Sève, dalla serie animata d’avanguardia Duckman. Volevano soprattutto che i personaggi questa volta avessero una presenza più importante—una cosa che non era possibile nei capitoli precedenti.
«In precedenza quando realizzavi l’animazione di Guybrush dovevi sfumarlo», spiega il background artist Bill Tiller. «I pixel non erano abbastanza sottili per fare un contorno. Ogni volta che si lavora su un’animazione, si parte dal contorno—si disegna Topolino, dopodiché si riempie con il colore. Ma con Guybrush non era possibile farlo. I pixel erano troppo piccoli. Non si poteva disegnare un contorno di Guybrush e poi inserire il colore. Era necessario disegnare e sfumare ogni singola animazione. Mentre adesso con con l’alta risoluzione è possibile disegnare il contorno, proprio come in un normale lavoro di animazione».
Oltre a questo ambizioso nuovo stile grafico, ai personaggi è anche stata data una voce per la prima volta nella serie. «Abbiamo tutti amato soprattutto Wally il cartografo e Murray il teschio parlante», racconta Khris Brown, che è stato senior voice editor in The Curse of Monkey Island. «Naturalmente Dominic è stato grande nei panni di Guybrush, e ci sono stati molti soliti noti, ad esempio Earl Boen come LeChuck, Denny Delk in molteplici ruoli, e Tom Kane come Captain Rottingham, e con tutti loro ho continuato a lavorare in seguito».
Quando The Curse of Monkey Island venne pubblicato nel 1997, le recensioni furono positive. Vennero elogiate la nuova grafica e la recitazione degli attori, ma ancora una volta il finale fu oggetto di discordia, perché molti lo trovarono un po’ affrettato. Non fu a causa degli sviluppatori, i quali passarono in studio gli ultimi mesi proprio per anticipare il finale programmato dopo che erano finiti i soldi e il tempo a disposizione.
Nonostante questo punto debole, il gioco fu un altro successo per LucasArts, che perciò diede il via libera alla produzione di un nuovo sequel per l’anno successivo. I designer questa volta però non sarebbero stati Ackley e Ahern, che passarono il testimone a Mike Stemmle e Sean Clark, già autori di Sam & Max: Hit The Road. «Mi sarebbe difficile ricordare esattamente le circostanze che portarono alla creazione del gioco», racconta Stemmle. «Probabilmente ne iniziammo a parlare poco tempo dopo che il mio progetto mai uscito [Justice Unlimited] venne cancellato e io mi presi sei settimane di pausa per girare in macchina il paese e riordinare un po’ le idee».
Escape from Monkey Island fu il primo capitolo in 3D della serie e il secondo e ultimo gioco ad avvalersi dell’engine GrimE precedentemente usato in Grim Fandango. Secondo Kim Lyons, uno dei background artist di Escape from Monkey Island, fu lo studio a spingere perché il gioco fosse in 3D. Di conseguenza l’art director Chris Miles decise di dare alla serie una grafica in stile Pixar. A questo scopo per i disegni e le animazioni molti artisti vennero reclutati direttamente nei college, e una buona parte del personale già esistente venne messa a studiare l’arte della modellazione in 3D. «Escape from Monkey Island è stato il mio primo lavoro in 3D, e probabilmente potrei dire stessa cosa per il 90% del team», spiega Miles, «perciò è stato necessario seguire una curva di apprendimento. Ad un certo punto c’erano cinque differenti artisti al lavoro sugli scenari di questo progetto, e abbiamo lavorato a stretto contatto con il concept team e l’art director».
All’inizio di Escape from Monkey Island Guybrush ed Elaine tornano dalla luna di miele con cui si chiudeva The Curse of Monkey Island giusto in tempo per scoprire che Elaine è stata dichiarata morta e il carismatico personaggio Charles L. Charles è in lizza per prenderne il posto in qualità di governatore. Mentre Elaine si adopera per riguadagnare il suo ruolo, Guybrush si mette alla ricerca di un cimelio della famiglia di Marley chiamato l’Insulto Supremo per ostacolare i piani del malvagio imprenditore australiano Ozzie Mandrill, che vuole trasformare i Caraibi in una trappola per turisti.
Alla sua uscita Escape from Monkey Island ha ricevuto recensioni positive, ma da allora i fan della serie lo hanno giudicato con maggiore severità. Le critiche si concentrano sulla storia, che contraddice momenti chiave dei capitoli precedenti, trasformando ad esempio il naufrago Herman Toothrot nel nonno a lungo disperso di Elaine; sui controlli tank (dovuti al fatto che fu il primo Monkey Island a uscire su console); sul famigerato Monkey Kombat, la complicata nuova versione del sistema di combattimento basato sugli insulti. Oggi Stemmle ammette molti di questi difetti, riconoscendo uno sforzo eccessivo nel provare a ricollegarsi agli altri episodi della serie, anche se difende il Monkey Kombat, sostenendo la bontà dell’idea di fondo.
Dopo Escape from Monkey Island la serie è rimasta in sospeso per alcuni anni, prima di essere infine ripresa da Telltale Games con Tales of Monkey Island. Telltale era lo studio ideale per un’operazione simile, dal momento che era stato fondato nel 2004 da alcuni ex sviluppatori di LucasArts, tra cui Troy Molander, Dan Connors e Kevin Bruner, in seguito alla cancellazione di Sam & Max: Freelance Police e del sequel di Full Throttle.
Tales of Monkey Island ha riunito diversi creativi che avevano lavorato in precedenza sulla serie, inclusi Ron Gilbert, Chuck Jordan, Dave Grossman (che è stato al capo del progetto) e Steve Purcell (che ha realizzato la copertina). Lo stile ha di nuovo subito un cambiamento, dato che il team ha abbandonato gli sfondi pre-renderizzati per passare a scenari in un 3D autentico. È stato anche il primo gioco della serie pubblicato a episodi, allo stesso modo di altre avventure grafiche targate Talltale. Per i più giovani alla LucasArts, lavorarci è stato un sogno divenuto realtà. «Monkey Island è stato un gioco formativo negli anni della mia infanzia», racconta Mark Darin. «Ha influenzato il modo in cui io e i miei amici concepivamo l’umorismo e i media interattivi».
La storia di Tales of Monkey Island vede Guybrush, mentre combatte contro LeChuck sulla sua nave, liberare maldestramente una maledizione sui mari. Per sistemare le cose, si mette alla ricerca di El Esponja Grande, una leggendaria spugna marina in grado di annullarne gli effetti. Sulla sua strada incontra cacciatori di taglie, dottori fuori di testa, e una versione stranamente amichevole del suo arci-rivale LeChuck. Il gioco fu una boccata d’aria fresca per i fan di Monkey Island, ma ne rimase anche il capitolo finale, perché con l’acquisizione di Lucasfilm da parte di Disney il futuro della serie entrò in un limbo nel quale rimane tuttora oggi.
«Avevamo alcune vaghe idee su cosa sarebbe potuto succedere in seguito, ma non ci siamo mai messi a pensarci troppo a lungo», dice Darin. «Principalmente si trattava solamente dell’idea che la Voodoo Lady avesse ancora qualche asso nella manica. Penso che stessimo fondamentalmente aspettando il momento in cui avremmo trovato Ron Gilbert completamente ubriaco in modo da fargli rivelare quale fosse l’idea originale per Monkey Island 3! Purtroppo ciò non è ancora mai accaduto».
Ancora oggi a molti piacerebbe vedere un nuovo capitolo di Monkey Island. Perché alla gente ancora importa, dopo tutti questi anni? Come mai questo gioco ha una community così appassionata e duratura nel tempo? Bill Tiller crede di conoscere la risposta. «Penso che Monkey Island riesca a catturare il desiderio di evadere e di avere un’avventura pazzesca con personaggi divertenti in paesaggi spettacolari», dice. «L’umorismo è incredibile. I puzzle sono scemi e impegnativi e simpatici da risolvere. Le battaglie a suon di insulti fanno molto ridere. Credo sia per questi motivi che è durato—e che ci sono così tanti giocatori con una vera passione per Monkey Island».