Dura tre giorni il delirio dei Ragazzi del Sole, Claudio, Mida e Andrea, in Mediterranea Inferno. Tre giorni è durata anche la mia unica run con la visual novel di Santa Ragione, opera seconda di Lorenzo Redaelli, giusto a un anno dalla sua uscita, in pieno agosto, poco dopo i giorni dell’Assunta.
Tre giorni per non veder tornare nessuno dalla tomba: nessuna resurrezione, nessuna assunzione, nessuna ascesa al cielo. Un esorcismo fallito, ambientato in una terra, la Puglia, che ha elevato l’esorcismo a puro rito estetico senza più estasi. E proprio l’estasi, come la vacanza estiva, è il punto centrale di Mediterranea Inferno.
Da pugliese, ho giocato Mediterranea Inferno per vedere finalmente la mia regione attraverso gli occhi dei turisti milanesi che qui vengono a fotterci aria e spazio in spiaggia mentre noi, in questo reciproco gioco di seduzione, tentiamo di fregarli con le frise gourmet a quindici euro e i trulli elevati a lusso dell’accoglienza. La Puglia che ha dimenticato le feste per santificare i festival, quella dell’immaginario turistico che ha conquistato il mondo, che col G7 del 2024 nel finto villaggio di Borgo Egnazia ha definitivamente sdoganato la pizzica, le nonne che preparano le orecchiette, le luminarie, l’ulivo (anche se mangiato dalla Xylella) per farne pura immagine che rimanda ad altre immagini senza più racconto.
Per fortuna, la Puglia di Mediterranea Inferno è molto diversa da tutto questo. Sì, ci sono i panzerotti, le Cycas, i manifesti funebri e le architetture rurali, e sì, nella rappresentazione offerta da Lorenzo Redaelli c’è sicuramente dell’esotismo, lo stesso che attrae un certo tipo di viaggiatori notturni da serate elettroniche più che da sagre e feste patronali—ma siamo in presenza di una visione autoriale, decisamente riuscita. Nella Valle d’Itria al negativo di Mediterranea Inferno non splende mai il sole, i colori sono sempre acidi, le forme piatte, anche in spiaggia il cielo ha un che di vaporoso, asfissiante, e il mare è una sgradevole distesa di gradienti grigi senza fine. Le notti sono lunghe e misteriose, le forme di volti, oggetti e corpi emergono come incubi dal buio, le luminarie ridotte a sagome ricamate attorno al porpora di centri storici chiusi a riccio attorno al nulla—tutto accompagnato dalla colonna sonora elettronica ossessiva, sensuale e melanconica curata dallo stesso Redaelli.
A tutti gli effetti è la rappresentazione drammatica di un meridione infestato non dal diavolo ma da Cristo, per usare le parole della scrittrice Flannery O’Connor a proposito del sud degli Stati Uniti. Rimanendo in ambito letterario, è una Puglia che fa pensare a quella di un romanzo cupo e selvatico come La ferocia di Nicola Lagioia, oppure a quelli pulp e grotteschi di Omar Di Monopoli. Una terra truce, violenta nel suo radicarsi ancestrale e al tempo stesso completamente slegata da qualsiasi forma di fede che non sia pura apparenza.
Le icone religiose ovviamente non mancano, in Mediterranea Inferno. Si tratta tuttavia di santini svuotati di senso come la Taranta e quel grande, diffuso esorcismo che un tempo curava pazzia, deliri, inciampi mentali e pene d’amore—la cosiddetta “crisi della presenza”, stando a Ernesto De Martino—per essere definitivamente soppiantato da farmaci e sostanze nel corso del secondo Novecento.
I tre amici protagonisti del racconto sono ammalati proprio di questa “crisi”, oggi forse estesa ormai all’Italia e all’Occidente intero, per giunta potenziata dalla sua variante post-pandemica e aggravata dalla giovane età di Claudio, Mida e Andrea; i quali scopriranno presto che bottigliette di madonne di Međugorje e padrepii non sono che elementi d’arredo urbano e domestico—puro design—in cui nemmeno i pugliesi credono più, se non quando si tratta di lasciarli distrattamente in giro per il diletto e le instagrammate degli epigoni dell’inflazionato Martin Parr.
Stretti nella morsa di un passato che non passa e non genera futuro, i Ragazzi del Sole cederanno quindi alle tentazioni offerte da Madama, figura che incarna insieme il diavolo e un Cristo femmineo (ma anche Dioniso, tanto presente pure nell’esorcismo della Taranta), il cui nome allitterato riporta pure all’MDMA, sorta di sacra ostia in cristalli che qui prende la forma di un succulento fico d’India.
Tra i pochi elementi di gameplay puro della visual novel, il frutto spinoso si può sbucciare per vederlo colare languido fino ai genitali dei tre ragazzi e dare avvio a un miraggio, oppure mangiare per intero ingoiandone anche le spine, come penitenza per aver giocato (e vissuto) male e accedere così all’incubo.
Ma tanto il miraggio che l’incubo portano su un piano dimensionale senza sbocchi. Se il miraggio eccita Claudio, Mida e Andrea e li illude che una possibilità di emancipazione esista, che ci sia fine alla “crisi della presenza”, l’incubo li riporta alla dolorosa irrealtà della realtà che torneranno a vivere dopo la vacanza: l’apparenza dei social, la solitudine, l’assenza di futuro, l’apatia, l’incapacità d’ascolto, il nichilismo di una generazione tagliata fuori da ogni racconto pubblico appena decente in un Paese di vecchi di merda.
In particolare nella dimensione ulteriormente acida e onirica dell’incubo anche la Puglia perde consistenza, limitandosi a fare da sfondo per l’evolversi del plot. I flashback ci riportano in una Milano piovosa, ridotta a render da architetti alle prime armi, dove la violenza ha avuto inizio. Nel finale il racconto si sposta definitivamente sul rapporto a tre dei ragazzi, sulla loro disperazione senza via d’uscita dalla bolla omosessuale in cui sono rinchiusi, vera e propria prigione dell’identità che da fluida si è cristallizzata nell’adesione a una rappresentazione univoca che tuttavia garantisce il successo (almeno sui social, almeno per un influencer come Mida). E qui troviamo un parallelo sia culturale che politico nell’autorappresentazione per cliché che investe tanto la comunità queer che quella pugliese—l’equivoco cioè di insistere su un’identità sì riconoscibile, ma che al contempo spinge alla conservazione di sé anziché alla trasformazione continua tanto a lungo inseguita e desiderata.
Ma c’è ancora molto, tanto altro, in Mediterranea Inferno, e questo forse diventa il peso maggiore che la visual novel deve sopportare: troppi temi, tutti insieme, a fare da tappo al racconto, mentre i suoi protagonisti diventano sempre più verbosi, a volte anche un po’ didascalici, dando l’impressione di dar voce alle idee dell’autore più che ai loro pensieri.
Non ho rigiocato Mediterranea Inferno fino al vero finale perché—e in questo il titolo di Santa Ragione centra indubbiamente il suo obiettivo—mi ha disturbato, trasmettendomi tutto il disagio della cosiddetta Gen Z (che noia, queste etichette), un disagio profondo e nerissimo che per questioni anagrafiche mi è capitato solo di accarezzare tramite amicizie più giovani. Claudio, Mida e Andrea sono bambini perduti nel luna park orrifico che la generazione dei padri ha lasciato loro in eredità, un paesaggio di rovine da cui qui e lì spuntano idoli—le tombe di Milva, Vitti, Battiato e Lina Wertmüller nel cimitero di Martina Franca—che tuttavia tendono a schiacciare chi li adora.
Una generazione per cui tutto diventa nostalgia o disprezzo, ogni cosa digerita come mito inarrivabile del passato o respinta come inaccettabile feticcio che non può trasmettere altro che chiusura e repressione, decretando dunque l’impossibilità del passaggio di qualsiasi testimone (come dal nonno Nino al nipote Claudio). Così tutto viene rimasticato in flaccido design, in pura reliquia estetica, poiché orfano del sacro come del resto la terra in cui Mediterranea Inferno è ambientato.
L’estasi come liberazione non esiste, specie d’estate, quando tutto è colmo d’ebbrezza di libertà e perennemente allucinato nell’immobilità di una stella che tarda a collassare su sé stessa. In questa mesta attesa in Italia abbiamo quantomeno trovato la voce di un autore talentuoso, Lorenzo Redaelli, che se curata e affinata come merita, in futuro avrà ancora molto da dire. È futuro anche questo.